Fabrizio lo conoscevo da più di vent’anni e dai miei vent’anni. Infatti
la prima volta che ci siamo visti me ne ero appena andata di casa e già
vivevo a Milano. Stavo alle prime incazzature per i dischi... con la
Ricordi, la sua stessa casa discografica e credo che la prima volta lo vidi
proprio lì. In quel periodo tutti e due piacevamo ai "tedeschi" e sapevo che
anche lui era stato "esportato". Una mattina prendo la moto e vado a
trovarlo in Sardegna, e attraverso i boschi scopro la sua casa-azienda
agricola. Si beve, si mangia, si scherza, si ride, si parla delle parole dei
suoni della voce. Era l’estate del ‘79...
Per me la sua voce è un "marchio sociale", una sorta di tatuaggio nell’aria,
forse anche per il modo che ha di dare musicalità alla parola, di costruirne
i segni grafici.
È qualcosa che mi fa pensare alle culture orali, a Omero. Prima che la
cultura diventasse scritta le espressioni linguistiche che si imparavano di
bocca in bocca valorizzavano la sonorità della parola che rimaneva nella
memoria, proprio perché questa non si staccava dal suo ambiente fisico.
Immagino come, nel suo instancabile ricercare, Fabrizio non si sia mai
accontentato e abbia continuato a "parassitare" di rumore le sue parole: dal
suo accostamento al rock con la PFM fino alle scelte dialettali e alla sua
meticolosa quasi rigida ricerca strumentale etnica. Non ho una conoscenza
approfondita del suo repertorio. A me piace avere davanti la persona, il
compagno Fabrizio nel suo lato più libero del termine. Per chi l’ha saputo
conoscere è stata una fortuna, un ottimo scontro-confronto, che a me ha dato
una forte carica per difendere la musica in maniera sempre più autonoma e
una sincerità più radicale nel comporre.
Gianna Nannini