Declino culturale ed economico, nel silenzio politico

 

di Davide Rossi

 

Il declino dell’Italia è complessivo. Non solo le nostre migliori intelligenze prendono la via dell’estero, tanto nel campo della ricerca scientifico – medica, quanto purtroppo nel campo delle lettere e della ricerca storica, dell’arte e dell’architettura.

A questo pesante declino cultuale si associa l’ancor più complesso e drammatico declino economico dell’Italia.

Una tesi che trova anche consensi nelle maggiori facoltà economiche della penisola, insiste sulla terziarizzazione del sistema produttivo. Servizi, turismo, sarebbero di per sé sufficienti per sostenere il nostro sistema e questa sarebbe la linea di sviluppo delle nazioni occidentali del primo mondo che delocalizzano le produzioni industriali.

Senza dubbio è una tesi affascinate ma assolutamente lontana dalla realtà.

Non solo perché le posizioni acquisite da nazioni come la Sudcorea da una decina d’anni si fondano sull’industria manifatturiera, ad esempio dell’automobile e dei cellulari, ma perché proprio questo tipo di industria garantisce l’attuale crescita fortissima di India e Cina.

Ancor più assurda questa tesi alla luce della presenza tra le prime dieci aziende del pianeta di General Motors, Ford, Daimler, General Eletric, Toyota, e dopo queste delle imprese petrolifere Exxon, British Petroleum, Shell. Tutte appartenenti a nazioni che fanno parte del G7.

Proprio tra le nazioni del G7 l’Italia è la sola che produce il 5% delle medicine che consuma e ne importa il 95%, come una nazione del terzo mondo.

In Francia o in Germania gli istituti professionali non vanno riducendosi a corsi biennali di pre-lavoro come proposto dalla riforma Moratti, perché in quelle nazioni i ragazzi non hanno un panorama produttivo composto come in Italia da un 95 % di aziende che hanno meno di 10 dipendenti e che ricavano nicchie infime di mercato nei settori tessili, alimentari o simili, come produzione di caschi per motocicletta o succhi di frutta.

In Francia gli studenti seguono corsi quinquennali attraverso i quali acquisiscono le fondamentali conoscenze in campo scientifico, tecnologico, informatico. L’operaio francese non ha come prospettiva un capannone in cui produrre mutande di pizzo o conserve di pomodori, ma quella di inserirsi in una azienda che produce ciò che l’industria manifatturiera del resto del mondo ancora non riesce ad assemblare – per mancanza di formazione - ovvero prodotti ad alta qualificazione e specializzazione tecnologica, da apparecchi medici per ospedali a medicine.

Un sistema industriale che presuppone alle spalle di ogni due o tre operai un ricercatore, intelligenze che valutano e studiano le innovazioni necessarie per reggere il confronto internazionale.

Al contrario le imprese italiane non investono nella ricerca e l’Italia è in caduta libera nel quadro dello sviluppo tecnologico ed informatico, ogni anno retrocediamo di una ventina di posti nelle classifiche mondiali.

Luciano Gallino, sociologo ed economista, ha posto questi problemi con provata e scientifica analisi nel suo libro.

Informatica, chimica (forse la voce più drammatica per obsolescenza del settore e totale assenza di innovazione e ricerca), industria farmaceutica, elettronica di consumo (chi non ha uno stereo, un televisore, un lettore musicale, un videoregistratore, un cellulare …), aeronautica civile, per non dire dell’automobile, con il costante crollo del gruppo FIAT nelle statistiche e nella quota di mercato mondiale, ormai ridotta all’1%.

In ogni famiglia italiana oggi c’è un computer, eppure dopo la scomparsa del grande Olivetti il risultato è stato una scarsa innovazione tecnologica e una scarsa ricerca, tanto che il 1997 è stato l’anno della fine della produzione di computer italiani.

Nel campo dell’aeronautica civile negli anni ’30 l’Italia è prima al mondo. Oggi non partecipa al progetto europeo Airbus che ha velocemente conquistato il 60% circa del mercato mondiale e (declinando l’invito di compartecipazione rivoltole a suo tempo dai tre maggiori paesi europei, con un emblematico “non ha futuro”) si è accumulato un deciso ritardo rispetto a Germania, Francia e Gran Bretagna ed oggi anche Spagna. Dilettantismo o tangenti Boeing (il maggior produttore, oggi sconfitto – vd. scandalo Loked)? Alenia aeronautica ha 40mila dipendenti, ma è fuori dalla più grande ed avanzata filiera tecnologica europea del campo, appunto quella che le nazioni citate hanno messo in campo con il progetto Airbus. I dipendenti del settore nelle nazioni coinvolte sono il doppio o il triplo degli addetti del settore in Italia. A fronte di nazioni che hanno come noi circa 60milioni di abitanti (Francia e Regno Unito) , venti milioni in più (a Germania) o in meno (Spagna).

 

Nel campo della chimica vale la pena citare il dato europeo di apertura nel periodo 2004-2005 di 250 imprese nel settore, delle quali 24 in Olanda e 31 in Belgio, nazioni che singolarmente hanno meno abitanti della Lombardia. L’Italia ne ha 14, microimprese con scarsa capacità di incidere in forma determinate in questo campo nel panorama dell’Unione Europea.

Nell’elettronica di consumo il quadro è ancor più sconfortante, tra i primi al mondo negli anni ’30, noi, paese inventore della radio, nel campo DVD e CD copriamo il 5% del mercato interno, il restante 95% è in mano ad aziende giapponesi, statunitensi, sudcoreane e ai marchi europei Philips, Siemens e Grundig.

Nel campo della telefonia mobile il dato è sconvolgente, possediamo 50 milioni di cellulari e ne abbiamo “rottamati” almeno altri 30 milioni.

L’80% del mercato è dominato da quattro marchi: Nokia (Finlandia), Ericsson (Svezia), Motorola (Stati Uniti) e Panasonic (Giappone). Il restante 20% è nella quasi totalità appannaggio di Philips, Siemens, NEC, Samsung e Alcatel. Ai due marchi italiani il 2% del mercato.

Se alla lettura di Luciano Gallino si associa il libro di Roberto Petrini intitolato “Il declino dell’Italia” (Laterza) il quadro si rende completo.

Esistono più declini, quello del mercato e della concorrenza che porta l’Italia a spendere più di tutti in Europa per l’elettricità. Il declino dei consumi, il più immediato specchio dell’impoverimento della nazione. Il declino della ricerca scientifica, con il numero più basso di laureati dell’intera Unione Europea e uno tra i più bassi numeri di brevetti depositati al competente ufficio europeo, una percentuale irrisoria rispetto non solo a Francia, Germania e Regno Unito, ma anche rispetto a Finlandia, Svezia, Olanda e Danimarca.

Petrini riprende il tema dell’incapacità del mondo imprenditoriale italiano, di reggere il confronto con il resto del vecchio continente. I dati relativi alle quote di mercato sono sconfortanti e il paragone con il G7 impietoso. In parallelo, Petrini cita un dato che merita di essere considerato: secondo l’ISTAT, dal 1993 al 2001 il reddito da lavoro dipendente in termini reali in Italia ha subito un calo del 3,4%, in Francia una crescita del 7,4% e in Germania, seppur modesto, un + 0,9%.

Petrini disvela in modo documentato anche il drammatico declino, se non proprio la scomparsa, delle garanzie sociali.

I lavoratori interinali, ci racconta, non sono ragazzi, ma in maggioranza persone tra i 30 e i 50 anni che hanno difficoltà ad arrivare alla fine del mese. Gli anziani vengono assistiti dai figli e i nipoti vengono curati dai nonni fin che possono. Infine una certezza, nell’immediato futuro la pensione equivarrà al massimo al 50% dell’ultimo stipendio.

Le cifre in una nazione “normale” verrebbero lette e vi si rifletterebbe. In un paese di Azzeccagarbugli come il nostro non vengono lette, e ancor meno ponderate e meditate. Certo, in questa triste stagione di imbecillità televisiva e di declino del confronto politico a variabili da varietà d’avanspettacolo degli anni ’50, intavolare un dibattito su questi temi rischia di essere quasi impossibile perché i politici non ne hanno il coraggio e poi questi argomenti depressivi non porterebbero ascolto, rischierebbero di finire tramortiti da un colpo di telecomando. Il vero problema è forse che non se ne discute nemmeno in parlamento.

Ci auguriamo in ogni caso che i lettori abbiano compreso come in Europa, telefonini, aerei o medicine, la produzione manifatturiera sia determinante per il sistema economico nazionale e ugualmente il discorso vale per Stati Uniti, Canada e Giappone.

Senza industria manifatturiera è difficile essere nel novero delle nazioni più importanti ed anche solo garantire un futuro non peggiore del presente ai propri cittadini.

Senza un’istruzione che promuova cultura e saperi critici si costruisce la propria sconfitta.

Questa possibilità impone un obbligo ugualmente politico ed economico, la scelta di strategie e di politiche ben chiare che vedano sviluppare le famose “sinergie” di investimenti, di sostegni, di opportunità.

Tragicamente il “sistema Italia” vede il mondo politico del tutto incapace di porre con chiarezza questi problemi cercando, troppo spesso, un accordo con le logiche spesso perdenti del mondo confindustriale. Ecco il problema più serio, un padronato che si adagia alla mera sopravvivenza momentanea, senza la capacità di progettare un futuro possibile.