Da Carimate a Genova via Maghreb
colloquio con Mauro
Pagani
di Paolo Finzi
Da un lungo lavoro di ricerca sul materiale sonori mediterranei nacquero "Creuza de mä" e poi "Le nuvole". A colloquio con una delle persone più interessanti del panorama musicale italiano, stretto collaboratore e grande amico di De André.
Fabrizio era anarchico fin da ragazzo. C’era, in lui, un’indubbia
carica di sentimento, ma c’era anche un approfondimento culturale, c’erano
precise letture alle sue spalle. Certo, il suo anarchismo si è andato
modificando negli anni, alla luce delle sue esperienze. Agli inizi il suo
era un anarchismo individualista, stirneriano, poi problemi, implicazioni,
discussioni, riflessioni lo hanno portato ad una visione più articolata,
sociale.
Mauro Pagani, 53 anni, una delle figure più interessanti della musica
italiana, grande amico e stretto collaboratore di Fabrizio ("Creuza de mä" e
"Nuvole" il frutto principale del loro sodalizio) ricorda l’amico da poco
scomparso. E lo fa con parole misurate, precise, profonde, dietro le quali è
facile cogliere lo spessore di una grande, inespressa nostalgia.
Personalmente ho già incontrato Mauro qualche volta, sempre complice De
André. L’ultima volta quasi otto anni fa, in occasione del concerto
napoletano di Fabrizio in sostegno di questa rivista e del settimanale
Umanità Nova: Mauro suonava vari strumenti, con grande maestria. Ed era
stato - con Pepi Morgia (allora il tecnico delle luci) - l’unico della
troupe a rinunciare, per quella serata, al proprio compenso,
devolvendolo alla nostra rivista.
Ricordo un’altra volta: era in gestazione "Le nuvole". Aurora ed io
arrivammo a casa di Dori e Fabrizio poco dopo di lui. Mauro stava
raccontando a Fabrizio di un suo recente viaggio nel Maghreb alla ricerca di
nuove sonorità. Ci aveva colpito la sua cultura, ci aveva affascinato
scoprire quale lavoro possa esserci in una ricerca musicale, che diventava
un’occasione per conoscere altre culture, altri approcci.
Per Fabrizio - spiega Mauro - l’anarchia era un insieme di tante
piccole realtà, basata su rapporti diretti tra le persone. Un’Italia dei
Comuni, potremmo dire, contrapposta a quella dei grandi poteri. Ed è proprio
da questa sua concezione che derivavano la sua autentica passione ed il suo
grande rispetto per le minoranze, per la salvaguardia delle etnie, per le
singole individualità.
Affascinazioni reciproche
Pagani ricorda il proprio percorso per tanti aspetti analogo, dopo la sua
uscita dalla PFM nel ‘77: il lavoro intrapreso nell’ambito della cultura
mediterranea, sulla scorta di quanto già realizzato da musicisti del calibro
di Demetrio Stratos, del Canzoniere del Lazio e di Teresa de Sio. Pagani si
interessava soprattutto alle "filiazioni illegittime" (così le definisce)
della cultura turca a contatto con le culture autoctone, nei paesi slavi, in
Italia meridionale come nel Nord Africa. E quando casualmente incontrò
Fabrizio in una sala d’incisione, al castello di Carimate, iniziarono a
parlare, verificarono subito tante assonanze: nacque così il progetto di "Creuza
de mä". All’origine - ricorda - avrebbe dovuto essere il disco di
un viaggiatore, un marinaio, che ritorna a casa dopo tanti anni e parla una
lingua che è un miscuglio di mille idiomi - quelli che lui ha incontrato nel
suo peregrinare. Con Fabrizio, il progetto era dunque quello di scriverlo in
una lingua inventata. Successe poi che, a tre quarti della lavorazione, a
Fabrizio venne l’idea geniale di fare il disco in genovese (una lingua che
contiene già 1.000/1.200 vocaboli di origine araba).
Pagani parla di un momento perfetto di necessità espressiva,
coincidente tra Fabrizio e me. "Creuza de mä", se da una lato poté avvalersi
di 5 o 6 anni del mio lavoro sui materiali sonori mediterranei, dall’altro
ebbe il pregio di una grande freschezza poiché lo buttammo giù di getto.
Era l’inizio della loro collaborazione basata su di una precisa divisione
dei compiti (Mauro curava il progetto musicale, Fabrizio i testi e la
supervisione generale), ma soprattutto su di un’affascinazione reciproca:
che - Mauro non lo dice, ma lo si capisce lontano un miglio - non è mai
venuta meno.
Ancora più intensa e profonda è la collaborazione tra i due per il disco
successivo "Le nuvole". Dietro - ci tiene a precisare - ci sono le
ragioni sociali del mondo. Pagani traccia un parallelo tra il
disfacimento del vecchio mondo subito dopo il Congresso di Vienna del 1814 e
la situazione socio-politica quale affiora tra le pieghe del disco: il
crollo di un impero, il riemergere delle specificità etniche, ecc.. Si
sofferma su "La domenica delle salme", letta come la presa d’atto
dell’avvenuto, silenzioso colpo di stato, dello svuotamento delle coscienze,
il tutto sull’onda del nulla, del vacuo e dell’apparire - con la parallela
scomparsa dei valori di solidarietà.
La chiacchierata si sposta sui temi dell’impegno sociale, del volontariato,
della trasformazione sociale. Pagani ricorda che sia lui sia Fabrizio erano
lontani dall’attivismo politico, sentendosi entrambi estranei a quel modo di
comunicare politico, freddo, sloganistico, che parte dai massimi sistemi per
"tagliare" la realtà e dipingerla a proprio uso e consumo. Se racconti le
cose per avvenute sintesi, anche verbali, non riesci mai a comunicare dei
procedimenti che abbiano un rapporto vero con la vita e con la sofferenza,
chiarisce. Secondo lui, un modo più autenticamente "anarchico" di comunicare
sarebbe quello di non fare sintesi o grandi considerazioni, ma raccontare
storie di persone, fornendo a ciascuno gli elementi per capire e trarre
delle proprie conclusioni personali.
Pagani ricorda che questa è stata una caratteristica costante nella
produzione di Fabrizio. E cita, per esempio, una canzone degli esordi come
"Bocca di Rosa" ed una della maturità come "Don Raffaé": nessun giudizio su
di loro, né su quelli che stanno loro intorno. Gli faccio osservare che,
comunque, anche dalla sola descrizione si coglie ben preciso un messaggio,
una presa di posizione. Mauro concorda, ma ci tiene a sottolineare ancora
una volta l’importanza dell’approccio di Fabrizio (e suo). Anche se ha ben
presente il rischio della banalizzazione, inevitabile in chi comunque fa
"canzonette". Il confine tra facilità e banalità può essere molto sottile
- spiega Pagani - Fabrizio lo sapeva ed usava mille attenzioni.
Un po’ nomade
La vita presenta, a volte, delle strane coincidenze. Tre anni fa parto
per le vacanze estive nel pieno del mio interessamento per il mondo zingaro.
Decine di libri e riviste nel bagagliaio, una specie di innamoramento che
per qualche settimana non lascia quasi spazio ad altri temi. Nel porto di
Livorno, prima di prendere il traghetto per la Corsica, compro "Anime
salve", l’ultima cassetta di De André: e scopro che contiene un pezzo
bellissimo, poetico e graffiante al tempo stesso, sugli zingari. Le
coincidenze, appunto. E mi ricordo di quel primo incontro con Fabrizio
all’hotel Cavour, della sua dichiarazione "sono anarchico anche perché sono
dalla parte degli zingari, delle puttane, degli obiettori...". Allora avevo
un po’ sorriso, dentro di me, per quegli accostamenti che mi apparivano
arditi.
Vent’anni dopo quelle parole assumevano un significato più preciso e
svelavano un approdo comune, in percorsi pur tanto diversi come i nostri.
Ne parlo con Pagani, gli chiedo se e come abbia incrociato ed approfondito
la cultura zingara nelle sue peregrinazioni mediterranee. Mi risponde
affermativamente e scopro che, anche in questo campo, ne sa molto più di me.
Mi parla della "Madonna nera" in Camargue, ma anche delle sue ricerche in
Bulgaria, nell’Ungheria meridionale, dei suoi rapporti - proprio nell’ambito
di questa sua personale ricerca - fin dagli anni ‘70 con Moni Ovadia (allora
nel Gruppo Folk Inter-nazionale).
Racconta poi di un suo bisnonno croato, che era nato su di una nave (tanto
che venne giudicato "apolide") e - professione tipicamente (anche se non
esclusivamente) zingara - aveva un circo. Un po’ di spirito zingaro,
nomade, me lo porto dentro - sorride.
Una battuta, in chiusura, su Fabrizio, sull’amico comune che ci ha fatto
incontrare allora. E anche oggi. Tanto dibattere sulla poesia di De André
mi fa sorridere. Da anni i suoi testi fanno parte di molte antologie
scolastiche - osserva Pagani - Non mi sembra che sia successo ad
altri.
P.F.
La nuova anarchia a 4 mani
Negli anni ‘60, a Mantova, frequentavo il circolo anarchico "Ettore
Molinari". E proprio quell’epoca risale uno spettacolo pubblico,
organizzato con altri giovani libertari mantovani: ci ritrovammo con
la chitarra a suonare e cantare alcune canzoni di De André: "La
guerra di Piero", "La canzone del Miché", ecc. In segno di spregio
per il nazionalismo, io mi pulii pubblicamente il naso in una
bandiera tricolore. Fui denunciato per "vilipendio della bandiera" e
successivamente condannato a 8 mesi in Corte d’Assise. Sorride
Alessandro Gennari, ricordando quell’episodio di oltre 30 anni fa’.
E ricorda che De André lo conobbe in un modo a dir poco
rocambolesco. P. F. |