I risultati del terremoto politico del 13 aprile disegnano
uno scenario ben diverso dal consueto. Ma la novità (purtroppo) non è la
vittoria delle destre (ampiamente scontata al di là della meramente
propagandistica “rincorsa” di Veltroni), né il successo della Lega (che già due
volte, in passato, aveva superato gli indici attuali). Il successo
berlusconiano era previsto perché preparato da un governo vergognosamente
appiattito sulle compatibilità con il grande capitale europeo e nazionale, e
reso possibile dalla incompetenza (ma anche dalla connivenza) assoluta del ceto
politico della sinistra cosiddetta “estrema” (sic! – vd. la presidenza
della Camera barattata per il programma). Pressoché nulla di quanto promesso è
stato realizzato: non una legge sul conflitto d’interessi; non l’abrogazione
delle leggi ad personam o di quelle a favore degli inquisiti; non
l’applicazione delle sentenze europee contro lo strapotere televisivo di
Mediaset; non l’eliminazione drastica della controriforma della scuola; nulla
per l’ambiente (neppure il rispetto dei parametri di Kioto); scalfite appena
E’ invece evidente che
La prima cosa che emerge è il crollo delle dighe
endogene: il mito operaio non tiene più. Ma anche questa è cosa già vista.
Coloro che s’interrogano stupiti sulla trasmigrazione di un quinto
dell’elettorato “comunista” verso
Per la sinistra nostrana è un evento che scuote
dalle fondamenta certezze date per scontate da più d’ottant’anni: chi dimentica
la sicumera del vecchio PCI, il cui ultimo militante era “per statuto” sempre
pronto a distribuire sprezzanti lezioni di sagacia politica? Come possono
capacitarsi, ora, che non sono neanche più capaci di guadagnare un seggio alla
Camera? Anche perché è ormai chiaro a tutti che la debácle non ha
origine solo nel “tradimento” della “svolta a destra” del PD, nello
schiacciamento, nella chiamata al “voto utile” contro il faccendiere di Arcore,
bensì in qualcosa di ancor meno accettabile e metabolizzabile per quel che
resta dell’apparato comunista. Fuor di contingenza, si tratta ormai
dell’esaurimento totale della ragion d’essere della scuola politica marxista
nella sua interezza (fatte salve le residue ragioni dell’analisi economica). Un
problema non più risolvibile con edulcorazioni, ingegnerie o con il semplice
richiamo all’identità o alla pura proposta (ri)organizzativa. Se è vero che
l’assenza dei simboli tradizionali dal logo dell’Arcobaleno non ha “aiutato” in
visibilità, è però preminente un malessere di fondo, non recuperabile con
l’ennesima (“nuova”) costituente comunista, ridotta ormai a mero richiamo della
foresta per gli ultimi branchi (molto sparsi) di quel che era una volta la
specie dominante a sinistra. Gli schemi e l’immagine sono sempre più desueti ed
impresentabili: il fine che giustifica i mezzi, la dittatura di partito e del
(sul) proletariato (in funzione di capitalismo di stato), mera riproposizione
acritica di categorie ultradigerite dalla storia, come l’operaiolatria. I nuovi
gruppi dirigenti sono invecchiati in fretta e la senilità impedisce loro di
vedere oltre le usuali dietrologie, oltre la logica dell’accerchiamento e del
complotto. Non ci sono solo la “americanizzazione” dell’elettorato, gli effetti
perversi di una certa “globalizzazione” (delocalizzazione e mutamento della
figura stessa del produttore) o la perfidia della CIA: è il senso comune a non
accettare più le vecchie ricette.
Certo, non si tratta di una crisi ragionata e
assorbita razionalmente dall’elettorato della falce e martello, ma gli elementi
di una profonda rottura interna – tipica di quei casi in cui si decide con lo
stomaco – ci sono tutti!
Stiamo dunque parlando della “svolta elettorale” più
significativa, quanto, per ovvi motivi, la meno analizzata dai politologi dopo
queste elezioni: “travasi” a parte, dei due milioni ed ottocentomila voti rossi
che mancano all’appello e fatta la tara di quel poco che hanno raccolto le due
mini-scissioni del PRC (comunque determinanti nella sparizione dei seggi),
buona parte sono finiti nell’astensionismo. Un astensionismo che continua a
crescere, concentrandosi però questa volta (com’era inevitabile dopo la
disillusione totale del governo Prodi), soprattutto a sinistra.
Il rischio di tutto ciò – oltre ai danni
irreparabili che il “popolo delle libertà” produrrà inevitabilmente (ma che
sono in linea con quanto già visto con il “centro-sinistra” ed il pensiero
unico) – è l’assenza di analisi, e quindi l’assenza di un nuovo necessario
protagonismo (quello della sinistra libertaria). E’ evidente: l’astensionismo
in sé non serve se non ci si lavora. Mai come oggi s’è data (dunque) la
necessità di “ragionare di politica”.
Stiamo per entrare in un periodo particolare ma
delicato, nel quale la rappresentanza (in assenza di mediazioni istituzionali)
diverrà più diretta: il ruolo della “piazza” sarà centrale. Ma siccome la
presenza di piazza non è cosa fine a se stessa, diviene determinante la
capacità di proposta politica: quel che resta del tardo-bolscevismo giocherà le
sue carte nel tentativo di “ricondizionare” le masse per stabilire un’egemonia
capace di riportare la falce e martello nel Palazzo, per ridiventare mediazione
istituzionale. Ma sbaglierebbe i suoi conti chi pensasse che è solo la
radicalità degli slogan e dei comportamenti esteriori (nella
quale sconfitti ed orfani cercheranno l’ultima spiaggia dell’identità) il
veicolo della ripresa di protagonismo: all’alba del Terzo Millennio contano
finalmente molto di più la genuina radicalità delle idee e del progetto.
Essere rivoluzionari è elemento d’identità, ma soprattutto nella proposta. Per
due motivi. In primis perché per affermare la necessità del cambiamento
bisogna saper dimostrare di poter e saper ottenere dei risultati hic et nunc
(per vincere bisogna convincere). Secondariamente perché c’è
bisogno di un’inversione della prassi. L’antipolitica non è una novità: negare
l’autonomia della politica lo è, ovvero dimostrare di saper davvero subordinare
la politica all’etica. La qual cosa prevede anche delle capacità di studio ed
osservazione che non stanno certo nella semplice negazione del ragionamento
politico. Occorre la capacità di mettere in atto il gradualismo rivoluzionario,
proporre sistemi di riorganizzazione ed aggregazione, di autogestione e prima
liberazione (anche culturale), immediatamente praticabili dalla (e nella)
società civile. L’egemonia delle idee non è egemonia politica nel senso
negativo del termine – ovvero l’imposizione di eterodirezioni che sono solo una
variabile del potere – ed occorre saperla praticare. Allo stesso modo, non è
l’egemonia dei fatti da criticare, ma quei fatti che tendono solo a
stabilire l’egemonia (di un gruppo dirigente autoreferenziale). Speriamo di non
rivedere invece (e di nuovo) predicazioni (ed imposizioni) ancora indirizzate a
riproporre lo scontro per lo scontro, deviazioni del tutto simboliche
dell’immagine e della realtà (molto più complessa) dello scontro sociale, che
danno il senso dell’involuzione.
Occorre ripensare e rimettere in campo in grande
stile la proposta comunalista, se si vuole togliere spazio all’adattabilità ed
al lobbysmo politico anche e soprattutto locale, vero dominio del voto
di scambio e dell’accettazione della delega di potere in cambio di favori e
sudditanza. Ma su questo terreno si giocano – più in piccolo e con minori
responsabilità, eppur sempre con un ruolo incistato nel panorama clientelare –
anche alcune delle ultime chances per quel che resta dell’apparato
istituzionale dell’Arcobaleno, rimasto con poco contante e pochi favori da
distribuire a livello nazionale. Da tale punto di vista, occorre aggiungere che
anzi la vera crisi comincia adesso (con le relative diaspore).
Occorre ripensare l’organizzazione (ed il suo
ruolo), quale strumento duttile ma coordinato seriamente a livello nazionale,
un’organizzazione che, anche se la si vuole “leggera”, richiede comunque un
sacrificio della “criticità assoluta” così come dell’autoreferenzialità dei
piccoli gruppi e dei singoli individui. Ma l’elemento fondamentale di ogni
entità collettiva è un vero (creativo e produttivo) senso d’appartenenza: senza
impegno, sforzo strategico e progetto, non c’è capacità di convinzione, non c’è
protagonismo né utile politico.
Occorre ragionare di anarcosindacalismo, soprattutto
in una situazione nella quale i sindacati genericamente “alternativi” restano privi
di padrini politici o vedono almeno incrinarsi il legame con partiti e
partitini che hanno preteso sinora di utilizzarli come cinghia di trasmissione
e/o gruppo di pressione su “mamma” CGIL a trazione PD (sempre preferita perché
prodiga di distacchi dal lavoro e favori personali), secondo la vecchia logica
comunista che ha sempre preteso la subordinazione del sindacato al
“partito-guida” di turno. Costruire una vera autonomia del mondo del lavoro è
l’ultima chance che hanno i ceti subalterni (del lavoro, del precariato
e del non-lavoro) per ritornare ad esprimere forme di protagonismo.
L’anarcosindacalismo (se dichiarato come tale) con la sua propria autonomia (da
ogni stereotipo ed ideologismo di “partito”), assume quindi un ruolo strategico
nell’organizzazione del conflitto.
La radicalità non è dunque elemento meramente
formale, bensì questione di sostanza e non può prescindere dalla volontà
(chiaramente espressa e comprensibile) di farsi intendere e capire,
nell’auspicato (e finalmente salutare) sacrificio dell’autocompiacimento
(autoreferenziale ed elitario) del ghetto ideologico e/o impolitico. E’ il
coraggio di proporre elementi nuovi e sperimentali, elementi non graditi dagli
schemi di qualunque ortodossia. E’ necessario unire protesta e proposta,
promuovere un agire condiviso e plurale, capace di conquistare spazi, dosare e
calibrare l’azione perché sia condivisa e condivisibile: non per “adattamento”,
ma per preparare elementi più forti e decisivi di cambiamento. La radicalità
non è nella rottura estemporanea, nella marginalità, nell’autocompiacimento
dell’appartenenza ad una specie “altra” serrata in un recinto, ma nella
determinazione (e quindi nella preparazione) di un cambiamento qualitativamente
alto (etico): radicale, appunto.
In quanto ai reduci del comunismo, devono
ripartire... dal basso.
Si ricomincia da qui: siamo tutti extraparlamentari.
Per noi non è una novità.
Stefano d’Errico