Autogestione e
antropologia
di François
Dirdam
Cercherò di porre in questo breve saggio, una serie di
problemi che sono strettamente legati alla nozione di autogestione e che
possono chiarire alcuni punti oscuri, altri confusi, i quali in quanto tali
si prestano oggi allo scherno da parte di non poche forze politiche; queste
mantengono tale nozione ad un livello di ambiguità con il solo scopo di
generare ulteriore confusione, nonché di sfumare quelle sottili differenze
che possono scaturire dal confronto con altri concetti che sono ben lungi
dal reale scopo che l'autogestione si prefigge.
Ecco, ho creduto opportuno di focalizzare questi problemi da un punto di
vista antropologico, perché le recenti ricerche condotte in questo campo ci
potranno essere utili quando dovremo risolvere i problemi che ci si pongono.
Uno dei problemi che si presenta, è quello dell'organizzazione sociale. Come
deve essere organizzata una società autogestita? Prescindo qui dal ricercare
schemi organizzativi, che, in generale, potrebbero essere impiegati solo in
un modo meccanico, e pertanto destinato al fallimento. Si tratta, invece, di
scoprire che tipo di meccanismi rendono, o renderebbero, del tutto
impossibile la pratica sociale dell'autogestione. Fino ad arrivare a
stabilire, quindi, una chiara contraddizione tra autogestione e
organizzazione, perlomeno come oggi la concepiamo.
Direttamente collegato a quanto abbiamo detto è il problema del potere,
comunque si manifesti. Prescindendo a priori dallo stato quale
elemento contraddittorio in assoluto, possono apparire, e in realtà così
accadrebbe, nuove forme di potere, le quali nonostante si manifestino in
modo differente, sarebbero nondimeno in assoluta contraddizione con una
società autogestita. Le recenti scoperte sul problema del potere politico
nelle culture primitive (1), chiariscono alcuni aspetti della questione.
Un altro problema sarebbe quello dell'applicazione della tecnica ad una
società autogestita. Questo mi sembra un punto molto interessante, perché si
ritiene generalmente che si può accedere ad una società autogestita soltanto
tramite una società tecnicamente molto avanzata. Ciò per me è falso, in
quanto questa ipotesi implicherebbe la "necessità" di una scala evolutiva
nella quale i livelli più bassi sarebbero composti da società con tecniche
rudimentali, i livelli superiori da società con tecniche molto avanzate,
mentre in cima ad una tale evoluzione ci sarebbe appunto la società
autogestita con una tecnica sviluppatissima.
Al problema della tecnica ne va unito un altro, che poi ne è la conseguenza,
quello della complessità del sistema sociale. Complessità, d'altra parte,
che è solo apparente, in quanto la tecnica, quantunque apparentemente
diversificata, in realtà, è in grado di collegare differenti campi che prima
rimanevano separati e che grazie ad essa oggi possono essere afferrati nel
loro insieme.
Per tanto, se consideriamo il grado di sviluppo tecnico raggiunto come un
aspetto in più di cui tener conto, però giammai determinante, la complessità
del sistema sociale sparisce per lasciar posto ad un sistema sociale dalle
concrete correlazioni economiche e con un dato grado di sviluppo tecnico.
Così che, partendo da questa base potremo dimostrare che l'autogestione è
possibile a qualsiasi stadio in cui si trova la società, o non sarà affatto
possibile (2).
Autogestione e organizzazione
Una determinata organizzazione sociale può essere compatibile con una
società autogestita soltanto nella misura in cui essa sia in grado di
assorbirne le tendenze alla divisione; e cioè, che sia in grado di integrare
la "rappresentazione" in un sistema più largo di interscambio di funzioni
sociali che impedisca la parcellizzazione della conoscenza e comprenda il
concetto e la pratica della globalità.
La separazione del potere come strato superiore impedisce che si localizzi
in tutta l'organizzazione sociale. Centro dell'attività e riproduzione
gerarchica, sono analizzati come oggetti istituiti al margine e che
esercitano "pressione" sui vari gruppi e organizzazioni sociali. Si
"dimentica che le istituzioni cambiano, che potrebbero organizzarsi in un
altro modo" (3).
La pratica e la sua conseguente teoria antiautoritaria deve far scoprire i
meccanismi di istituzionalizzazione della gerarchia. Scoprire la strategia
della disarticolazione della gerarchia esterna e il suo sviluppo all'interno
delle aree di risposta autogestita. La critica continua propria della teoria
antiautoritaria, che viene portata, attraverso l'alienazione collettiva, al
ruolo dirigente.
Il movimento che non presenta queste caratteristiche critiche, manipola
l'illusione del cambiamento, allorché solo cambia il tempo dell'illusione
(4).
Pertanto, qualsiasi tipo di organizzazione teorica concepita per dar luogo
ad un determinato sistema di relazioni sociali, provoca in ultima analisi la
negazione di tale sistema, se si parte da certe premesse in cui sono latenti
i concetti di potere politico, rapporti gerarchizzati e il perdurare della
separazione.
Ad una teoria sociale completa, chiusa e molto elaborata, è possibile
contrapporre soltanto un insieme di plausibili dubbi, molte articolate
perplessità, l'incredulità.
Autogestione e potere
L'origine del potere, è oggi ancora occulto all'analisi. L'istituzione
dell'autoritarismo non si presenta soltanto come repressione fisica,
economica, ecc., ma si istituzionalizza con un insieme di norme, miti,
tradizioni che ne occultano la genesi.
Gli studi antropologici portati a termine da Pierre Clastres, Marshall
Sahlins e altri (5), se ci hanno rivelato che nelle culture primitive
mancava il potere politico, non ci hanno però chiarito la sua genesi (6).
Credo, tuttavia, che se si vuole affrontare positivamente lo sviluppo di una
data pratica di autogestione, sia di vitale importanza avvicinarsi a questo
tipo di conoscenza.
Se fino adesso si è creduto, seguendo Marx, che le condizioni economiche e
la lotta di classe sono il motore della storia, bisognerà cominciare a
domandarsi se queste non siano, invece, la conseguenza di una istanza
superiore che le genera: la reversibilità del potere.
"L'istituzione attraversa tutti i livelli di una data formazione sociale e
la loro interrelazione determina e mimetizza la sua attività. Perciò, la
separazione teorica che concepisce le sovrastrutture come separate,
quantunque determinate, riproduce il topico della pura astrazione".
Creare oggetti di studio invece di analizzare l'oggetto istituzionalizzato,
può essere un sistema logico, ma non per questo è reale.
Si ha dominazione sotto tutti gli aspetti, quando si parte da ciò che
l'analisi istituzionale chiama "incrocio di istanze", e cioè il principio
della trasversalità (7).
La società si sviluppa attraverso una correlazione di potere. Si può allora
discutere di sviluppo sociale, solo se si discute il proprio potere. Il
potere crea le istituzioni stesse che tendono a perpetuarlo. Impugnare
queste istituzioni senza peraltro impugnare il potere che le crea (che sta
in ognuno di noi), provoca soltanto uno spostamento di questo potere sotto
forma di nuove istituzioni. La genesi del potere risiede nella sua
reversibilità.
Il potere si genera nel momento in cui, senza peraltro mutare la propria
essenza, è capace di presentarsi sotto forme che virtualmente ne fanno una
istanza "necessaria".
Oggi questa "necessità" appare insuperabile e dal marxismo (dittatura del
proletariato) fino all'organizzazione consiliare (il potere ai consigli),
tutte le teorie sono attraversate dal principio della reversibilità del
potere. Soltanto gli anarchici, in una forma intuitiva, capirono che il
problema principale era la scomparsa dello stato come condizione
indispensabile per la liberazione. Ma la distruzione dello stato, in quanto
soltanto una forma di potere, non provoca in modo automatico la sua
scomparsa. È necessario provocare la sua irreversibilità, e cioè, dimostrare
la sua non-indefettibilità.
Autogestione e tecnologia: le difficoltà di un meccanismo complesso
Durante tutto il suo sviluppo, la tecnica si è sempre sviluppata a
beneficio delle classi dominanti. Attraverso di essa lo sfruttamento si è
razionalizzato e la sua utilizzazione è direttamente proporzionata
all'estrazione del massimo profitto.
Mai, se si eccettuano i casi isolati delle culture primitive, la tecnica è
stata utilizzata a beneficio diretto della società (8). Allora, mi domando:
per quale misteriosa ragione potrà mai trasformarsi dalla notte al giorno in
un beneficio sociale? Come fare perché una tecnologia al servizio di un
potere sempre più accentrato e ristretto, possa passare al servizio di una
società decentralizzata, federalista, con la piena autonomia dei suoi
individui e gruppi ecc., come si suppone siano le premesse sulle quali si
basa una società autogestita?
Il mito di una società man mano sempre più tecnologica, quale passaggio
obbligato ad una società autogestita, si sfalda come un castello di sabbia
di fronte alla più superficiale analisi.
Una società autogestita, deve impiegare una tecnologia autogestita, che per
prima cosa non è la tecnologia oggi impiegata dal capitale. I movimenti
ecologici nel rivendicare una tecnologia decentralizzata (uso di energia
pulita, a basso costo ecc.), stanno rivendicando il diritto di usare la
"propria" tecnologia.
Un altro mito di cui bisogna sbarazzarsi (perciò è opportuno insistervi) è
quello della complessità del sistema sociale; complessità, che d'altro
canto, come abbiamo già detto, è strettamente legata al problema precedente.
D'accordo che si rivela molto complesso e molto difficile poter regolare i
processi di una società come la nostra, in cui tutto si muove attorno ad
alcuni centri di potere sempre più ridotti e perciò sempre più
centralizzati. Non serve, però, a mio avviso, cercare di coordinare settori
diversi o cercare di unificare - mediante una coordinazione più o meno
democratica - criteri divergenti, partendo da una struttura che ci viene
imposta. E io credo che la vera natura del problema, prende radici qui: non
nel cercare soluzioni ai problemi partendo dalla prospettiva di una società
organizzata con alcune determinate tendenze, bensì nel considerare come
dovrebbero formarsi le strutture perché un'organizzazione autonoma possa
arrivare ad essere valida.
La cultura primitiva era dotata di una organizzazione sociale semplice, dal
nostro modo di veder le cose, ma le tecniche impiegate potevano essere
complicatissime, con l'unico particolare che esse, però, erano al servizio
della società e non il contrario (9). Non c'era una conoscenza separata o
parcellizzata.
Conclusioni
Quando si arriva a questo punto si ha sempre la tendenza a rielaborare di nuovo il lavoro. Non so se le conclusioni sono risultate chiare nel corso del lavoro. Suppongo di sì. In primo luogo appare evidente che io non ho soluzioni da offrire. L'unica cosa che posso dire, è la forma con cui non si può arrivare ad una società autogestita. La forma attraverso la quale si può accedervi, poi, è già qualcosa di ben più difficile. Mi auguro che la discussione aiuti a chiarire qualche punto oscuro della pratica dell'autogestione.
(1) Nella cultura occidentale il termine "primitivo" ha comunemente un significato negativo. Qui invece avrà un significato differente e lo userò per designare quelle società nelle quali il potere politico non è separato dalla società e pertanto non è esercitato su di essa, vale a dire società senza potere politico.
(2) "... l'autogestione non è la generalizzazione di Taylor (come hanno pensato Trotski e Lenin), ma alla generalizzazione di Kronstadt (che essi hanno schiacciato)". Cfr. René Lourau, L'Etat-incoscient, Minuit, 1978, pag.177.
(3) E. Trias, Filosofia y Carnaval pagg.45-50.
(4) Hector Subirats, Dispersiones sobre: parcelación del conocimiento, estado, partido y otras istituciones psiquiatricas (inedito). "La teoria autoritaria legata ad uno schema pre-elaborato non capta i meccanismi di emergenza delle classi dominanti. Il carattere delle nuove classi, quando si concepisce lo stato come un'istituzione separata, si dà un'impostazione che dovrebbe portare alla trasformazione delle istituzioni, ma non ci si avvede che esse sono lo stato. Il ruolo del partito sta alla politica come quello dello psichiatra al manicomio: modificazione dell'interna correlazione del microsociale mediante la critica del metodo, senza percepire dove sta immerso".
(5) Nella prefazione all'opera di Sahlins, Age de pierre, âge d'abundance, Gallimard, Parigi, 1972, Pierre Clastres afferma: "Bisogna di conseguenza fermamente rinunciare a tale concezione continuista delle strutture sociali e accettare di riconoscere la rottura radicale che separa le società primitive, nelle quali i capi sono senza potere: discontinuità di fondo tra società senza Stato e società con Stato". E più avanti: "Si scopre allora questo fatto precipuo: se le società primitive sono società senza organi di potere separati, ciò non significa tuttavia che sono società senza potere. Al contrario, è proprio rifiutando la separazione tra potere e società che la tribù mantiene con il suo capo un rapporto debitorio, perché è essa soltanto che detiene il potere e lo esercita sul capo. Il rapporto di potere esiste certo: si raffigura nel debito che regola tutto l'esercizio del potere. Nel piegare il capo ai suoi desideri, la tribù s'assicura contro il rischio mortale di vedere il potere politico separarsi da essa per rivoltarlesi contro: la società primitiva è una società contro lo Stato" (pag.25).
(6) I numerosi studi di Pierre Clastres sui popoli primitivi e l'analisi sulla mancanza di potere politico in quei popoli, non gli permisero tuttavia di scoprire la genesi e l'origine di un tale potere. Scrive: "Le società primitive sono società senza Stato, perché lì lo Stato è impossibile. E tuttavia tutti i popoli civilizzati sono stati primieramente selvaggi: che cosa ha reso possibile il formarsi dello Stato? Perché i popoli smisero di essere selvaggi? Quali enormi avvenimenti, quale rivoluzione, determinarono la figura del Despota? Di chi comanda e di chi obbedisce? Da dove deriva il potere politico? Mistero, forse momentaneo, dell'origine. (Cfr. Pierre Clastres, La sociedad contra el Estado, Monte Avila editores, Barcellona, 1978). Pierre Clastres scarta da tale genesi il fattore economico: "Ciò che attualmente si sa delle società primitive non ci permette di ricercare l'origine del politico al livello economico. Non è su questo terreno che si radica l'albero genealogico dello Stato. Non c'è nulla nel funzionamento economico di una società primitiva, di una società senza stato, nulla che permetta di introdurre la differenza tra ricchi e poveri, poiché nessuno prova il barocco desiderio di fare, possedere, apparire più del suo vicino".
(7) El analisis institucional, Campo Abierto, Madrid, 1977. "La corrente istituzionalista ha messo l'accento sin dalle sue origini sulla relazione antagonistica tra l'istituente e l'istituito e sui processi attivi della istituzionalizzazione. L'alienazione sociale significa il processo di autonomia istituzionale, il dominio dell'istituto fondato sulla dimenticanza delle proprie origini, la naturalizzazione delle istituzioni. Prodotte dalla storia, finiscono con l'apparire fisse ed eterne, qualcosa di dato, una condizione necessaria e transtorica della vita delle società. Questa dimenticanza, questo non-detto che è alla base dei discorsi analitici sul silenzio, invece del discorso su che cosa lo ha istituito: ecco ciò che l'analisi istituzionale fa apparire quando si domanda sull'atto di istituire che ha definito l'istituzione. I processi storici di crisi, mutamento e rivoluzione sono il laboratorio della società istituente. (...). Così, nella rivoluzione le nuove istituzioni (contro-istituzioni), appaiono, si sviluppano e poi regrediscono e spariscono con l'ascesa del nuovo potere, per passare in un incosciente collettivo che è l'incosciente politico della società" (pagg.29-30).
(8) Nella società primitiva, società ugualitaria per essenza, gli uomini sono padroni delle loro attività, padroni della circolazione dei prodotti di questa attività: esercitano solo per se stessi, anche quando la legge dello scambio media la diretta relazione dell'uomo col suo prodotto". (Cfr. Pierre Clastres, op. cit., pag. 173).
(9) È sufficiente aggirarsi per un museo etnografico: il rigore di fabbricazione degli strumenti di vita quotidiana, quasi fa di ogni modesto attrezzo un'opera d'arte. Non c'è, inoltre, gerarchia nel campo della tecnica, non c'è una gerarchia superiore e un'altra inferiore; non si può valutare l'attrezzatura tecnologica se non attraverso la capacità di soddisfare, in un certo modo, le necessità della società". (id. pag.167).