L'utopia dell'inconscio
di Christian Descamps
Parlare dell'Utopia significa ammettere la possibilità di
collocare ciò che è ritenuto fuori luogo ed è anche ritrovarsi
immediatamente di fronte a due immaginari contraddittori. Da un lato la
stirpe dei Grandi Regolatori, quelli terribili che conoscono la felicità, la
salute o la giustizia degli altri, per gli altri. E non è nemmeno certo che
fra l'autoritario Platone ed il "libertario" Fourier ci sia una differenza
così grande come ha fatto credere la tradizione....
Ma il luogo altro ha un altro senso, quello della lotta contro il
presente, contro i tempi prefissati. È da questa dissidenza utopica che noi
vorremmo partire, partendo dalla lotta contro l'Uno (usando l'espressione di
Pierre Clastres).
Totem e Tabu è l'assassinio di Un padre. Si è finora molto
insistito sul padre: sarebbe ora di insistere invece sull'Uno,
perché questo Uno è anche quello del monoteismo, la sola religione
presa in considerazione al contempo dal pensiero e dalle iscrizioni
materiali dell'Occidente. Marx, fedele a Hegel su questo punto come su
altri, considera il cristianesimo come l'essenza della religione. Ne
"l'essenza del Cristianesimo e il suo destino" e nelle "Lezioni sulla
filosofia" Hegel è chiaro: la religione assoluta è quella della verità.
Il vero è il suo contenuto, solo lei lo possiede, conosce il vero e Dio
quale esso è (...). Il suo contenuto è la verità stessa in sé e per sé ed
essa non è altro che l'apparizione infinita di Dio (...). Così la religione
cristiana è anche la riconciliazione del mondo con Dio che si dice abbia
riconciliato il mondo con sé.
Lo Stato/Uno si dovrà sostituire a Cristo. Marx, nella sua critica dello
stato e hegeliano, resta fedele allo stesso schema: Da un certo punto di
vista, la relazione fra la democrazia e tutte le altre forme politiche è la
stessa che intercorre tra il cristianesimo e tutte le altre religioni. Il
cristianesimo è la religione per eccellenza: esso presenta l'essenza della
religione, in altre parole l'uomo deificato sotto le forme di una religione
particolare.
Per Hegel e per Marx la religione cristiana è al tempo stesso la più
perfetta e l'ultima. Che essa sia l'ultima, è evidente; che essa sia la più
perfetta invece non è per niente scontato per chi mette in discussione l'Uno,
per chi si ritiene pagano o politeista. Poiché l'assassinio dell'Uno,
la sua soppressione violenta possono anche provocare la sostituzione
"dell'lorda paterna con una comunità fraterna".
Vorrei qui indicare due prospettive: ricercare il terreno sul quale lo stato
pretende legittimare la sua forza, opponendogli il funzionamento reale della
società civile, ma anche ricercare la folle potenza dell'inconscio, il suo
disordine libidinoso, che stravolge ogni ordine e ogni circolazione
regolamentata.
La dissidenza utopica non è una categoria, è un fare: un fare che implica un
percorso altro, un percorso non definibile. Nei paesi dell'Est,
sono le polizie che fanno di me un dissidente: la dissidenza non si
autoproclama come tale. Essa è linea di resistenza ed è una linea che può
variare nei suoi percorsi. Anche Solgenitsin non fu considerato un
dissidente prima della pubblicazione delle sue opere. Ma ciò che lo ha reso
un dissidente è che egli non ha rifiutato il Gulag (come altri non hanno
rifiutato le carceri venezuelane), ma che egli vi ha lottato contro: il
dissidente non partecipa all'illusione filosofica della confutazione
dell'errore. La mostruosità statale non si rifiuta filosoficamente. Lo
diceva anche Lacan, rispondendo agli studenti di filosofia nel numero 3 dei
"Cahiers pour l'analyse": la psicanalisi non deve render conto alla
filosofia dell'errore filosofico, come se la filosofia, segnalato l'errore,
se ne dovesse render conto. Essa non può arrivare a tanto perché già
l'immaginarselo è proprio l'errore filosofico stesso.
Ma vi è un'altra cosa che mi sembra caratterizzi la dissidenza utopica: il
rifiuto della paura. Hegel l'ha scelto come l'essenza della dominazione:
paura che non è quella dell'al di là della morte o del futuro, ma paura
della morte fisica, di quella "che dissolve nell'intimo, che fa tremare dal
profondo di se stessi, che fa vacillare". È questa paura che produce
l'adesione al "costituito". Questa paura, questo timor panico è lo stesso su
cui si fonda la soppressione dei legami affettivi che assicuravano la
coesione della massa" ("due folle convenzionali, la chiesa e l'esercito" in
"Saggi di psicanalisi"). Questa paura, la paura dello scarto, la paura di
dover scavare ogni volta più a fondo, è quella che il dissidente si trova ad
affrontare. La forza utopica del debole si applica ogni volta a un nemico
specifico: non il Nemico o la Legge in generale, ma quel nemico definito,
quotidiano. Il dissidente non rifiuta, egli lotta. Lefort ci propone una
figura libertaria di Solgenitsin de "L'arcipelago Gulag", nel suo "Un homme
de trop". Certo Solgenitsin rispetta la legge, la tradizione, la terra,
perfino Dio: ma come scrive Lefort l'attitudine libertaria non implica
né esclude a priori alcuna credenza se non proprio quelle che richiedono
adesione all'ordine stabilito, sottomissione all'autorità di fatto,
confusione tra l'idea di legge (se questa manca non siamo più in presenza di
un libertario ma di uno sballato) e le leggi empiriche che pretendono di
incarnarla (...). Che essi (i libertari, i dissidenti) invochino un passato
o un avvenire idealizzati e illusori, poco importa (...). Nel presente essi
hanno un fiuto quasi animalesco per sentire le esche della schiavitù, essi
vedono e parlano quando gli altri chiudono gli occhi e tacciono...
Noi vorremmo tentare di capire da dove origina la forza della dissidenza
utopica, una forza capace di opporsi all'Egocrate e allo stato onnipotente
che ha assorbito la società civile. Facciamola breve, per capirci. Il
modello "socialista" si è imposto come ideologia della liberazione del Terzo
Mondo dopo aver costruito i grandi fari accecanti che noi conosciamo: la
dominazione capitalista invece non pretende di liberare. Qui l'entusiasmo
per i territori del "socialismo" o l'euforia terzomondista hanno avuto buon
gioco, ma questa illusione "va ancora per la maggiore nel Terzo Mondo: qui è
ancora più forte questo modello che si basa su un misto di riforma agraria
di nazionalizzazione dell'industria del commercio, di pianificazione, che di
fatto risucchia la società civile. Questo modello pretende, almeno
idealmente, di autocreare del capitale per lo sfruttamento del lavoro e per
gli investimenti statali. Noi non confuteremo "questo modello". Noi vogliamo
soltanto cercare di comprendere quanto della legittimazione dello stato
trascendente vi sia nella nostra cultura. La storia universale non è il
luogo della felicità: Hegel non aveva forse tragicamente ragione con la sua
serietà, il suo dolore, la sua pazienza e il suo lavoro negativo? Perché
Hegel? Perché egli ci interessa in quanto, scegliendo la forma compiuta
dello stato, egli permette anche di comprendere ciò che gli resiste. Che
cos'è lo stato? È la mediazione più generale, quella che comprende e supera
tutte le altre: città/campagna, agricoltura/industria, sapere/produzione. Ma
questo stato non si costruisce né si costituisce che sopra e con la società
civile. Seguiamo i "Principi della filosofia del diritto". La società civile
(che manca crudelmente a Mosca, a Santiago del Cile o a Pechino) implica
che ciascuna persona particolare sia in relazione con la particolarità
analoga di altri, in modo che ciascuno si affermi e si soddisfi tramite
l'altro e sia al tempo stesso obbligato a passare attraverso la forma
dell'universalità. Il fine egoistico fonda dunque un sistema di indipendenza
reciproca in seno alla società civile.
Hegel chiama questo funzionamento il sistema dei bisogni, cioè la nostra
economia. Produzione, ripartizione e consumo formano il sistema ma esso è
contraddittorio, antagonistico. La corporazione è relativamente indipendente
dallo stato. Le lotte sono necessarie, sintomo di salute: la loro sparizione
provocherebbe la regressione nel magma unificatore, nella barbarie dell'Uno.
Per Hegel la totalità del sistema si articola nella società dei bisogni, ma
questa è dinamica, produttrice di conflitti e di ricchezze. Certamente Hegel
pensa all'Uno futuro, ma il suo sistema è attraversato da
contraddizioni tra individui, tra corporazioni, tra ricchi e poveri.
L'umanità s'incammina - tramite la guerra tra l'altro - verso lo stato
mondiale, ma in questa visione lo stato non schiaccerà più, e comunque non
di meno, la società civile. Con fondate ragioni si è criticato lo stato
hegeliano in nome tra l'altro del deperimento dello stato, ma senza
sottolineare questo spazio di contraddizione che esso conservava verso la
società civile. Si è troppo sbrigativamente letto Hegel come un pensatore di
destra, egli era infatti una specie di monarchico "progressista", proprio
lui che diceva che "in Oriente Uno è libero, che nel mondo greco
alcuni sono liberi, che nel mondo germanico tutti saranno liberi". Perché è
in questo spazio di contraddizione tra lo stato e la società civile che
avranno luogo, che hanno ancora luogo le lotte che segnano e trasformano
l'Occidente. È qui che si trova ancora la possibilità (la nostra
possibilità?) di un agire politico.
I greci non conoscevano lo stato. Platone - lo si scorda troppo spesso oggi
- è eterodosso in rapporto alla sua società. Per un cittadino del V secolo,
la legge obbliga ugualmente i cittadini qualunque sia il loro posto
nella società. Finley nel suo "Democrazia antica e democrazia moderna"
mostra magistralmente come Platone, che propone di lasciare la politica agli
esperti, si opponga alla pratica ateniese. Il secondo libro de "La
repubblica" contiene il concetto di ciò che noi chiamiamo sovranità: in
effetti il termine non esiste in greco. La filosofia platonica si fa
utopica, la "teologia razionale" si sviluppa contro la vecchia "teologia
mistica". In effetti il V secolo pratica l'isegoria, cioè il diritto di
tutti di parlare all'Assemblea. Tutti, anche se non conoscevano esattamente
la superficie e la demografia della Sicilia, decidono la spedizione. Ma
parlare, servirsi del diritto d'isegoria, significa esporsi ad un rischio.
Il popolo può riconsiderare una decisione presa dall'Assemblea.
L'Assemblea può condannare - e lo fece - colui che ha fatto adottare una
proposta illegale. Ciascuno, dopo aver sacrificato un capro sacro, può
proporre una legge, ma ciascuno può anche attaccare questa legge per
empietà. Il conflitto è inscritto nella pratica greca, ma si tratta di
conflitto tra individui. Non vi è alcuna traccia di trascendenza. Il quasi
"stato greco" è immanente alla società. Atene è certamente definita da una
legge, ma è una legge senza trascendenza statale. Di fatto, piuttosto di
leggere un "quasi-Stato", bisognerebbe vedervi una lotta contro lo stato,
leggere Atene come una forma di organizzazione anti-statale.
Roma conoscerà l'auctoritas, ma solo con San Paolo e con il
concetto di Potestà comincia a costituirsi la possibilità di una legittimità
trascendente dello stato. Il Dio unico è onnipotente: può tutto. Da lì trae
origine la potenza dello stato moderno, la paura che esso ispira. Lo Stato
diviene sovrano, sovrano è colui che può tutto. La potestà dello Stato che
si vuole onnipotente, sarà limitata solo dall'esistenza di altri stati. Lo
stato sovrano si sostituisce a Dio, diviene il Dio mortale.
Hobbes definì lo Stato come Dio mortale. Questo Dio mortale, la forma stato,
assume la capacità di trasformare lo scisma in eresia. Qualunque sia il Dio
del cielo, la forma Stato è Dio sulla terra, essa si oppone alla lotta
selvaggia di tutti contro tutti. Questa potestà si fonda sull'idea di
popolo. Quale Stato non si pretende Stato del popolo? Lo Stato-Nazione
moderno - ben diverso dal governo - non può concepirsi senza potenza
trascendente, sia essa divina che laica. Questo Stato, naturalmente, si
fonda sul/nel popolo. Ma proprio per questo esso deve fondere il popolo in
Un popolo.
Adamo Smith (in "Ricerche sulla natura e sulle cause della ricchezza delle
nazioni") dà una forma canonica allo scambio, all'economia mercantile,
eternizza i rapporti capitalisti di produzione. Nella sua visione la società
civile è fondata sul contratto che unisce i proprietari dei loro corpi, che
ne permette l'"uso libero". Questo contratto non è un contratto di
spossessamento, ma un contratto che garantisce, anche se questa garanzia -
come dimostrerà Marx - non è che la garanzia di qualcuno. Pertanto essa non
è sufficiente per gli eredi di Locke. Sarà necessario costituire una potenza
trascendente per garantire l'ordine. Così si costituisce e si legittima una
polizia più scaltra dei ladri, tribunali per giudicare infrazioni al diritto
naturale. Al popolo immanente, quello della società civile, si sostituisce
una istanza trascendente che lo pensa, che lo mette in ordine; lo Stato si
vede allora definito come tribunale e come forza armata. Il passaggio
dall'economia alla trascendenza si traduce nella distinzione formale tra
diritto privato e diritto pubblico. Ecco lo Stato "liberale"; i termidoriani
realizzano la sintesi dello Stato del popolo e dello Stato di diritto, una
sintesi tanto forte da far morire quelli che l'hanno attuata.
Michelet nella sua "Storia della Rivoluzione Francese" riferisce che i
giacobini domandano a Robespierre - il 9 termidoro - di firmare un appello
all'insurrezione. Egli comincia a firmare "con una scrittura lenta, con la
mano appoggiata, egli scrisse tre lettere Rob... ma a questo punto la sua
coscienza reclama. Getta la penna. Scrivi dunque, gli si diceva.
Ma in nome di chi? Questa parola assicurerà la sua sconfitta".
Altri non avranno di questi scrupoli; presto si firmerà in nome della
Rivoluzione, in nome della lotta contro lo Stato, contro il rafforzamento
dello stato. Ma le grandi lotte del XVIII secolo si fecero intorno alla
legge, intorno al diritto, intorno a ciò che vale e a ciò che non vale, ciò
che è giusto nella ragione o nella natura. Nulla permette di giudicare
queste lotte superate. Nel XVIII secolo qualche utopista conobbe i regi
decreti, ma almeno esistevano decreti, in URSS o in Argentina non ci si
prende più nemmeno questa pena....
I dissidenti riappaiono oggi non sotto la grande veste dell'intellettuale
avvolto nella sua scienza, bensì sotto forme letterarie e molecolari. Gli
esiliati dell'Est raggiungono altri esiliati che si chiamavano Baudelaire,
Marx, Bakunin. Il problema del diritto naturale ha giocato e gioca ancora un
ruolo decisivo. Il diritto soggettivo, che ieri faceva ancora sogghignare, è
una qualità propria all'individuo (l'individuo è colui a cui non si può
tagliare la testa, viene prima di qualunque legge). Questi diritti naturali
esistono, non hanno bisogno di essere fondati. La giurisdizione positiva -
che ha, invece, bisogno di essere fondata - non può essere contraria ad essi
senza essere ingiusta. Questa protesta del diritto soggettivo è la protesta
della società civile contro la gestione statale. Questa dissidenza è al di
fuori di ogni sistema. Freud ci ricorda che l'inconscio è anch'esso al di
fuori. La metapsicologia lo descrive come costituito da concetti e da
quantità energetiche al di fuori del sistema in cui si dilatano e in cui
giocano le energie. Leggere l'inconscio come fuori codice è sapere che
non si può mai finirla con lui. Freud fino alla fine della sua vita continua
a consacrare un'ora al giorno alla sua autoanalisi. Certo, dice Freud:
La società non può vedere di buon occhio che noi mettiamo a nudo, senza
alcun riguardo, i suoi difetti e i danni che essa causa. (In
"Prospettive sul futuro della terapia analitica").
In effetti tener conto dell'inconscio, di questa spinta al dire, per
utilizzare l'espressione di Leclaire, significa riconoscere la potenza
sovversiva della psiche ma anche del corpo, di questo insieme di luoghi
in cui l'ordine si rivela conflittuale ("Smascherare il reale"). Tener
conto della devianza dell'inconscio significa molto più che farsi amatori di
orgasmi, significa sapere che l'osservatore è lui stesso osservabile,
fallibile. Nessuna scientificità può dissigillare questa posizione. Essa è
intollerabile a tutti i positivismi come a tutti gli idealismi della
riconciliazione che pretendono di colmare il punto vuoto in cui si ancora la
psicanalisi. Le condizioni del senso, di ciò che vale, di ciò che raddrizza,
non sono anteriori alla costituzione dell'ordine del mondo. Ma queste
condizioni sfuggono sempre, esse sono perpetuamente inanalizzabili, in ogni
caso non decomponibili. Il pulsionale resiste sempre. La dissidenza non
nasce dal solo gioco concettuale, essa mette in gioco la forza del singolo.
Queste singolarità non sono commutabili né cambiabili, esse sono com'è
l'inconscio, ribelli a qualunque ordine. All'interpretazione che pretende
sempre di fare ordine, di costruire tassonomie, l'inconscio resiste sempre.
L'ordine, lo Stato o i loro retorici, vogliono sempre classificare,
bloccare, rendere statici, isolare. A queste insidie l'inconscio oppone le
sue fughe, le sue condensazioni, i suoi giochi agrammaticali, visuali
(che si avvicinano più ai processi inconsci che al pensiero verbale
(Freud, "Saggi di psicanalisi").