È solo un concerto sospeso di Mauro Macario
"Belin, ma cosa vai a fare il militare, sono tutte cazzate, diserta!"
Se essere anarchico significa spogliarsi d’ogni reticolato indotto,
disfarsi dei ruoli imposti, rifiutare le identità obbligate, allora oggi per
ricordare Fabrizio, a così pochi giorni dalla sua scomparsa, mi sradico da
ogni attesa, respingo la parte di critico, di chi tenta con troppa
sollecitudine di abbozzare un ritratto già storicizzante dell’artista con
quel senso odioso di postumo cui oppongo invece il senso del presente e del
futuro e, come in una nicchia, torno a impadronirmi della dimensione pura e
selvatica dell’amico che pur compenetrato nell’infinita stima e nell’utopia
struggente che ci ha accomunati (in un rapporto purtroppo non di lunga data)
preferisce calarsi nella voragine della sua assenza, uno scavo affettivo,
esistenziale e generazionale, che è difficile culturalizzare in un gergo
precotto da intellettuale di regime o da anticonformista euclideo.
Nel 1967 quando Tenco si suicidò avevo vent’anni. Fui attraversato da uno
stato d’animo che definirei "sentimento dell’orfano". Però quel colpo di
pistola risuonò in me come il colpo dello starter alla partenza: la mia
corsa verso i poeti in musica e sulla mia strada incontrai De André, una
presenza centrale e parallela per tutta la vita. D’impulso telefonai a
Fabrizio che non conoscevo personalmente ma che già amavo e gli chiesi di
incontrarlo, forse per riacquistare parentela elettiva con "la famiglia dei
poeti". Senza esitare mi invitò nella sua casa di Genova e mi fece
ascoltare, ancora prima di averla incisa, "Preghiera in gennaio" la canzone
dedicata a Luigi. Prima di congedarmi, emozionato e in soggezione, gli dissi
che stavo per partire per fare il servizio militare. Si voltò, mi guardò di
sbieco e così proruppe: "Belin, ma cosa vai a fare il militare, sono tutte
cazzate, diserta!" e concluse affermando che, a causa del panico, non
avrebbe mai cantato in pubblico.
Emozione latitante
Io non disertai e per fortuna lui, dopo qualche anno, prese a cantare in
pubblico e per la gioventù musicale, poetica e utopica cominciò un’era: il
poeta dopo epoche arcaiche tornava tra la gente con la musica, lasciando la
poesia d’élite nei salotti transilvanici. L’invocazione di Leo Ferré si
avverava: "La musica, la poesia nelle strade... e ci verrà!" E nel caso di
Fabrizio, una poesia che coniuga la tenerezza con l’indignazione, il
sarcasmo con l’invettiva, la pietà con l’amore, il sogno con l’anarchia. Il
poeta in musica, sebbene raro (ne nasce uno ogni cento anni) rappresenta
nella contemporaneità la forma più alta e toccante di poesia anche se gli
accademici, quelli del verso cattedratico, non digeriscono questa
metamorfosi assumendo un atteggiamento sprezzante verso chi, ad un
linguaggio ermetico, enigmistico e glaciale, sceglie invece la grande
comunicazione, quella viva, palpitante, diretta, condotta sul filo di
un’emozione sempre più latitante in un’epoca disidratata da sistemi sociali
inumani, demenziali e distruttivi.
Nel ‘94, ventisette anni dopo il primo incontro, rividi Fabrizio a un
concerto milanese e la fraternità spontanea che è un fenomeno inspiegabile
rifiorì in un attimo facendomi oggi rimpiangere di non averlo frequentato in
tutti gli anni precedenti. Durante un pomeriggio trascorso a casa sua, a
Milano, mi disse, anche sapendo della mia amicizia con Leo Ferré, che gli
sarebbe piaciuto cantare "Gli anarchici" e una volta al telefono me la
accennò. E fu per me un onore indimenticabile averlo tra il pubblico a "Genovantasette",
un festival internazionale di poesia che ogni anno si tiene a Genova e dove
in quell’occasione davo un recital su Ferré assieme a Enrico Medail.
Anche quest’anno ci siamo visti a Genova, ma per il suo ultimo ritorno.
C’erano tutti: giovani musicisti di strada che cantavano, compagni con le
bandiere nere e la A cerchiata in rosso, cantanti famosi, gente del popolo,
borghesi pentiti. E una Nannini rigorosamente fuori dalla chiesa. E io ero
in chiesa, un luogo non adatto a Fabrizio né a me.
Tre gonne indossate
Tra la gente "normale" stazionava funambolica e assente una barbona con tre gonne indossate una sopra l’altra per il freddo e un sacchetto di plastica con la sua casa incorporata: un personaggio "reale" del mondo poetico di Fabrizio era lì, per lui. Per lui c’erano anche le autorità; quelle autorità che Fabrizio aveva sempre detestato e che lo avevano sempre guardato con sospetto e timore adesso lo omaggiavano, compreso il prete che gli ha riconosciuto di aver inventato un nuovo alfabeto dell’amore per gli umili e i diseredati. Solo che Fabrizio voleva che gli ultimi fossero i primi qui, sulla terra, e non in paradiso. La chiesa metabolizza anche chi la avversa. Ma quelle bandiere nere che sventolavano meste alla brezza gelata, quelle sì erano l’unico sudario che avvolgeva Fabrizio e i suoi sogni, i sogni di noi tutti. E’ solo un concerto sospeso.
Mauro Macario