Danton, come Robespierre e Marat, è una creazione
della rivoluzione. Egli sorge dall'immenso avvenimento senza alcun
preavviso. Malgrado gli sforzi dei suoi biografi per cercare nella
sua giovinezza dei segni premonitori, si fa fatica a scorgere nel
giovane Danton dei loro ritratti un personaggio già calamitato verso
la futura rivoluzione. Era nato ad Arcis-sur-Aube nel 1759, in un
ambiente di piccola borghesia di toga, uscita solo di recente dalla
classe contadina. Aveva compiuto studi irregolari presso gli
oratoriani, era diventato praticante nell'ufficio di un procuratore
a Parigi, poi avvocato. Alla vigilia della rivoluzione è un avvocato
modesto, meno miserabile di quanto abbiano detto i suoi avversari
(per meglio valorizzare il carattere improvviso e sconveniente della
sua fortuna), ma meno florido di quanto affermino i suoi seguaci.
Senza dubbio aveva l'Encyclopédie nella sua biblioteca, fra Plutarco
e Beccaria, ma tale possesso, allora quasi obbligato, non può far
concludere che si nutrisse di Diderot. Nella sua prima causa aveva
dovuto difendere un pastore contro un nobile, ma a quale avvocato
illuminato non era capitato di trattare, a quei tempi, questo
magnifico soggetto? Nulla di tutto ciò basta a spiegare un impegno
rivoluzionario.
Madame Roland, che lo odiava, ha visto giusto dicendo che egli "era
nato nella sua sezione". Ciò è confermato da una testimonianza di
Laveaux, il quale scoprì con stupore, il 23 luglio 1789, il suo
collega Danton, fino allora "mite, modesto e silenzioso", in piedi
su un tavolo, intento a sobillare i cittadini. Tale è l'ingresso di
Danton nella vita pubblica: egli appare sulla scena della
rivoluzione come agitatore di piazza. Ed è sempre come agitatore che
compie il suo apprendistato rivoluzionario a capo dei cordiglieri,
il distretto del suo quartiere. Questo distretto d'avanguardia si
batte, per tutto il 1790, contro il "dispotismo municipale" e contro
Bailly, l'uomo della Pallacorda. Una guerriglia incessante, che
procurerà a Danton, eletto e rieletto presidente del distretto, un
mandato d'arresto, e che gli permetterà di mettere a punto un
talento oratorio il cui effetto, come ebbe a scrivere Thibaudeau,
era prodigioso. Al tempo stesso aumenta la sua reputazione di
tribuno di quartiere, di Mirabeau da strada.
Infatti Danton, come Mirabeau, è un "tipo", un personaggio
profondamente teatrale. Per le sue proporzioni: "Atlante", "Ercole",
"Ciclope", i contemporanei non hanno saputo come rendere le "forme
atletiche" di cui, un po' fanfarone, egli diceva di esser stato
provvisto dalla natura.Per l'unione di tratti contraddittori: un
viso “ripugnante e atroce” con un aria di grande giovialità”,
massacratore senza
ferocia, gaudente senza avidità, terrorista senza principi, parvenu
senza avarizia, pigro frenetico, tenero colosso, Danton ha avuto
sempre la capacità dì ispirare il ritratto antitetico. Infine, per
le crisi drammatiche della rivoluzione, da cui non può separarsi;
perché, a questa "natura", la rivoluzione darà qualcosa di più di un
impiego: un'identità.
Come Robespierre, infatti, Danton ha ricevuto in sorte il potere di
incarnare la rivoluzione. Intorno alla sua persona si è formata ben
presto una leggenda, si è scatenata una polemica ideologica e
politica, si è riunita una schiera di dantonisti militanti,
impegnati nell'immensa revisione del processo fatto a Danton da
Saint-Just e Robespierre. Un processo in cui era stata emessa una
sentenza, ma non pronunciata un’arringa di difesa: tanto che
l'arringa postuma creata per Danton dai suoi seguaci è,
inscindibilmente, una requisitoria contro coloro che avevano
macchinato la sua rovina, e diventa un giudizio comparato di
Robespierre e di Danton. Il parallelo fra i due uomini, topos della
storiografia rivoluzionaria, è stato tracciato cento volte. Si è
contrapposto Robespierre a Danton come la virtù al vizio,
l'incorruttibilità alla venalità, la laboriosità all'indolenza, la
fede al cinismo: è la versione dei robespierristi o, come dice
Michelet, dei "cattolico-robespierristi", felici "di 'settembrizzare'
la memoria degli increduli". Ma si possono anche contrapporre i due
uomini come il malaticcio al vigoroso, il sospettoso al generoso, il
femminile al maschile — o meglio al maschio — l'astratto al
concreto, lo scritto all'orale, il sistema morto alla viva
improvvisazione: ed eccoci, questa volta, in pieno dantonismo.
Della leggenda dantoniana, Mathiez ha detto che era una fioritura
tardiva, scolastica e povera, opera esclusiva della République des
camarades. L'immagine di Danton, tuttavia, si è già formata col
Romanticismo. Quando Michelet, nelle prime pagine della sua Storia
della rivoluzione francese, incontra Danton e Desmoulins, sa che
"essi ci seguiranno, non ci lasceranno più", perché "la commedia, la
tragedia della rivoluzione vivono in loro, o in nessuno". Nel corso
del suo lavoro Michelet scoprirà le eclissi del suo luminoso eroe,
ma continuerà ugualmente a fare di lui l'incarnazione della
rivoluzione, "il vero genio pratico, la forza e la sostanza che la
caratterizzano nel fondo". Che cos'è questo genio? "L'azione, come
dice un antico. E che cos'altro? L'azione. E, come terzo elemento,
ancora e sempre, l'azione." Si sarà riconosciuta qui la parafrasi
del celebre triplice appello di Danton all'audacia, in cui Quinet, a
sua volta — che aveva attinto da Baudot la sua ammirazione per il
"sovrano rivoluzionario —scorge "il motto di un intero popolo".
La letteratura e la drammaturgia romantiche non sono state da meno.
ilugo, che fa dialogare Marat, Robespierre e Danton in una bettola
del distretto dei cordiglieri, attribuisce a Danton questa battuta
decisiva: "Ero lì il 14 luglio, ero lì il 6 ottobre, ero lì il 20
giugno, ho fatto il 10 agosto." E Bùchner: "AI Campo di Marte ho
dichiarato guerra alla monarchia, l'ho abbattuta il 10 agosto, l'ho
uccisa il 21 gennaio, e ho lanciato ai re una testa di re in segno
di sfida." Il Danton romantico, visto nella drammatica luce della
morte, è il Danton dalla parola elettrizzata dai "subitanei moti
dell'anima", la cui forza vitale genera e riassume al tempo stesso
eventi inauditi, il Danton delle "giornate".
E vera quest'immagine? Il 14 luglio, non v'è traccia di Danton:
nessuno l'ha visto alla presa della Bastiglia. Lo si è visto prima,
il 13, mentre arringava le
truppe cordigliere, e dopo, nella notte dal 15 al 16, mentre le
trascinava verso la fortezza per far arrestare un governatore
fayettista, ben presto rilasciato. È’ assente anche dalle giornate
di ottobre. Ma, prima, aveva redatto il manifesto dei cordiglieri
che chiamava alle armi i parigini e, dopo, ringraziò Luigi XVI per
essere tornato fra i suoi. 1118 aprile 1791 — giorno in cui il re
tenta di raggiungere Saint-Cloud — il suo ruolo è ancora
retrospettivo: ai giacobini, tira le somme della giornata. 1117
luglio è assente dal Campo di Marte, ma vi si trovava la vigilia per
presentare, con Brissot, il testo di sapore orléanista che chiedeva
all'Assemblea di ricevere l'abdicazione del re, e, il giorno dopo,
giudica prudente fuggire da Parigi. Nella notte del 10 agosto lo si
vede soltanto durante una capatina alla sua sezione, e un'altra
all'Hòtel de Ville ("Tu fosti assente in quella terribile notte,"
gli dirà SaintJust). Ma, prima, aveva tracciato ai federati la loro
linea di condotta e fatto votare, nel rifugio della sua sezione, la
celebre dichiarazione in cui, abolendo la distinzione fra cittadini
attivi e passivi, fondava l'uguaglianza politica sul pericolo in cui
versava la patria. Ma dopo, eccolo ministro della giustizia, titolo
che consolida la sua reputazione di uomo del 10 agosto. Lo era, in
ogni caso, agli occhi del ministero girondino. I suoi buoni rapporti
con la Comune insurrezionale — che lo aveva riportato alle sue
funzioni di sostituto — potevano bastare a imporlo come uomo
dell'insurrezione; Condorcet gliene aveva quasi accordato il
brevetto, convinto com'era che al ministero occorresse un "uomo che,
per il suo ascendente, potesse tenere a freno gli strumenti
miserabili di una rivoluzione peraltro utile, gloriosa e
necessaria". Danton è quindi diventato ministro, come dice Camille
Desmoulins, "in grazia del cannone", un cannone che tuttavia si era
accontentato di ascoltare. Dimentichiamo perciò la tradizione
romantica. Danton ha organizzato, preparato ("ho preparato il 10
agosto," disse al Tribunale rivoluzionario) delle giornate cui non
ha partecipato. In compenso, sono le giornate a creare lui, e in
particolare il 10 agosto. Questa data apre una frattura nella vita
di Danton: ieri agitatore di quartiere, domani capo della
rivoluzione.
Una nuova versione della leggenda avrebbe poi fatto omaggio
esclusivo a Danton di questa parte di capo. La scuola positivista,
come ha scritto Mathiez, si azzardò a "scegliersi un precursore
nello sbracato gaudente dei cordiglieri" e a dipingere Danton come
figlio di Diderot. Delle tre filosofie che si sono spartite il XVIII
secolo, Comte aborre in effetti quella di Voltaire (il trono senza
l'altare), quella di Rousseau (l'altare senza il trono), ma
riverisce la scuola enciclopedica, sia per il radicalismo della sua
emancipazione (né altare, né trono), sia per il suo atteggiamento
"relativistico": termine che, nel linguaggio del positivismo,
significa che, lungi dal conferire al presente un valore assoluto,
non si perde di vista l'avvenire, il quale deve dare al presente il
suo colore e il suo senso. Ora, nonostante il carattere
necessariamente incerto della filosofia degli enciclopedisti
(poiché, se è vero che le credenze teologiche sono morte, le
credenze positive non sono ancora nate), essa ha tuttavia prodotto
due eroi: uno teorico, che è Condorcet, l'altro pratico, che
èDanton. Il terzo volume del Corso di filosofia positiva contiene
perciò l'inaspettato elogio dei dieci mesi in cui trionfa la
"tendenza organica" della rivoluzione francese, fase ascendente in
cui, contemporaneamente, si sostituisce la rivoluzione alla
monarchia, si tenta di fondare una religione respingendo la
teologia, si riunisce la nazione intorno alla salute pubblica, si
istituisce un governo civile capace di unire l'ordine alla libertà.
L'anima di questa breve epoca è Danton, il quale aveva compreso che
a un
regime transitorio occorre una dittatura transitoria, una "dittatura
nuda". Dopo di che, col retrogrado Robespierre, l'ondata
rivoluzionaria rifluisce.
Nel ritratto tracciato da Comte, e poco dopo da Robinet e Laffitte,
scartiamo ciò che rientra in un incerta agiografia: Danton è stato
l'anima della lotta repubblicana contro Luigi XVI? Nulla è meno
sicuro: sia le dichiarazioni di Danton ai giacobini (su "l'individuo
regale che non può più essere re se diventa imbecille") sia la
petizione redatta con Brissot per il Campo di Marte lasciano spazio
a un dubbio (si trattava di un passo verso la repubblica o verso il
duca d'Orléans?) che l'atteggiamento di Danton nel processo del re
non aiuta a risolvere. D'altra parte, egli è stato davvero l'uomo
del culto della Ragione, come avrebbero voluto pensare i positivisti
allergici all'Essere supremo? E un'ipotesi ancor più difficile da
sostenere. Perché, anche se si tiene presente la superba risposta di
Danton al Tribunale rivoluzionario — "La mia residenza? Domani nel
Nulla" — non è possibile dimenticare le sue frasi di tono
voltairiano sui preti consolatori di un popolo diseducato, né
ignorare l'appoggio che egli ha dato alla politica moderata di
Robespierre. Ciò è dipeso dalle circostanze, replicano i positivisti
dantoniani. Ma per l'appunto: sul problema della religione, come su
quello della repubblica, Danton ha solo convinzioni di circostanza.
Resta l'argomento principe dei positivisti, quello che fa di Danton
l'uomo che ha compreso "il carattere transitorio della situazione
sociale", che ha sostenuto l'eccezionalità delle circostanze
rivoluzionarie e ha definito la rivoluzione, senza debolezze, come
un evento straordinario. In tal senso, le vere "giornate"
rivoluzionarie di Danton sono quelle dell'8, 9, 10 e 11 marzo 1793,
quando, di ritorno dal Belgio, egli invita i deputati ad accorrere
personalmente alle sezioni di Parigi per accelerare il reclutamento.
E in quei giorni che appoggia il discorso di Robespierre per un
governo forte; che chiede, contro il parere dei girondini, la
creazione di un Tribunale rivoluzionario, poiché "non vede alcuna
via di mezzo" tra questa istituzione e le forme ordinarie; e
suggerisce ai deputati di scegliere i ministri anche nel proprio
seno. Una proposta cui la Convenzione rimane sorda: il Comitato di
salute pubblica che essa ha istituito il 6 aprile deve certamente
"sorvegliare" l'azione del consiglio esecutivo, ma non sostituirsi a
esso. L'estate seguente, Danton tornerà alla carica, sostenendo il
decreto che autorizza anche il Comitato di salute pubblica a
emettere a sua volta mandati d'arresto, e proponendo di erigere il
Comitato a governo provvisorio, "in attesa" che la costituzione
possa essere applicata. In questo suo mettere da parte i principi, i
positivisti riconoscono e venerano l'atteggiamento "relativistico".
Lo stesso Danton, del resto, lo ha benissimo definito, in una
formula che sembra essere stata coniata apposta per Robespierre: "E
impossibile fare la rivoluzione geometricamente."
Il programma politico di Danton, nell'anno 1793, consiste perciò
nella rottura con il dogma della separazione dei poteri e
nell'abbandono della diffidenza che i costituenti avevano mostrato
nei riguardi del potere esecutivo. Consiste nel sogno di un governo
forte che non abbia soltanto un ruolo esecutivo ma anche di
incitamento e di guida, i cui ministri scelti in seno all'Assemblea
siano solidalmente responsabili davanti a essa per ogni decisione.
Consiste anche in una trovata originale, la breve durata (un mese)
del mandato del Comitato, che consente di mantenere l'armonia fra
l'esecutivo e la maggioranza del momento. Questa disposizione fa
scorgere talvolta in Danton il vero inventore del regime
parlamentare alla francese, con un governo espresso dal potere
legislativo, eppur
distinto da esso e munito di poteri effettivi. Con tutto ciò,
Auguste Comte insiste nel fare di Danton l'iniziatore di una
dittatura "paragonabile a quella di Luigi XI, di Richelieu, di
Cromwell e anche di Federico Il". In questa luce, l'unico vero
errore commesso da Danton — nemmeno Jaurès glielo perdona — è di
aver indietreggiato, venendo meno alle proprie convinzioni, davanti
alla dittatura personale e rifiutato di entrare nel Comitato di
salute pubblica.
Ma questo non è tanto un errore di Danton quanto un difetto
nell'armatura che i positivisti gli hanno inventato, attribuendogli
una coerenza che egli era lungi dal possedere. Docile alla forza
delle cose, insensibile alla legittimità del numero, mai preoccupato
di giustificare l'insurrezione, il Danton del 1793 è proprio l'uomo
che vuol stabilizzare la rivoluzione rafforzando l'autorità del
governo, che impone il Tribunale rivoluzionario, la
centralizzazione, la giustizia militare, e non si cura affatto di
creare istituzioni destinate a durare in eterno. Ma in lui questo
"rifiuto della metafisica" non era il frutto di un pensiero
sistematico. Agli inizi della Convenzione aveva sostenuto idee
esattamente opposte, e in particolare che i ministri non dovevano
essere scelti dai deputati, neppure in caso di dimissioni. Quando
Danton ricorre alla forza, non la erige mai a principio, né teorizza
la dittatura. Insomma, non merita affatto il posto che Comte gli ha
assegnato, nella "gloriosa falange dei dittatori occidentali".
L'impiego del termine "dittatura", che in Comte aveva una
connotazione molto particolare, era assai inopportuno per degli
incensatori. I repubblicani dantonisti l'abbandoneranno ben presto,
trasformando il Danton del comtismo in una scipita figura di
opportunista. Dell'eroe positivista manterranno soltanto quei tratti
che, dopo la disfatta del 1870, l'umiliazione della patria e la
laboriosa conquista della repubblica da parte dei repubblicani,
meglio si accordano coi tempi calamitosi. Per tutta una corrente del
dantonismo universitario, di cui Aulard è il principale esponente,
Danton diviene una prima incarnazione di Gambetta. In lui si mette
in rilievo il precursore delle leggi scolastiche (basandosi sul
discorso, piuttosto piatto a dire il vero, che egli aveva dedicato
all'istruzione gratuita, ma non obbligatoria). E soprattutto l'uomo
della patria in pericolo, che si sforza di unire contro il nemico
tutte le energie della nazione. La storiografia degli ultimi
vent'anni del XIX secolo vuol ricordare solo il Danton delle
tragiche ore dell'invasione dell'agosto 1792, che si oppone al
ripiegamento dietro la Loira e che organizza la leva di 30 000
uomini, ministro della difesa nazionale assai più che della
giustizia, suo titolo ufficiale; o quello della primavera 1793 che,
di ritorno dal Belgio, fa accelerare il reclutamento di 300 000
uomini, questa volta; o, ancora, quello che, venuta l'estate, fa
decidere un'altra leva — di 400 000 uomini — e ottiene che venga
votata la creazione dell' "armata rivoluzionaria". In queste grandi
occasioni, la parola di Danton fa prodigi. Per il suo entusiasmo
contagioso, "poiché, se è bene fare le leggi con ponderazione, la
guerra si fa bene solo con entusiasmo"; per le sue metafore
spontaneamente guerresche; per l'uso così particolare e così
trascinante del presente indicativo, che descrive i risultati
previsti come già ottenuti per sola virtù del verbo ("tutto si
agita, tutto si muove, tutto brucia dalla voglia di combattere") e
che è il tempo stesso del prodigio. Lo stesso Danton aveva predetto
che i posteri si sarebbero stupiti del contagio che emanava dalla
sua parola; una "commozione generale", una "febbre nazionale"
istantaneamente feconde. Sicché, di tutte le rappresentazioni di
Danton,
l'immagine popolare diffusa dai manuali scolastici della Terza
repubblica è senza dubbio, paradossalmente, la più autentica. Se
l'eloquenza di Danton suscita miracoli, è perché il pericolo della
patria ha sempre suscitato la reazione di Danton.
L'eroica semplicità di quest'immagine non avrebbe resistito alla
riedizione del processo di Danton da parte degli storici
robespierristi. Laponneraye, Buchez e Roux l'avevano già cominciata
da tempo: la loro bibbia era la requisitoria costruita da Saint-Just
sul canovaccio fornito da Robespierre. Ma né Laponneraye né Buchez e
Roux si erano azzardati a riempire gli spazi lasciati in bianco
dagli accusatori. Questa fu opera di Mathiez che, sistematosi nella
poltrona di Fouquier-Tinville, sviluppò in modo prodigioso le
motivazioni della sentenza. Mathiez ha spulciato instancabilmente i
conti di Danton; ha analizzato il suo impiego del tempo, seguendo le
sue tracce nei momenti in cui, come aveva detto Saint-Just, prendeva
"la via della ritirata"; ha fatto l'inventario di tutti i suoi amici
sospetti; ha stigmatizzato l'uomo amante dei piaceri e delle donne;
e ha lasciato in retaggio alla storiografia della rivoluzione i suoi
argomenti più poveri: come quello, sviluppato di recente da Frédéric
Bluche, secondo cui, nel caso di Danton, l'iniquità propria del
Tribunale rivoluzionario raggiunge una certa giustizia. Questa
ripresa accanita del processo a Danton ha trasmesso alla
storiografia contemporanea la questione della sua venalità; e, molto
più importante di questa, il problema di sapere se, tra venalità e
"disfattismo", tra venalità e indulgenza, vi sia un valido nesso:
insomma, se tutta la politica di Danton stia nella sua venalità.
Su questa venalità i contemporanei non avevano dubbi. Oggi, pur
eliminando le testimonianze evidentemente ricusabili dei suoi nemici
(quelle di Brissot, di Bertrand de Moleville) o le induzioni di
Mathiez al quale, come a Camille
Desmoulins, bastavano "forti indizi" per trarre delle conclusioni,
se ne dubita ancora meno. Non solo Danton si è liberato molto presto
dei debiti fatti per ottenere la sua carica di avvocato, ma ha pure
acquistato dei beni nazionali (e in contanti, senza approfittare
della clausola delle dodici annualità), ha arrotondato
costantemente, da saggio contadino della Champagne, il suo
patrimonio durante la rivoluzione. Da dove veniva il denaro? Dalla
corte, come sembra indicare una lettera di Mirabeau (il documento
più schiacciante
dì tutti, perché Mirabeau, che sapeva di che cosa parlava, non
accompagnava a questa constatazione nessun giudizio morale)? Non è
impossibile, dato che Danton aveva desiderato senza dubbio di
salvare Luigi XVI. Dal duca di Orléans? Anche questo è possibile,
poiché la petizione del Campo di Marte suggeriva di sostituire Luigi
XVI "per vie costituzionali", aprendo così la porta alla reggenza.
Dall'aggiotaggio e dai loschi traffici dei suoi amici implicati
nell'affare della Compagnia delle Indie? O, ancora, dalle occasioni
che aveva Danton di servirsi da sé nelle casse dello stato? Ogni
volta che egli ha dovuto presentare dei rendiconti — dopo il
ministero della giustizia, o al ritorno dal Belgio — la sua difesa è
stata piuttosto pietosa: ha invocato le circostanze straordinarie e
confessato di "non avere quietanze del tutto legali". Questa
disinvoltura nei riguardi della contabilità, del resto, rimanda
sempre, in lui, a una costante convinzione: seminare l'oro a piene
mani gli era sempre sembrato utile per far progredire la causa della
rivoluzione, ed è verosimile che non abbia voluto escludere se
stesso da questa magica possibilità.
La questione sembra perciò risolta e sarebbe priva d'interesse se la
storiografia robespierrista non avesse fatto derivare da questa
venalità tutta la politica, interna ed estera, di Danton.
La politica estera di Danton è collegata generalmente a una certa
idea della
Francia: quella di un territorio compreso fra il Reno, le Alpi, i
Pirenei e l'Oceano, le cui popolazioni ardono dal desiderio di fare
tutt'uno con la rivoluzione e di liberarsi dai re. Tale convinzione,
"di mirabile nettezza", secondo Jaurès, anima il discorso del 28
settembre 1792: "Abbiamo il diritto di dire ai popoli: non avrete
più re." Ed è sempre la stessa che ispira, il 31 gennaio 1793, il
discorso sull'annessione del Belgio: "Io dico che invano si vuoI far
temere di dare troppa estensione alla Repubblica; i suoi confini
sono segnati dalla natura." Se la "nettezza" della sua convinzione —
Jaurès senza dubbio la esagerava, perché Danton aveva esitato sulla
necessità della guerra — si offusca, ciò è dovuto al fatto che egli
non aveva previsto la sconfitta di Dumouriez (fu l'ultimo a
ritirargli la fiducia), né che la rivoluzione non avrebbe potuto
sopportare le disfatte del proprio esercito. Una volta capito
questo, nell'aprile del 1793 — quando è membro del primo Comitato di
salute pubblica
— rompe con l'interventismo, spinge la Convenzione a sconfessare la
guerra di propaganda e a permettere implicitamente dei negoziati. E
il segno, come ha affermato Mathiez, che Danton disperava della
vittoria e aveva accettato moralmente la sconfitta? Allora
bisognerebbe ammettere che una politica audace in materia di difesa
è incompatibile con una politica di negoziati, senza capire che il
realismo politico impone di cercar sempre la pace, e di non parlarne
mai. Si possono certo rilevare, nella politica dantoniana,
esitazioni e contraddizioni (egli aveva contribuito a provocare la
guerra contro l'Inghilterra, eppure aveva lavorato al
riavvicinamento fra i due paesi). Ma erano anche quelle del Comitato
di salute pubblica. Soprattutto, non si può metterle in rapporto con
l'oro seminato dagli agenti corrotti e dai traditori. I dantonisti,
accusati di ingenuità da Mathiez, hanno sempre fatto osservare che
il denaro ricevuto con ogni probabilità da Danton non ha influito in
modo visibile su nessuna delle sue decisioni. Su questo punto,
bisogna dar loro ragione: i servizi resi da Danton alla
controrivoluzione sono inavvertibili.
Resta il problema più interessante, che ha costituito la sostanza
del processo di Danton: l'imputazione di "indulgenza", divenuta
talvolta un pretesto per rendergli onore. Stranamente essa è apparsa
intollerabile ai dantonisti, ansiosi di lavare il loro eroe dall'
"oltraggioso elogio per la sua clemenza". Quest'indulgenza può
essere considerata almeno in due modi: come un episodio, l'ultimo,
della vita di Danton (nel qual caso egli non sfuggirebbe alla regola
secondo cui ogni rivoluzionario, annacquando il suo vino,
approderebbe infine all'indulgenza), segno della sua effimera
appartenenza all'ambigua "fazione" di cui Desmoulins è il portavoce,
ma che riunisce uomini corrotti, compromessi nello scandalo della
Compagnia delle Indie, come Chabot e Basire; oppure come un tratto
profondamente legato alla sua personalità.
Per sostenere la tesi di un'indulgenza del tutto contingente, i
buoni argomenti non mancano: Danton è divenuto un borghese agiato,
marito felice di una giovane fanciulla, vorrebbe salvare i suoi
loschi amici che sono minacciati, prendere un po' di respiro anche
lui, insomma l'eroe è stanco. Donde le espressioni di un'indulgenza
di fresca data. La tesi è tanto più forte in quanto la reputazione
di Danton non era precisamente quella di un "indulgente". Aveva
creato il Tribunale rivoluzionario, e si presentava davanti al
giudizio della
Storia, come dirà Louis Blanc, "ancora con le mani macchiate del
sangue di settembre", e inseguito del resto, nella Convenzione,
dalle grida di "settembre, settembre". Sappiamo ora che Danton non
aveva organizzato i massacri, che il resoconto che egli ne ha dato
non è meno piattamente convenzionale di quello di Roland ("stendiamo
un velo pietoso su tutti questi avvenimenti"), e che in seguito
avrebbe sostenuto fermamente la teoria montagnarda di un Terrore
organizzato, più economico e meno crudele del Terrore selvaggio:
"Siamo terribili per risparmiare al popolo di esserlo." Ma non aveva
mosso un dito per arrestare la carneficina, un'inerzia dettata dal
senso dell'irreparabile, che è probabilmente la vera coerenza di
Danton; esso ispirerà il suo atteggiamento anche al momento
dell'eliminazione dei girondini. Questo consenso all'inevitabile
rende difficile presentare Danton come un "indulgente" a tutta
prova. Aveva detto egli stesso che era meglio "forzare la libertà
piuttosto che dare ai nostri nemici la minima speranza
Si può tuttavia sostenere con successo l'altra ipotesi: quella che
fa del consenso al Terrore un episodio, e dell'indulgenza, invece,
il fondo di un carattere e di una politica, molto prima che faccia
la sua comparsa ufficiale la fazione indulgente. Allora si possono
individuare, nel bel mezzo delle circostanze eccezionali cui Danton
si arrende perché le crede irresistibili, i gesti dell'indulgenza
(in settembre salva Duport) e la volontà di sfruttare tutte le
procedure di conciliazione: lo dimostra con Dumouriez ("sono ricorso
a tutti i mezzi per ricondurre quest'uomo ai buoni principi"); o al
momento del conflitto fra i girondini e i montagnardi, che egli
tenta di scongiurare sino alla fine con appelli alla moderazione e
all'unità, cui rinuncerà solo quando sarà spinto all'estremo
dall'acrimonia girondina. Levasseur ha raccontato che questa rottura
era stata per la Montagna una splendida sorpresa, tanto Danton aveva
cercato fino allora di assicurare la riconciliazione fra le due
parti dell'Assemblea. Alla tesi dell'indulgenza si possono ancora
aggiungere la sua dichiarazione sul trattamento economico dei preti,
e la sua decisione di non scegliere i deputati da mandare in
missione "a seconda che siedano da una parte o dall'altra della
sala". Anche dopo la drammatica seduta del 1~ aprile 1793 alla
Convenzione, in cui la Gironda mette in discussione la sua alleanza
con Dumouriez, e in cui egli si separa definitivamente dai
girondini, per lui "rottura" non significa "rivincita": respinge la
richiesta della sezione della Halle-au-Blé che voleva mettere sotto
accusa Roland, e supplica di non imbarcarsi in un mare di "calunnie
e di errori". Dopo la mutilazione della Convenzione, il 2 giugno,
pur aderendo all'interpretazione dell'avvenimento data dai
montagnardi, avanza una proposta che accorda ventiquattr'ore di
grazia agli "amministratori che avrebbero potuto essere traviati".
Mille dichiarazioni dello stesso tenore permettono quindi di
comporre il ritratto di un Danton preoccupato non tanto, come dice
Jaurès, "di arrestare dei traditori, quanto di procurarsi delle
armi". Qui si può cogliere la sua differenza da Desmoulins: mentre
Camille fa dell'indulgenza un'arma contro gli hébertisti, Danton fa
rimettere in libertà Vincent e Ronsin.
Si tratta soltanto di una politica più duttile? C'è qualcos'altro.
Danton mostra una specie di incapacità di considerare le "fazioni" e
le "cospirazioni" nel modo vago e indistinto che risulta dal
discorso di Marat o da quello di Robespierre. "Secondo me, non
esistono in quest'assemblea le cospirazioni che suppongono alcuni."
E ancora: "Non possono esistere fazioni in una repubblica." Quando,
nel settembre 1792, comincia a circolare l'accusa di dittatura, egli
protesta contro
"un'imputazione vaga e indeterminata, colui che l'ha fatta (si
tratta di Lasource) deve firmarla". Esistono certo, per Danton, dei
cospiratori individuali, dei quali non gli dispiace affatto veder
cadere la testa, e dei delitti particolari, ma questi non compongono
una cospirazione astratta. Infine, il tratto decisivo, che
basterebbe da solo a stabilire l'indulgenza come il vero fondo della
personalità di Danton, è il suo rifiuto di trattare con malevolenza
le abitudini degli uomini, la sua comprensione per coloro che
vogliono vivere fuori della stretta politica. Esistono uomini,
Danton lo ripete instancabilmente, "che non sono nati col vigore
rivoluzionario e non devono per questo esser trattati come
colpevoli". Una maggioranza silenziosa che "ama la libertà, ma teme
le tempeste". Gli uomini ardenti devono forse escludere dalle loro
file "quelli che hanno un'anima meno protesa verso la libertà, ma
che non la amano meno di loro"? Bisogna trattare da nemica questa
massa moderata solo perché "essa condanna spesso l'energia che
reputa di solito fuori posto o pericolosa"? La risposta è
altrettanto indubbia nel 1792, nel 1793, di quanto non lo sia nel
breve episodio che porta l'etichetta di "indulgenza". E sempre lo
stesso linguaggio, che stabilisce il diritto degli uomini a vivere
senza pensare di essere immersi nella rivoluzione.
E curioso vedere l'uomo dell'energia assolvere quelli che ne sono
sprovvisti. Ma occorre notare che, anche nelle sue dichiarazioni più
folgoranti, la tolleranza non perde mai i suoi diritti. Con la
sottigliezza che gli deriva dall'odio, Saint-Just l'ha capito
benissimo: "Tutti i tuoi esordi alla tribuna cominciavano in modo
tonante, e poi finivi per conciliare la verità con la menzogna." I
discorsi di Danton sono, in effetti, dei curiosi pas-de-deux fra
l'audacia e la moderazione. Un solo esempio, il discorso sul
tradimento di Dumouriez: Danton comincia col non reclamare lo
scioglimento della Convenzione (moderazione), poi sostiene che non
si può tuttavia rappresentare legittimamente la nazione se non si è
avuto il coraggio di dire che "bisogna uccidere il re" (audacia).
Prosegue: "Chiediamo a tutti coloro che non hanno votato per la
morte di riconoscere che sono dei vigliacchi" (audacia senza
conseguenze, un vero petardo bagnato). Poi formula il voto che la
Convenzione "si purghi" (audacia), "senza lacerazioni"
(moderazione). Infine conclude:
"Abbiamo tutte le intenzioni di mostrarci saggi e calmi"
(moderazione), "ma se alzate ancora la testa, sarete annientati"
(audacia). La logica del "tenetemi o faccio un macello" sembra
governare da cima a fondo questa curiosa eloquenza discontinua e
contraddittoria, questo motore a due tempi.
Si può allora esser tentati di collegare l'indulgenza di Danton a
un'intima debolezza del colosso: "Le tue forme robuste," diceva
ancora Saint-Just, "sembravano mascherare la debolezza dei tuoi
propositi." Così si spiegherebbero la mancanza di coerenza (gli
mancava, secondo Sorel, "l'impulso sordo e continuo della volontà"),
le fughe improvvise ad Arcis-sur-Aube, le dimissioni dal ministero
della giustizia, la scomparsa nell'estate del 1793, insomma le sue
eclissi. Vi è però un modo più positivo di valutare su che cosa si
fonda l'indulgenza di Danton. Innanzi tutto, come ha ben compreso
Condorcet, l'impermeabilità assoluta al risentimento: "Danton ha una
qualità preziosa che gli uomini comuni non hanno: non odia e non
teme né i Lumi né i talenti né la virtù." Soprattutto, in Danton,
c'è non solo una dualità vissuta, ma l'idea esplicita che gli uomini
hanno il diritto di essere duplici (il suo ritratto di Dumouriez
annuncia così quello che traccerà Jaurès), e che le inclinazioni
private delle persone possono sfuggire alla tirannia dei personaggi
pubblici
Più di Mirabeau, più di Condorcet, Danton protesta con la sua
esistenza e il suo pensiero contro l'assimilazione giacobina del
privato al pubblico. In tal senso, è pari alla propria leggenda. In
tal senso, Robespierre e Saint-Just non hanno sbagliato avversario.
Mona Ozouf
DANTON
Georges Jacques
http://www.cronologia.it/storia/biografie/danton.htm
http://www.encyclopedia.com/html/D/Danton-G1.asp
http://fr.encyclopedia.yahoo.com/articles/ni/ni_260_p0.html
http://revolution.1789.free.fr/Les_personnages.htm
http://membres.lycos.fr/histoire1789/danton.htm |