Dietro "Faber"
È stato presentato ufficialmente l' 11 gennaio scorso (primo anniversario della morte del cantautore) a Milano, nel salone della Provincia in via Corridoni, il filmato "Faber", dedicato a Fabrizio De André. Ai due registi abbiamo chiesto il senso del loro "prodotto". Questo loro scritto appare anche nella monografia "Signora Libertà, Signorina Anarchia".
Quali sono i percorsi lungo i quali si è sviluppata l'identità di
Fabrizio De André? E questi percorsi, in quali scenari si sono dipanati?
Quali le voci, le emozioni, i sentimenti che, nel tempo, là si sono
sedimentati sino a diventare una cosa sola con l'essere e il sentire
dell'individuo?
Questi gli interrogativi che, per la realizzazione di Faber, hanno
guidato il nostro viaggiare tra la Sardegna dell'Agnata, la Genova dei "caruggi"
e la Milano, metropoli della transizione postfordista stretta tra le
irriducibili contraddizioni delle vecchie e nuove povertà.
Ciò che ci interessava era scoprire quali "fili" avessero tessuto l'arazzo
della poetica di Fabrizio, quella poetica così forte, unica e nello stesso
tempo eco di idee e di utopie antiche che nel corso di più di trent'anni
avevano contribuito a formare anche il nostro "sentire" il mondo.
La strada che scegliemmo fu quella di "non cercare" ma di lasciare che gli
scenari, i luoghi, le voci, le emozioni, i sentimenti su cui ci eravamo
interrogati, trovassero noi, in modo da far sì che fossero loro a guidarci
lungo le "rotte" della poesia di Fabrizio De André.
Volevamo, cioè, che la sua poesia si materializzasse davanti a noi nelle
forme originarie che l'avevano generata, volevamo riconoscerla nei colori e
nei rumori di un luogo, nelle parole dei suoi amici, nei visi della serenità
e in quelli della disperazione che affollano l'eterna commedia umana.
Sapevamo che quello era il solo modo per ritrovare le parole di Fabrizio in
tutta la loro ricchezza semantica.
E, infatti, così è stato.
Dal fattore Filippo a don Vico agli altri amici di Tempio Pausania, di
Genova e di Milano; dai luoghi del mirto e dei boschi impenetrabili; dai
vicoli dell'amore mercenario come dalle strade "vestite a festa"
dell'esibizionismo benpensante; dalle "terre di nessuno" extra-metropolitane
abitate da rom e dai "nuovi miserabili" che la nostra civiltà del profitto
produce, emergono, a volte direttamente, altre volte quasi in filigrana, i
versi delle canzoni di Fabrizio.
Inevitabilmente, da questo humus creativo, emerge anche la grande arte del
poeta che di quegli scenari e di quella umanità ha cantato, muovendo ora le
corde della pietas ora quelle dello sberleffo e dell'indignazione.
Perché abbiamo "girato" Faber? Per un omaggio, per un atto di amore verso
chi aveva con noi un inestinguibile credito di poesia ma anche di umanità,
di affetto verso gli umili e i reietti, verso quelli cioè che avevano
popolato gli orizzonti del nostro agire e che lui, Fabrizio, era riuscito a
dargli dignità e storia.
Realizzando Faber, abbiamo avuto la conferma - se mai ce ne fosse stato
bisogno - che in Fabrizio non c'era manierismo, non c'era la "furbizia" di
chi ha cantato l'utopia - pronto a rinnegarla il giorno dopo qualora i venti
cambiassero - solo per guadagnarsi un "posto" nelle hit-parade del
consumismo usa e getta.
Per Fabrizio la parola "impegnava", si faceva "gesto" e lo coinvolgeva,
coinvolgendo, nel contempo, coloro che lo ascoltavano.
Ecco perché più sopra abbiamo scritto "inevitabilmente emerge": la "varia"
umanità cantata da De André è così vera, così reale, perché Fabrizio è stato
lì, con quell'umanità, con la quale si è confrontato, scontrato, ha riso e
sofferto, in ogni caso si è sempre "messo in gioco" in prima persona non
demandando a pindariche quanto fantasiose elucubrazioni (così comuni nella
spesso miserina quanto pedante prosopopea del ceto intellettuale), il senso
ultimo del proprio impegno.
Missione compiuta, dunque: il nostro viaggiare ci ha confermato le certezze
che in fondo già avevamo; ma non solo: il nostro viaggiare "attorno" a
Fabrizio, ci ha insegnato alcune "regole", alcuni modi di essere che hanno
nel rigore, nella onestà, nella responsabilità il loro cardine.
Ma questa è una storia nostra, personale, intima che poco può interessare a
chi ci legge. D'altra parte, a chi le vuole imparare, queste stesse cose le
insegna tutta l'opera di Fabrizio De André.
Bruno Bigoni e Romano Giuffrida