Nessuna fuga dalla realtà
di Francesco Codello

 

Dopo una visita al lager di Dachau,
considerazioni sul passato e sul presente.
Per costruire il futuro.

 

Qualche anno fa sono andato a Dachau, vicino Monaco di Baviera, per visitare il campo di concentramento, uno dei luoghi nei quali è stata messa in pratica la "soluzione finale".
Per trovare il luogo ho avuto molte difficoltà perché dai diversi passanti da me interpellati per avere delle indicazioni che non trovavo lungo la strada, ho ricevuto informazioni contraddittorie, sfuggenti, ma anche diversi dinieghi e tanti "non so".
Parlando di questa "strana" amnesia collettiva con altre persone ho riscontrato che ciò avveniva spesso, quasi fosse concordato.
In realtà, dopo aver riflettuto su ciò, credo di non essermi dato ancora una risposta convincente e certa.
Rimozione, senso di colpa collettivo, disprezzo, vergogna, menefreghismo: tutte risposte approssimative che non mi convincono del tutto.
Sono ritornato a questo fatto con la memoria questi giorni di fine gennaio che sono stati occasione per media, istituzioni, ecc. di ripensare alla Shoa, all'Olocausto, ai crimini del nazismo.
Su questa tragica pagina della storia del novecento sono stai riversati molti studi, che hanno seguito approcci diversi, che hanno tentato di spiegare il perché dello sterminio, le ragioni che portano alla formazione di stati totalitari, i motivi che portano l'essere umano ad accettare e subire oppure a tiranneggiare a dei livelli allucinanti.
Sull'origine del nazismo credo che uno dei contributi più significativi sia ancora oggi quello di Wilhelm Reich (Psicologia di massa del fascismo, Sugar, Milano, 1972) che cerca di affrontare l'origine del fenomeno non solo con una chiave di lettura economica ma anche e soprattutto nelle strutture familiari gerarchiche e piccolo-borghesi, in dinamiche quindi di tipo relazionale che svolgono un ruolo chiave nella formazione delle personalità.
Ma in questi giorni le riflessioni più pertinenti, per capire non solo il nazismo ma anche altre forme di razzismo contemporanee, mi sono sembrate quelle di Hannah Arendt, testimone oculare del processo ad Adolf Eichmann (La banalità del male, Feltrinelli, Milano, 1964 e ora 1999), uno dei più spietati "esecutori" della teoria ariana.
Secondo Hannah Arendt è inutile cercare nella storia dell'orrore dei mostri ai quali addebitare ogni responsabilità; troppo semplice e fuorviante pensare che le mostruosità siano opera solo ed unicamente di un improvviso demiurgo del male che possa essere in grado di produrre simili malvagità.
Certamente quando un regime totalitario di destra si identifica poi in un individuo, la scomparsa di questo muta l'esito dei fatti (una riflessione a parte merita l'analisi dei regimi totalitari di sinistra, che sopravvivono, perché probabilmente ancora peggiori e insinuati, alla morte del dittatore).
Ma Eichmann era un uomo qualunque, uno di quelli che trovi nella porta accanto, un grigio burocrate, uno dei travet dell'Organizzazione.
E attraverso di lui noi possiamo vedere l'immagine riflessa della vita e della storia di altri esseri umani, con le caratteristiche proprie della fredda normalità.
I macellai di questo secolo sono tra noi, sostiene la Arendt, simili a noi, vicino a noi. Aspettarsi dei mostri, dei demoni è pericoloso perché non ci permette di cogliere il "male" che si insinua in noi.

 

Atti di disobbedienza

Io credo che queste riflessioni tocchino il cuore del problema del perché possano nascere nella storia, siano esplose nel novecento, delle realtà così tragiche che qualsiasi uomo o donna le riveda con mente lucida e cuore non compromesso, non possa che inorridire al loro cospetto.
Naturalmente non mi sfuggono le analisi più sofisticate e complesse che hanno dato delle spiegazioni sull'origine degli stati totalitari e delle dittature, così come so bene che non vi è mai un'unica spiegazione che possa interpretare lo scorrere dei fatti storici.
Ma ciò che mi preme qui evidenziare è proprio questa "banalità del male", questa normale e apparentemente semplice realtà: gli orrori si avverano perché noi permettiamo che ciò accada, perché spesso siamo complici passivi dell'insorgere di simili efferatezze.
Senza questa presa di coscienza precisa e puntuale, spietata e scomoda, non è possibile fronteggiare il sorgere del terrore. Ciò non significa affatto insinuare che poiché tutti sono colpevoli, allora nessuno lo è. All'opposto, vuol dire proprio che sta nella libera volontà di ognuno, nell'atto di disobbedienza, di intolleranza contro l'intolleranza, l'anticorpo alla diffusione del virus della tragicità degli eventi.
Quante volte, quotidianamente, permettiamo ad una strisciante cultura fatta di luoghi comuni, di frasi fatte, di comportamenti abitudinari, di silenzi omertosi, di rassegnazioni e di complicità, di convenienze e di ricatti, di governare la nostra vita?
Quanto tempo dedichiamo a contrastare invece tutto ciò che la società del dominio e del profitto, del tornaconto interessato e del successo ad ogni costo, ci baratta come valori autentici e indispensabili per non perdere il proprio posto nella gerarchia sociale?
Non possiamo trascurare questi aspetti della nostra vita sociale e occuparci solo dei grandi temi e problemi, con delle analisi approfondite e colte, con l'atteggiamento distaccato di chi si preoccupa dei mali distanti da noi per non vedere le piccole ingiustizie e sopraffazioni di ogni giorno, consumate in luoghi prossimi alla nostra vita quotidiana.
Anche quando ci indigniamo talvolta lo facciamo più per noi stessi, per sentirci orgogliosamente a posto con la nostra aristocratica sensibilità.

 

 Presa di coscienza individuale

Ma gli uomini come Adolf Eichmann si sono sempre giustificati sostenendo di "aver obbedito agli ordini", di essere solo una parte insignificante di un sistema complesso, di essersi applicati per senso del dovere a far funzionare ciò che sembrava giusto e inevitabile.
Il rimando all'oggettività del collegiale è una fuga dall'assunzione delle proprie responsabilità, un negare il diritto e il dovere di affermare la propria etica della libertà.
Quasi sempre dietro questa logica della fuga dalla realtà, sta un rifiuto della libertà. Ecco perché occorre rompere il cerchio, segnare la differenza, dissentire, senza eroismi ed estetiche azioni. Ma con la fermezza della ragione libera, con gesti e parole che possano toccare la "tranquillità" e le "certezze" degli altri. Non serve alcun furore messianico, né tantomeno una tragica e altrettanto violenta imposizione.
La nascita dei regimi totalitari, le nefandezze che la storia del novecento ci ha dimostrato, non dimentichiamoci che ci hanno trasmesso anche tanti esempi individuali e collettivi di rifiuto, di ribellione, di lotta che hanno segnato parimenti gli anni tragici del dominio del male.
Insomma è l'atto di volontà, la presa di coscienza individuale prima, collettiva poi, che permette all'uomo di contrastare il diffondersi del dominio del terrore. E' la capacità di mettersi in discussione, di cogliere le proprie contraddizioni, di stare in mezzo alla gente comune, che permette anche agli anarchici di non crearsi l'illusione di stare nella verità astratta e teorica, di essere fuori da ogni possibilità di contaminazione. Parliamo di più con gli altri, con quelli che anarchici non sono; accettiamo di verificare le nostre idee o proposte, seminiamo pazienti i semi della libertà. Forse dopo l'inverno arriverà la primavera.
Sono convinto che solo attraverso il dissenso e la coerenza del nostro comportamento nella vita quotidiana, solo presentando nei fatti, e nei processi nei quali siamo coinvolti, tutta l'eticità dell'anarchismo, sia possibile avvicinare alla riflessione su se stessi gli altri esseri umani.
Possiamo ragionevolmente pensare che l'origine dei domini totalitari trovi proprio nella mancanza di questi atti e gesti di dissenso, l'humus sul quale far fiorire il terrore e la brutalità.
Dobbiamo quindi fare attenzione a ciò che spesso ci appare insignificante perché una volta diffusosi porta significato e spinta all'insieme del sociale, lo caratterizza, lo rende accettato e accettabile.
L'insieme di gesti e comportamenti, narrazioni e storie, simboli e immagini, diventano poi cultura diffusa, molto più penetrante e coinvolgente perché non più astratta e teorica, ideologica o valoriale, ma pratica comune, abito usuale, che rassicura e che segna in profondità proprio perché semplice, immediato, chiaro. Insomma la cultura dei comportamenti quotidiani diventa spesso molto più pregnante e rassicurante, molto più di quella con la "C maiuscola", perché contribuisce molto più di quest'ultima a semplificare l'appartenenza degli uomini ad una comunità, a rassicurarne il diritto di cittadinanza, profondamente e durevolmente.
La nostra vita è tutta centrata su questo processo di condizionamento, fin dalla tenera età, e i luoghi nei quali questa si diffonde, sono i luoghi della nostra vita quotidiana, pertanto familiari e abitudinari. Senza accorgerci, sommessamente, magari ridendo o scherzando, facciamo transitare i germi del terrore. Riflettiamoci. Impariamo a pensare su noi stessi. La libertà si conquista anche così.

 Francesco Codello