L'educare...
autogestito
di
Francesco Codello
da Rivista Anarchica on line
Cercheremo in questo articolo di riassumere brevemente i
problemi pratici e soprattutto i nessi teorici che legano il problema
dell'educazione a quello relativo all'autogestione.
Innanzitutto ci preme dire che ci occuperemo sia dell'organizzazione delle
strutture educative sia dei problemi più specificatamente pedagogici
cercando di metterli in relazione con il fine che come anarchici abbiamo e
cioè lo sviluppo libertario ed egualitario di ogni potenzialità del bambino.
In definitiva lo sviluppo integrale ed armonico della personalità. Chi
cercherà in questo articolo delle soluzioni ai tanti quesiti resterà deluso.
Vogliamo solo sollevare dei dubbi e stimolare delle riflessioni per
tracciare una "guida" alla discussione. Da sempre gli anarchici sono contro
la scuola intesa come istituzione e veicolo di educazione al consenso. Da
ciò si è formata la convinzione della necessità di distruggerla per favorire
un modo di apprendere diverso, non assoggettato a regole prestabilite, non
vincolato da programmi burocraticamente stabiliti. Un processo di
apprendimento che si basi sul libero ed egualitario rapporto tra docente e
discente.
Per uscire però dall'ambito delle affermazioni di principio, sempre utili ma
insufficienti, è necessario porsi la domanda di che cosa significhi oggi
essere contro la scuola e quali alternative, o meglio quali situazioni
educanti, siano utili e praticabili in una società ovviamente diversa.
Vediamo da vicino alcuni problemi inerenti alle ormai famose proposte dei
descolarizzatori e in particolare di Illich e Reimer. Sono sufficienti le
linee di costituzione alternativa tracciate dai nostri due autori per
formare un tessuto educativo svincolato dall'accentramento e quindi dal
potere centralizzato? E in che modo può il singolo individuo riappropriarsi
della capacità di agire ed educarsi da solo (l'autoeducazione)? È
sufficiente un decentramento organizzativo per organizzare l'istruzione o è
importante chiedersi anche: chi insegna a chi? E che cosa? Certamente è
auspicabile una formazione del ragazzo in più ambienti e diversi fra loro,
ma qual è il nesso logico che li unisce?
La concezione autoritaria dell'educazione si manifesta anche nel rapporto
gerarchico tra docente (che possiede e dà il sapere) e discente (che
riceve). Ora bisogna ribaltare questa proposizione costituendo un
interscambio tra le due parti, rifondando l'apprendimento e collegandolo
alla realtà sociale su cui questo processo si fonda.
Solo così è possibile evitare la formazione di rapporti gerarchici e quindi
autoritari considerando quindi la "scuola" non più come depositaria del
sapere ma tutta la società nelle sue molteplici componenti ed esperienze
veicolo di formazione non solo per i bambini ma per tutti gli individui
attraverso l'educazione permanente e ricorrente.
Fin qui i problemi inerenti al futuro dell'educazione ma ora vediamo più da
vicino la realtà attuale e quali prospettive essa ci indica tenendo conto
dell'impossibilità pratica di riproporre esperienze storiche dell'educazione
così come si sono venute formulando e concretizzando attraverso l'azione di
Tolstoi, Ferrer, Paul Robin, Sébastien Faure, Neill per citare solo i più
famosi.
In sostanza gli anarchici oggi cosa devono fare rispetto al problema
dell'educazione: creare (quando è possibile) scuole alternative o inserirsi
in quelle esistenti e agire a all'interno?
Forse in realtà questo è un falso problema perlomeno perché la possibilità
di creare esperienze alternative è molto limitata se non impossibile per il
momento.
Dal 1968 nella scuola di base in Italia si è avuto un proliferare di
esperienze e di tentativi di didattica alternativa. L'etichetta di
"antiautoritarismo" è stata appioppata senza riserve ad una infinità di
esperimenti senza, molto spesso, considerare l'ambito e i progetti cui si
ispiravano e soprattutto senza interrogarsi sulle matrici ideologiche che li
animavano.
Vi è nel nostro paese un filone di "rinnovamento democratico" della scuola
che svolge un ruolo di riorganizzazione efficientistica di questa
istituzione. In particolare questa tendenza si esprime, proprio in questi
ultimi tempi, intorno al dibattito sulla programmazione e sull'uso e la
funzione della scheda di valutazione.
Vediamo alcuni problemi su questi ultimi temi, in particolare sulla
programmazione.
Il filone pedagogico che ha come capostipite più remoto il Freinet e il
teorico più prossimo il De Bartolomeis individua nella programmazione il
centro nevralgico del rinnovamento della scuola. In particolare, sostengono
questi teorici, è necessario che la pedagogia esca dalla fase storica
dell'attivismo ed entri consapevolmente in quella della programmazione
scientifica del curriculum dello studente per rendere scientifico ed
"oggettivo" il giudizio finale. L'oggettività consiste nel verificare se
l'alunno ha o non ha raggiunto gli obiettivi precedentemente fissati.
Innanzitutto sarebbe lecito chiedersi chi fissa questi obiettivi e in che
rapporto essi stanno, e con essi l'intera programmazione, con le esigenze e
gli interessi del bambino. Fino a che punto la programmazione innesca anche
dei rapporti codificati e controllabili tra bambino e bambino e di
conseguenza quanta possibilità hanno i ragazzi di "gestirsi" il loro tempo e
lo spazio?
Al bambino programmi anche il tempo libero o no? Se sì allora viene
incasellato e totalizzato, se no c'è il rischio che diventi un alienato come
dimostrano gli adulti nel loro tempo libero e nella incapacità di essere
autenticamente creativi e originali.
Teniamo presente anche che questo filone culturale e pedagogico ha come
obiettivo istituzionale la generalizzazione (assieme ai sindacati al PCI)
del tempo pieno (nella scuola dell'obbligo) su tutto il tessuto scolastico
nazionale.
Siamo convinti che la scuola a tempo pieno, qualora sia generalizzata e
diffusa su tutto il territorio nazionale, diventi una istituzione totale e
assuma un ruolo generalizzato di educazione al consenso molto più efficiente
della scuola ad orario normale, viste le possibilità di inglobare in sé
tutte le esperienze di vita del bambino. Pensiamo invece auspicabile che
l'apprendimento e l'autoformazione avvengano in tanti momenti diversi e
soprattutto in ambienti diversificati e che sia necessario non centralizzare
in un'unica istituzione la giornata di un bambino.
Attualmente comunque la scuola a tempo pieno rappresenta solo una realtà non
molto diffusa ed intorno ad essa si coagulano molto spesso le forze più
autenticamente innovative che agiscono all'interno delle scuole e non sempre
essa si ispira a modelli ben definiti. All'interno agiscono ancora
situazioni e spinte creative impregnate di attivismo e spontaneismo.
Pensiamo perciò che per ora costituisca uno spazio utilizzabile seppur con
diverse difficoltà tenendo ben presente il discorso di carattere generale
cercando in questo modo di aver ben chiari i limiti oggettivi della nostra
azione dentro l'istituzione.
Certo la scuola a tempo pieno non può essere considerata un'alternativa alle
proposte descolarizzatrici, così come queste proposte non sono da
considerarsi applicabili alla nostra realtà europea, perlomeno così come
sono state formulate nell'ambiente a noi lontano del terzo mondo.
In ogni modo è necessario ricercare le alternative alla scuola tradizionale
e strutturata rigidamente, facendo in modo che il processo di
identificazione della scuola (o meglio delle strutture per l'apprendimento)
nel tessuto sociale non si trasformi in una frantumazione in tante mini
scuole ma sia la società tutta che diventi, attraverso un insieme di
strutture, veicolo di autoaffermazione e interformazione globale.
Balza subito evidente un problema a questo punto: come si può collegare e
soddisfare da una parte il bisogno di una formazione globale e dall'altra
quello di una specializzazione inevitabile per la sopravvivenza della
società? È sufficiente affermare che in una società di tutti esperti non vi
è disuguaglianza ma diversità? Che funzione e ruolo avranno le tecnologie
più disparate nei processi di apprendimento e chi le controllerà?
Vediamo ora, per concludere, di accennare al problema della divisione del
lavoro e alla possibilità di una sua integrazione nell'ambito didattico e
pedagogico.
Innanzitutto che rapporto deve esserci tra sistema produttivo e sistema
scolastico, cioè l'educazione deve essere finalizzata a scopi produttivi,
seppur diversi? Ed attualmente, in che misura l'inserimento del lavoro nella
scuola riuscirà a modificare la divisione sociale e gerarchica del lavoro o
invece, come in Cina e Russia, la divisione si sposta a livelli più alti
riproponendo la stessa gerarchia?
Sicuramente pensiamo che per superare la divisione del lavoro occorra una
società senza classi, anzi queste si formano proprio in base alla funzione e
al ruolo svolto all'interno della divisione del lavoro.
Che cose è produttivo? Lo studio, in che misura sarà finalizzato alla
produzione di un bene e/o alla soddisfazione di esigenze individuali? In che
rapporto staranno formazione scientifica e formazione artistica, gioco
produttivo e gioco per il gioco? Educare per la società o per l'individuo? È
possibile una sintesi?
Se come affermano numerosi pedagogisti e come testimoniano alcune esperienze
di scuola-laboratorio, il lavoro manuale diventa il centro attorno a cui si
sviluppa tutto il sapere, esso diventa il fine. In che rapporto sta allora
questa proposizione con la possibilità di sviluppare in ogni individuo le
potenzialità artistiche? È sufficiente liberare il lavoro dalla costrizione
e dalla fatica più pesante per assumerlo a fine dell'educazione?
Ecco in sintesi alcuni problemi relativi all'autogestione e all'educazione
cui speriamo il convegno di settembre dia qualche risposta.