Portogallo 2004

Campionati Europei di Calcio

 

articoli di

Davide Rossi

 

pubblicati per “La Rinascita della sinistra”

giugno – luglio 2004

 

www.larinascita.net

 

In Portogallo, pronti a emozionarci

di Davide Rossi

 

A trent’anni da quel 25 aprile di garofani rossi che ha visto un popolo farsi rivoluzionario, insorgere e cacciare il più duraturo tra i regimi del Novecento, il Portogallo si appresta ad ospitare la XII° edizione del Campionato Europeo di calcio. Per le strade di Lisbona come di Porto giganteggia in grandi cartelli pubblicitari sponsorizzati da una banca l’undici rossoverde, accompagnato dalla scritta “abbiamo un sogno”. Pure l’ Italia di Trapattoni ne coltiva uno, affidato alle invenzioni di Totti, Vieri e Cassano. La storia dell’Europeo tuttavia nasce in sordina nell’anno 1960. L’Italia non partecipa a quell’edizione, è tutta proiettata verso le spiagge del primo “boom” economico e le olimpiadi capitoline di settembre. Per i giochi di Roma la squadra giovanile porta in campo Rivera, ma sarà soltanto quarto posto, neanche medaglia di bronzo. Ai primi Europei si iscrivono in diciassette e la Spagna si ritira ai quarti di finale perché non vuole incontrare i sovietici che vinceranno con Jascin in porta. Nel ’63 ai quarti l’URSS incontra per la prima volta l’Italia, si gioca allo stadio Lenin, capitan Maldini e gli azzurri si arrendono 2 a 0. I sovietici campioni in carica affrontano nella finale del ’64 la Spagna che, pur nella diffusa povertà, nel generale livello di analfabetismo, è costretta ad imbandierarsi a festa. Il fascista Franco che nel ’39 ha soffocato la straordinaria esperienza repubblicana, vuole che i venticinque anni di dittatura vengano trionfalmente ricordati, la finale tuttavia agita i sogni dei gerarchi e ai calciatori, tra cui Suarez, prima della partita viene fatto capire che se vinceranno, saranno lautamente premiati, altrimenti avrebbero dovuto rispondere del disonore. Il giorno dopo i giornali iberici titolano a tutta pagina che non di una partita si è trattato, ma della vittoria della libertà contro il male comunista. Nel ’68 le piazze d’Europa si colorano delle bandiere rosse della contestazione giovanile, anche in Italia scuole e università sono in fermento, ma la notte del 10 giugno per le strade, nei paeselli come nelle città, le bandiere sono azzurre. Ferruccio Valcareggi, allenatore triestino, uomo pratico e sensato, vince l’Europeo organizzato in casa sconfiggendo grazie a Domenghini, Riva e Anastasi la Jugoslavia in una doppia finale, perché un tempo non erano previsti calci di rigore. Certo un arbitro tedesco occidentale ci ha aiutato a Napoli in semifinale, contro i sovietici infatti dopo i supplementari finiti 0 a 0 il regolamento parla chiaro, si deve tirar una monetina. L’arbitro rientra nel sottopassaggio con i capitani Facchetti e Scesternev, si sceglie testa o croce, si lancia la monetina, ma questa cadendo s’incastra nella grata perpendicolarmente, Facchetti la raccoglie al volo e con il consenso arbitrale torna sul campo mostrandola al cielo, ai compagni e agli spettatori, che salutano esultanti. Le edizioni del ’72 e del ’76 vengono vinte da Germania Ovest e Cecoslovacchia, gli azzurri arrancano nel primo caso pur avendo in campo i vicecampioni del mondo di Mexico ’70, nel secondo, guidati da Fulvio Bernardini, vengono eliminati dall’Olanda di Cruyff, nonostante i tanti giovani e i gol di Boninsegna. L’Italia ospita gli europei dell’80 e in contemporanea con la sfida tra gli azzurri e gli inglesi si svolge nella tranquilla Venezia l’incontro del G7, la Russia è ancora comunista e il movimento no global ancora lontano. In quell’occasione le convergenze politiche tra l’iperliberista signora Tacher e il presidente del consiglio Cossiga si trasformano anche in profonda simpatia umana, al punto che Forattini, allora ancor capace di far sorridere, illustra la vittoria per 1 a 0 con gol di Tardelli ritraendo Cossiga in braghette da calcio e la signora di ferro in un preoccupato stato interessante, a forma di pallone. L’Italia campione del mondo nell’82 non va agli europei dell’84, incespicando malamente su tutti i campi, pure a Cipro, la vittoria sarà dei francesi di Platini.  L’allenatore azzurro Bearzot cercherà di farsi perdonare portando la nazionale alle olimpiadi di Los Angeles, ma dopo una risicata vittoria con l’Egitto non si arriva oltre il quarto posto. Nell’88 trionfa l’Olanda di Gullit e Van Basten. Tra il ’90 e il ’92 l’Europa cambia parecchio, così se le qualificazioni le hanno vinte l’URSS e la Jugoslavia, a giocare in Svezia vanno una vaga squadra della Comunità degli Stati Indipendenti con una maglietta a scacchi bianca e nera, senza inno né bandiera e la Danimarca, ripescata perché le neonate nazioni balcaniche sono passate dai palloni ai pallettoni di un una guerra feroce e le cui ferite ancor oggi non si sono del tutto rimarginate. Proprio l’allegra compagine danese vincerà il torneo a dimostrazione ancora una volta dell’imprevedibilità del calcio. Nel ‘96 passando per la penisola il premi Nobel Gunter Grass annota: “ho visto i manifesti elettorali di un pescecane multimediale e dei suoi alleati fascistoidi, ma anche di un’alleanza di centrosinistra sotto il segno dell’Ulivo”, in estate l’Italia di Sacchi esce malamente dagli europei inglesi vittima della sottovalutazione di avversari come i cechi che ci superano giocando bene e con campioni come Nedved e Poborsky. Nel duemila Totti e compagni hanno in mano il titolo, grazie all’abile guida di Zoff, è infatti  l’ultimo minuto, eppure l’incredibile accade, due gol francesi in pochi minuti e l’Italia è seconda. Berlusconi schietto schietto la mattina dopo  spiega a Zoff e agli italiani che si è perso perché mancava un mediano, possibilmente della suo Milan, come Gattuso. Zoff ringrazia e dà le dimissioni. Da allora Berlusconi non ha smesso di debordare con arrogante presunzione in ogni sfera dello scibile, tuttavia è sempre meno ascoltato, ad esempio vuole un Milan a due punte, ma Ancelotti vince lo scudetto giocando con una, a dimostrazione che il padrone di Forza Italia è ormai costretto, seppur a malincuore, a riconoscere che pure nella sua “azienda” - che confonde calcio, politica, affari e televisione - le persone preferiscono pensare con la loro testa.

 

 

Il ridicolo ritorno dell’Italietta degli anni ‘50

di Davide Rossi

 

L’europeo di calcio si avvia alla conclusione, ma drappi e striscioni azzurri e tricolori sono da oltre una settimana ben ripiegati e riposti in fondo ai cassetti dei nostri armadi.

Abbiamo assistito al ridicolo ritorno dell’Italietta degli anni ’50, capace d’essere sempre eliminata nonostante le pretese di vittoria sbandierate con largo anticipo ai quattro venti. Come allora serpeggia tra i giocatori della nazionale una narcisistica sopravalutazione di sé stessi, una megalomania tanto buffa quanto il gioco lento e lezioso, anche questa volta infatti siamo primi per passaggi di tacco e ultimi per contropiedi. Quando poi si sta perdendo, ecco ridestarsi un rigurgito d’orgoglio e vedere i nostri giocatori gettarsi sotto la porta avversaria in preda ad una foga pedatoria tanto audace quanto confusa e priva d’idee. Alla fine ci si riduce ad un traccheggiare esanimi nella speranza dell’impossibile, come i greci sotto le mura di Troia, salvo che per loro dopo dieci anni d’interminabili battaglie Ulisse inventò un geniale cavallo di legno. Davvero non c’è differenza tra l’inconcludenza e il gioco disastroso di Vieri e Del Piero nel 2004 e l’arruffato arrembarsi sotto la rete avversaria di Frignani e Pandolfini ai mondiali del 1954, quando si perse due volte con la Svizzera, battendo il solo Belgio a Lugano, nel vicino e amico Canton Ticino, insomma, quasi giocando in casa. Bisognerebbe chiedere alla RAI di accompagnarci nella canicola estiva con la riproposizione, magari nell’ora postprandiale, di questi incontri di repertorio. Stesso gioco, stesse anticipate dichiarazioni trionfalistiche, Totti proclamava un mese fa vicina la finale e nel ’50 – ai mondiali brasiliani - si scherzava pensando alla Svezia per poi perdere 3 a 2, sconfitti da Skoglund e Jeppson. Nel ’58 si veniva eliminati addirittura nelle qualificazioni, nonostante gli oriundi Ghiggia e Schiaffino, i due più grandi urugaiani di tutti i tempi, avessero cercato di salvare il salvabile, come l’esuberante e fantasioso Cassano, l’infaticabile Zambrotta e il nuovo oriundo italo-argentino Camoranesi oggi. Gli europei allora non esistevano, al loro posto una Coppa Internazionale disputata dalle nazioni dell’Europa centrale, altra buona occasione per collezionare sonore sconfitte e larghe figuracce contro l’Ungheria di Puskas (0 a 2) e la Jugoslavia di Mitic (0 a 4 e 1 a 6). Trapattoni paga soprattutto per irresponsabilità, incapacità di scegliere, o si attacca come con Sacchi, o ci si difende e si costruiscono rapide azioni di risposta come con Cesare Maldini, lasciare i giocatori senza schemi, chiedendo un po’ un gioco, un po’ un altro, porta alla deriva, anzi affonda proprio ogni speranza.

A rendere il tutto farsesco si aggiunge l’ipocrisia rispetto al risultato degli avversari, come se l’Italia, non solo del pallone, non fosse da sempre pronta a mettersi d’accordo, quando si può. In televisione Mazzola e Carraro lasciano senza parole, nel ’74 coi polacchi di Lato loro due andarono a piagnucolare la richiesta di un pareggio nell’intervallo della partita comunque persa in quei mondiali per 2 a 1 con conseguente eliminazione.

A metà agosto si aprono i Giochi di Atene e i giovani allenati da Claudio Gentile, freschi campioni d’Europa grazie ai gol di Gilardino, sono chiamati a inseguire un alloro che manca dal 1936. Auguriamoci non facciano la fine degli azzurri più famosi - tanto ingloriosamente costretti ad abbandonare frettolosamente i campi lusitani - e di altri giovani, quelli del ’52, che, guidati da Peppino Meazza, parteciparono alle Olimpiadi di Helsinki, smarrendosi molto presto tra le betulle e i larici della ridente Finlandia.

 

 

Vince il “catenaccio operaio” di Otto Reahhgel

di Davide Rossi

 

Milano come Londra, Parigi come Madrid, Berlino come Roma. Che cosa accomuna le metropoli delle più importanti nazioni europee? Non è facile accorgersene, anche i più incalliti appassionati di calcio da diversi giorni vanno al lavoro senza prestare troppa attenzione ai cartelloni pubblicitari, complici forse, più a Berlino e Roma che a Milano, gli alberi in fiore. Scarpe da calcio, magliette, acque minerali, pelati, occhiali da sole, cetriolini, biscotti e spaghetti. Tutti promossi con volti sorridenti dai campioni nazionali, spesso accompagnati da frasi che non possono essere più ridicole, “i migliori maccheroni”, campioni “anche” a colazione. Italia, Germania, Spagna, seguite immediatamente da Francia e Inghilterra sono state eliminate nelle prime fasi dell’europeo portoghese. Le sicure favorite, le grandi squadre, quelle che vantano giocatori pronti ad autoproclamarsi “galattici”, quando di galattico hanno solo il contratto e non il gioco, quelle che pretendono di esprimere i “campionati più belli del mondo”, hanno rimediato, chi più, chi meno, modeste figure. Occorre allora interrogarsi. Un sistema è entrato in corto circuito, ma, per quanto possiamo augurarcelo, difficilmente è al capolinea, troppi interessi. Sponsor diretti e indiretti, da quelli che decidono il modello di calzature che il tal giocatore deve indossare durante la partita a quelli della caciotta affumicata del paesello d’origine, quindi i procuratori dei calciatori e le squadre di appartenenza che investono su alcuni nomi, i quali “necessariamente” devono essere portati in nazionale. È forse eccessivo sottolineare che Gilardino sui cartelloni non c’è, ma Totti, Vieri e Del Piero sì? Esagerato aggiungere che Beckham e amici sembra si siano preoccupati poco della preparazione atletica e molto di filmare  - qui sì come protagonisti  - spot televisivi, trasmessi per un mese su tutte le televisioni del continente? Né si può escludere poi dal discorso un certo tipo di stampa che trova titoli a nove colonne per le cronache amorose di questi presunti campioni. Considerazioni critiche e domande pesanti come macigni cadono su un mondo del calcio che da gioco pratico in ogni luogo con passione, come tante pagine di Pasolini ci hanno insegnato, si vuole trasformare in azienda-calcio, un’impresa con tanto di utili da rendicontare a fine mese. Il coacervo di interessi - e di persone interessate - a conservare questo sistema esce profondamente scornato dal campionato europeo, conclusosi con il confronto tra Portogallo e Grecia, approdate entrambe per la prima volta nella loro storia ad una finale. L’estro lusitano di Deco, Figo, Rui Costa e compagni, privo in ogni caso della potenza di almeno un attaccante di peso come negli anni ’60 erano Eusebio e Torres, ha dovuto cedere di fronte alla concreta solidità ellenica. La storia della Grecia campione d’Europa è interessante e al contempo istruttiva. Allenatore è un tedesco poco amato in patria e – sino alla vittoria - poco amato pure ad Atene. Otto Reahhgel è una persona intelligente, un grande conoscitore del calcio, ma nell’ambiente è mal sopportato perché si rifiuta di rispondere alle telefonate dai presidenti delle squadre che pretendono questo o quel “fenomeno” titolare in nazionale, non accetta pressioni da parte degli sponsor, litiga con i giornalisti che inneggiano al presunto fuoriclasse del momento. Succede così che la federazione ellenica, infastidita da un allenatore tanto scorbutico, nutra poca fiducia nella squadra, decidendo di prenotare l’albergo solo per il primo turno e congiuntamente l’aereo per il rientro che si immagina anticipato. Rehhagel tuttavia crede nel lavoro quotidiano, nella preparazione, nel gruppo che deve vedere in campo non divi e comprimari o peggio undici divi, ma undici giocatori che sanno di dovere faticare per portare a casa un risultato positivo. La Grecia supera così il turno, si deve disdire l’aereo e si passa a dormire nel lussuoso hotel occupato in precedenza dagli spagnoli che al contrario avevano prenotato le camere sino alla finale. Gli ellenici sono una squadra operaia che, consapevole dei propri limiti, mette in pratica la regola più antica del calcio e che tanto volte ricordava Gianni Brera: “se vuoi sperare di vincere e non sei un campione, cerca di non prenderle e corri il doppio dei tuoi avversari.” Un gioco che certa stampa frettolosa, superficiale o interessata ad esprimere un giudizio negativo a priori, ha definito vecchio e superato. Antidiluviano sarebbe controllare gli avversari più quotati facendoli seguire da un difensore che si trasforma in un angelo custode, anticaglia sarebbe avere un giocatore che sta qualche metro dietro tutti per rimediare agli eventuali errori dei compagni, solo, davanti al proprio portiere, pronto a liberare dal pericolo con tiri lunghi e decisi che portano altrove il pallone. È certo un “catenaccio”, ma è esagerato lamentarsene con fastidio, anzi è un modulo accorto che ha permesso agli italiani tante vittorie. Chi  non ha trent’anni avrà visto le immagini di repertorio del 1982, i più grandi non hanno certo dimenticato, allora gli azzurri di Zoff e Paolo Rossi hanno vinto i mondiali (tra l’altro ultimo successo tricolore) con Scirea che giocava dietro tutti e Oriali, Collovati e Gentile che si incollavano agli avversari; le immagini di Zico, Ardiles e Maradona che uscivano dal campo a fine partita con le magliette tutte strappate sono diventate famose. Alternative per la Grecia non ce n’erano, o questo “catenaccio operaio” o tanti spazi da lasciare liberi per essere trafitti da Zidane, Nedved e Figo. Si è avverato così quanto i freddi organizzatori del calcio – business non si sarebbero mai aspettati. La Grecia di Otto Reahhgel stabilisce un record assoluto, nessun gol subito nelle ultime tre partite (quarti, semifinale e finale) vincendo tre volte di fila per 1 a 0. Campioni sono giocatori trentenni o quasi che nelle loro squadre non giocano mai. Charisteas, goleador contro Francia e Portogallo a Brema ha più tempo per rileggersi la storia dei celebri cantori locali che possibilità di scendere in campo con il Werder, Vryzas è stato quest’anno l’attaccante di riserva della Fiorentina in serie B, Karagounis all’Inter si allena ma non gioca mai, Dellas, l’insuperabile difensore arretrato di questi europei, nella Roma di Capello ha collezionato timide apparizioni, il capitano Zagorakis e il portiere Nikopolidis giocano in patria da titolari, ma hanno trentadue anni e nessuno avrebbe scommesso su di loro.  La vittoria della Grecia ha portato nella terra d’Omero l’euforia raccontata dal nostro poeta Umberto Saba nelle sue poesie dedicate al calcio: “Festa è nell’aria, festa è in ogni via.” I prossimi mesi ci diranno se è stata appresa la lezione impartitaci da Reahhgel e dei suoi giocatori, a dimostrazione che un po’ di umiltà  e di voglia di correre dietro il pallone possono essere più forti, più vincenti, di tanti interessi costruiti con maestria a tavolino. La vittoria della Grecia è la vittoria di coloro che continuano a giocare per divertirsi su ogni prato del Nord e del Sud del mondo. Per il calcio, malato e annegato in insostenibili circhi in cui i maggiori fuochi d’artificio vengono da contratti milionari, si rende necessario un cambiamento. Se non verrà, dietro l’angolo sono pronte, alla prima occasione, europei, mondiali o olimpiadi, altre vittorie inaspettate di squadre che nessuno avrebbe immaginato potessero raggiungere simili traguardi, per la gioia di chi crede che il calcio sia uno sport e non una macchina commerciale.