Ecologia e autogestione
di Yvon Bourdet(traduzione Andrea Chersi dalla rivista "Autogestions" n. 4/80)

Non si pensi di trovare qui uno studio sviluppato sui rapporti che si possono intrecciare tra ecologia ed autogestione, bensì, semplicemente, una breve esposizione delle impressioni e delle discussioni che si ebbero nel quadro del "seminario sull'autogestione", a partire dal novembre del 1978, alla Scuola di Alti Studi di Scienze Sociali che io porto avanti in collaborazione con Joseph Fisera. Non è quindi possibile approfondire le definizioni di queste due nozioni: da una parte l'autogestione è ormai divenuta oggetto di numerosi studi, al pari dell'ecologia e, d'altra parte, le necessità dei confronti ci hanno portato ad insistere su determinati aspetti e a trascurarne altri. È così che l'ecologia (che pone parecchi problemi sull'equilibrio naturale, sul territorio e "l'abitare", sulla difesa del paesaggio e correlativamente sul viaggio e sull'esilio) è stata ridotta, in gran parte, al problema dell'utilizzazione "pacifica" dell'energia nucleare. Per questo, erano indispensabili delle informazioni preliminari che non verrano riassunte qui, tanto più che sono comodamente accessibili in ogni sorta di pubblicazione.

Per aprire i nostri dibattiti e alimentare le nostre discussioni, abbiamo fatto appello a degli "esperti" (1), anche se, comunque, la nostra domanda aveva sempre come scopo di sapere "se si può concepire un'autogestione che non si preoccupi affatto di ecologia, ovvero un'ecologia che respinga l'autogestione", precisando che - per circostanze contingenti e per scelta degli intervenuti - ci si è spessissimo limitati ad analizzare la compatibilità o l'incompatibilità di una pratica dell'autogestione con l'esistenza di centrali nucleari.
Come si può indovinare, non è facile istituire un simile confronto, poiché le prese di posizione, in senso inverso, mettono in questione non soltanto le attuali acquisizioni scientifiche e tecniche ma, più in generale, delle opzioni politiche, delle concezioni filosofiche divergenti o contrapposte. Ecco perché la questione dei bisogni e dei desideri umani, a prima vista marginale è immediatamente apparsa come al centro della nostra ricerca. In queste condizioni, i partecipanti al seminario non han sempre (e, a dir la verità, nemmeno spesso) saputo mettersi d'accordo salvo che sull'utilità e l'esigenza di un arricchimento reciproco delle conoscenze e di un approfondimento collettivo della riflessione. Comunque, alcune proposte sono state largamente accettate o, quanto meno, comprese.

Nucleare ed eterogestione

La costruzione delle centrali atomiche presuppone un'accumulazione primitiva alla portata solamente di uno Stato industrialmente sviluppato. Inoltre i pericoli del nucleare "giustificano", in anticipo, uno Stato che sia in grado di proteggere i segreti delle sue installazioni e delle sue produzioni, ovvero, tendenzialmente uno Stato poliziesco, per essenza centralizzato, in cui la Capitale comanda il capitale finanziario ed il capitale-sapere. Quindi, "un sistema simile mette in essere le condizioni di impossibilità dell'autogestione" tanto più che la perdita dell'autonomia nel lavoro viene presentata come una necessità di sicurezza e che in caso di incidente scatta una regolamentazione draconiana, equivalente a volte all'imprigionamento (confinamento), a volte alla deportazione (evacuazione).
Senza dubbio, la produzione di altre fonti di energia è stata fonte di lavori penosi e pericolosi per migliaia di operai, delle miniere di carbone ad esempio; e le energie alternative (che preconizzano gli ecologi: idrauliche, termiche, solari) potrebbero essere occasione di impianti statali (o "multinazionali") così giganteschi che consoliderebbero anch'essi il potere centrale: lo Stato non è stato creato dal nucleare, ma il nucleare rende lo Stato centralizzato indispensabile, mentre si può immaginare la produzione disseminata dell'energia da parte di piccole unità (idrauliche, solari, eoliche, ecc.) gestite da piccole comunità, dalla famiglia alla piccola cittadina e suo circondario. Certo, tecnicamente, si possono concepire delle "piccole" centrali atomiche e delle bombe miniaturizzate, ma queste non farebbero che moltiplicare i pericoli; li legittimerebbe solo, in modo derisorio, il piccolo è bello eretto ad assioma. Ed e del resto una delle funzioni salvatrici di cui lo Stato si gloria: quella di riservarsi il monopolio della violenza legittima e dei pericoli "controllati". Occorre dunque che i segreti siano ben custoditi, riservati a pochi; il resto del corpo sociale dev'essere messo nell'impossibilità di "giudicare con conoscenza di causa", cioè di esercitare la democrazia. Il nucleare produce la tecnocrazia.

L'eterogestione antinucleare

Paradossalmente, questa incompetenza intenzionalmente costruita dallo Stato-nucleare e considerata come uno stato di fatto può a volte essere invocata, al limite, come fondamento di quel che si chiama un "eco-fascismo". Considerando che sarebbe troppo lungo e praticamente impossibile educare in tempo i cittadini, alcuni si ergono a contro-esperti e, di fronte al pericolo imminente ed irreversibile della proliferazione nucleare, sono pronti a sostenere (e, se ce ne fosse bisogno, a creare) uno "Stato centralizzato anti-nucleare" che "imporrebbe dittatorialmente" a tutti i cittadini un altro tipo di sviluppo, di non-sviluppo, ovvero di involuzione, incitandoli, obbligandoli a consumare con sobrietà delle energie "dolci", in piccole unità che utilizzano fonti rinnovabili e, entro limiti che ne permettono effettivamente il rinnovo: le foreste, ad esempio, sono per principio rinnovabili, ma potrebbero (ed hanno potuto) essere distrutte dai "bisogni" dell'edilizia o del riscaldamento, il che porterebbe (ed ha portato) a conseguenze ecologiche negative notevoli e, in larga misura, irreversibili. Si può ipotizzare che per prescrivere efficacemente una simile conversione delle tecniche, delle consuetudini e delle mentalità, lo Stato anti-nucleare dovrebbe essere altrettanto potente dello Stato nucleare e disporre di un apparato repressivo più diversificato.
Lasciando da parte la questione di sapere se una simile metamorfosi sia possibile, verosimile o auspicabile, si può così osservare, in teoria almeno, "una nuova forma di antinomia tra ecologia ed autogestione", pur se questi ecologisti deplorano che l'urgenza dei pericoli li costringe a ricorrere a questa violenza, ai loro occhi, salvatrice. Il principio di questi "innamorati dell'umanità": prima di tutto sopravvivere, in seguito democratizzare, finisce sempre, a partire da opzioni diverse, col "fondare", lo si voglia o no, "lo stesso" sistema tecnocratico. Non occorre aggiungere che non tutti gli ecologisti preconizzano un simile ecofascismo. Molti di loro si sforzano anzi di convincere i loro concittadini attraverso la diffusione di informazioni nascoste (o se si vuole, più obiettivamente, non divulgate dallo Stato); di più, la maggior parte denuncia questo blocco dell'informazione come uno dei modi più facili e più vigliacchi utilizzati dalla tecnocrazia per ingannare i governati, addormentarli in una falsa sicurezza e consolidare così il suo potere.

La scienza e la libertà

Se quindi si lascia da parte lo spauracchio, un po' sopravvalutato, dello Stato anti-nucleare, rimane che lo scarto tra la scienza degli esperti (spesso limitata ad un campo ristretto) e le opinioni, i desideri e le esigenze della maggioranza del corpo sociale, pone una questione cruciale ad ogni progetto di autogestione politica generalizzata. Si ha un bel dire - senza tentare di approfondire l'argomento - che l'autorità di competenza non dev'essere confusa con la dominazione politica e colle diverse autorità costituite; certo, la differenza esiste nel momento in cui il Potere comanda senza offrire le vere ragioni delle sue scelte e questo tende a scomparire allorché il competente si sopprime in quanto tale dalla spartizione delle conoscenze ugualmente assimilate. Tuttavia, tenuto conto dell'estrema disparità dei livelli di sapere e di comprensione, questa spartizione è difficile da realizzare immediatamente in modo efficace, soprattutto nei campi in cui interviene il potere politico. Ne risulta che la maggioranza dei cittadini viene condannata a schierarsi o per o contro il nucleare senza informazioni sufficienti, dato che il blocco, ossia la perversione del sapere su quest'argomento da parte dell'autorità governativa, si aggiunge a tutte le altre forme di disinformazione. Da ciò, la messa in atto di uno dei principi fondamentali dell'autogestione: "la decisione con conoscenza di causa" viene resa ancor più difficile e formale. D'altronde, l'incertezza dei cittadini è accresciuta dalle dispute tra gli esperti: spesso, invece di informare sulla tecnica nucleare, ci si oppone sul piano politico. Il potere in carica accusa gli antinucleari di spargere il panico per guadagnare voti alle elezioni e gli ecologisti sostengono che i tecnocrati mentono o minimizzano per ragioni di carriera.
In realtà, la causa del dubbio è più profonda: proviene dall'incertezza inerente alla ricerca scientifica stessa, di cui si sa "che progredisce sempre perché non è sicura di nulla". Uno propone di inviare le scorie radioattive sul sole, l'altro vi si oppone perché i missili trasportatori non sono molto affidabili o sono troppo costosi. Così, noi saremmo in pericolo non per "troppa" ma per "non sufficiente" scienza. Spesso la certezza individuale è proporzionale all'ignoranza, come sovente si osserva, ad esempio, tra i bambini. Hegel scriveva in una lettera (2) che la Rivoluzione francese aveva fatto uscire "lo spirito umano dall'infanzia", ma era troppo ottimista aggiungendo che adesso la scienza aveva sostituito la teodicea (ramo del "sapere" religioso, che si occupa delle manifestazioni di Dio nel mondo terreno - n.d.r.). Oggi, il messaggio divino stesso è oggetto d'interpretazioni problematiche e le pretese d'inaffidabilità non rassicurano affatto. L'incertezza del sapere si ripercuote sul fare. Così, come l'ignorante, il sapiente non può decidere con conoscenza di causa: "è più indeciso che libero".
Occorre ancora osservare che certi esperti anti-nucleari, trascinati dall'urgente preoccupazione di convincere, finiscono con l'avanzare argomentazioni che superano la misura umana. È forse efficace, ad esempio, predire che le scorie radioattive rimarranno pericolose per 24.000 anni a gente che morirà al massimo tra cent'anni, alcuni tra qualche giorno, mese o anno e, tra questi, molti che moriranno prematuramente pur debitamente preavvertiti dei pericoli della strada, dell'alcol, del tabacco o di altre droghe? Occorrerebbe dunque supporre che certi uomini siano più preoccupati della salute dell'umanità futura che dalla loro, mentre - lo si vede spesso - molti manifestanti cosidetti "locali" combattono soltanto perché la centrale venga installata più lontano da casa loro, perché la diga sul fiume non tocchi il loro campo. Se ogni volta che un posto vien scelto per un impianto nucleare, "le persone interessate" si rivoltassero fino ad accettare il rischio di morire, è la centrale che diverrebbe, nel senso letterale del termine, "utopica": la difesa degli interessi "locali" provocherebbe effetti universali. Come ripete Solgenitsyn, gli arresti di "dissidenti" non sono possibili se non perché coloro che ne sono testimoni sperano che loro stessi non verranno mai coinvolti; se no, l'insurrezione di tutto un popolo, come s'è visto in Iran, renderebbe vano l'apparato repressivo più crudele e più sofisticato. Forse si può persino immaginare un certo disinteresse per l'apocalisse atomica e ancor più una fantastica Schadenfreude (Piacere a fare del male - n.d.r.) per eccesso, la deflagrazione nucleare soddisfa in qualche modo l'egoista che non vuol morire solo. Oppure ancora essa dà soddisfazione a colui che spera di essere uno dei pochissimi superstiti in un rifugio e ricominciare una nuova era della storia del mondo? Quando l'umanità s'è data la potenza demiurgica perché non dà realtà ai fantasmi demoniaci che ha saputo immaginare?

L'eco-sviluppo autogestito

Per fortuna queste posizioni estreme non son che teorici casi limite. Invece gli atteggiamenti di rifiuto della società tecnocratica prendono consistenza in parecchi paesi sviluppati. La vecchia frattura tra ciò che dipende da noi e ciò che ci sfugge viene recuperata. Il rifiuto diviene rifugio nella nicchia, una posizione di ripiegamento piuttosto che un abbandono. Chi può misurare l'influenza dell'eremitismo nella storia della Chiesa, ad esempio, e più in generale come determinare l'impatto di ciò che, in un primo tempo, apparve come marginale? (3). Questa disseminazione di rifiuti, queste serie esemplari di una vita diversa potrebbero aumentare, in modo imprevedibile, la credibilità e l'efficacia di un diverso sviluppo. Persino gli imprenditori capitalisti s'accorgono di quanto sia redditizia una micro-autonomizzazione del lavoro in fabbrica e non è perché essi vi trovino un abile mezzo di supersfruttamento che il lavoro riunito autogestito è votato a tale "recupero", che non ha altre virtualità. Qui ci interessa solo il fatto che la messa in opera della creatività collettiva di alcuni personaggi sia più efficace del sistema delle lunghe catene taylorizzate. Si dice che "il piccolo è il più bello", e si dimentica rapidamente il grandioso, nella natura e nell'arte, che può anch'esso vedere la sua collocazione diversa. La cosa inaccettabile nel gigantismo taylorizzato, è la meccanizzazione dell'uomo, moralmente scandalosa e, inoltre, tecnicamente inefficace. In questa prospettiva, sviluppata in modo più approfondito da Ignacy Sachs" (4), l'autogestione ecologica non comporta affatto un ritorno alla "vita povera" ma rende possibile, al contrario, un arricchimento del fine e del mezzo, che non è solamente "bello", ma che inventa (come il troubadour) la poetica che si può scrivere (per ritrovare anche qui la creazione) "poietica" (termine d'origine greca che indica "il fare" - n.d.r.).

Quale base per l'ecologia e l'autogestione?

Per fondare l'ecologia, o anche una semplice critica del nucleare, la scienza viene contestata, non sostituisce la teodicea. Qualcuno vi vede una buona occasione di ritorno al monoteismo, ma la fede è una grazia che non è data a tutti. Per un secolo, il proletariato è sembrato poter "realizzare" la filosofia fondamentale, ma chi parla in nome del proletariato? E si conosce fin troppo bene ciò che gli ha fatto dire il Partito.
Si deve dunque dire "Addio" al proletariato e ritornare da coloro che ci prendevano in giro dicendo che noi credevamo "all'immacolata concezione del proletariato"? Percorrere, come altri, "il terzo mondo" con una nuova lanterna? Vedere, come il Sartre della "Critica della ragione dialettica", nella "folla in fusione" che prende la Bastiglia un esempio rivelatore del "Che fare?". Ma non si tratta che di un momento ed esiste anche la folla inferocita che lincia un innocente....
Ecco perché un certo numero di partecipanti al seminario ha espresso il desiderio di un lavoro in profondità sulla essenza dei bisogni e dei desideri. A quali bisogni corrisponde la lotta per l'ecologia, per l'autogestione? Una rilettura di Freud e soprattutto di Reich dovrebbe costituire, su questo punto, un lavoro preliminare. Il fatto è che si pone sempre il grande problema, eliminato troppo presto dai marxisti volgari, della natura e dei diritti dell'uomo. Quale che sia l'uso, troppo formalista, che si è fatto di queste nozioni, basta contraddirsi e ripiombare nell'arbitrario del Principe, del Partito-Principe? Insomma, ci si può autogestire senza conoscersi; certo, un despota che non è padrone di sé può divenire padrone dell'universo, ma occorre che l'uomo sia lui stesso autonomo per accettare la libertà del mondo, degli altri uomini. Non ci sarebbe modo, prima di tutto - o, piuttosto, cammin facendo - di mettere in pratica un'auto-analisi dei soggetti e dei gruppi che siano mezzo e fine, che mettesse in questione la volontà di potenza e la paura irragionevole, il desiderio di morte, la volontà di rovesciare tutto o di non cambiare nulla? Il bambino, padre dell'uomo, è bambino di una società che egli deve correggere, trasformare, perché un uomo nuovo sia creato in e da una nuova società. L'impresa parrebbe contraddittoria ma è già all'opera da parte della dialettica del margine e del "giusto" mezzo. Così l'ecologia non miniaturizza l'autogestione né la spoliticizza, la radica.

1) Tra essi, si possono citare: Gérald Berthoud, René Bonnefille (colla partecipazione di Louis Puiseux), Pierre Davreux, André Gorz (colla partecipazione di Ivan Illich), Zauzsa Hegedus, Cristian Hoarau, Daniel Mothé, Michel Mousel, Ignacy Sachs, Patrice Schu e Lou Verlet come pure il collettivo redazionale del n° 2-3 di questa rivista - sui movimenti alternativi in Germania federale - coordinato da Olivier Corpet e Claudie Weill.
2) Lettera di Hegel a Zellmann, Iena, 23 gennaio 1907, in Corrispondance, I, Gallimard, 1962, p. 129.
3) Per un approfondimento di questo tema, vedi le analisi della funzione della talvera., in L'espace de l'autogestion, ed. Galilée, 1978, p. 25-46.
4) Ignacy Sachs, Stratégies de l'éco-développement, Parigi, ed. Ouvrières, 1980, 140 o.