Per una nuova centralità nelle lotte dei Cobas

Intervento di Stefano d'Errico al Convegno-seminario «Cobas: verso un progetto scuola»

 

Oltre ad aprire il fronte sul progetto scuola contro il disegno dji legge Galloni, cosiddetto di «autonomia scolastica», che estende e sancisce la divisione fra scuole di serie A e di serie B anche in ordine ai differenti quartieri ed alla composizione sociale degli studenti, in più subordinando l'insegnamento alle necessità della produzione can interventi diretti delle aziende (progetto sostenuto in particolare anche dalla Confindustria, dal Psi e dai sindacali), i Cobas continueranno la lotta ad un contratto firmato contro la volontà della categoria da tutti i sindacati, compresi i «rampanti» della «Gilda» e la Cgil che l'ha siglata alla chetichella alla fine di luglio. Un contratto cui i Cobas non riconoscono alcuna legittimità poiché rivolto nella direzione opposta a quella indicata nella piattaforma autoprodotta dagli insegnanti, la cui resistenza protrattasi sino all'ultimo secondo le forme indicate dalle assemblee nazionali dei Cobas è stata piegata soltanto con la promulgazione di decreti proditori e reazionari che hanno causato, in termini di selezioni arbitrarie e casuali, i guasti peggiori proprio agli studenti, quella «utenza» che si diceva voler tutelare dalle agitazioni dei lavoratori della scuola.

Il contratto ha comportato l'allargamento della forbice salariale fra le varie figure docenti secondo una retriva logica di divisione gerarchica fra i vari ordini di scuola, in barba alla tanto sbandierata unicità della funzione Ha accresciuto seccamente i dislivelli già esistenti rispetto ai non docenti, non ha reso alcun recupero del potere d'acquisto falcidiato negli anni sullo s«pendio di base. Gli aumenti sono ben al di sotto delle cifre lorde ‑ scaglionate in più di tre anni – sbandierate dai giornali: l'incremento medio netto sì aggirerà nel 1990 intorno alle 220/250.000 lire pro-capite. Viene introdotta la figura del docente part-time, un'ulteriore mobilità forzata, all'interno del pubblico impiego (200.000 cattedre in meno da qui al 90), l'obbligatorietà delle supplenze per il personale di ruolo, l'accorpamento anche di classi non omogenee, un aumento del potere discrezionale dei capi d'istituto (novelli manager), in ordine ad un restringimento delle competenze del collegio dei docenti. Il contratto viene autofinanziato dalla categoria grazie alla progressiva espulsione di decine di migliaia di precari nella scuola.

Finora spunti critici ed innovativi in ordine a metodologia, didattica e ad un necessario riassetto dell'istruzione traspaiono, nel dibattito interno ai COBAS, solo come riflesso, da alcune asserzioni di una piattaforma costruita secondo un'ottica prevalentemente rivendicativa. Questo è il segno di una profonda carenza, imperdonabile per un movimento di docenti, il segno di una scissione schizofrenica che ha lasciato ai margini la discussione sul quotidiano della professione proprio nel momento in cui più alta si levava, fra le altre cose, la richiesta di un suo pieno riconoscimento. Una trappola già sperimentala con effetti catastrofici da altri movimenti, nella separatezza fra impegno quotidiano, esistenziale ed impegno sociale. Cosa assai strana, oltretutto, per soggetti sociali, gli insegnanti, particolarmente portati, proprio per la natura del lavoro svolto, ad un coinvolgimento della sfera più squisitamente individuale nell'ambito della stessa professione (basti pensare all'importanza del rapporto empatico all'interno del discorso educativo).

Ancora una volta dicotomia tra personale e politico? Sta di fatto che le resistenze incontrate sino ad oggi da chi solleva il problema di cogliere l'occasione, forse unica ed irripetibile per la stagione che stiamo vivendo, di ricomporre in un tutt'uno «l'animus della categoria», sono probabilmente da descriversi al retaggio di trasporti militanti vissuti nel segno dì un'ottica totalizzante che ha troppo spesso messo in ombra i contenuti più profondi, limandone le contraddizioni e sacrificandole sull'altare di linee precostituite. II tentativo di porre all'ordine dei giorno le ricerca di un progetto di trasformazione radicale della scuola s'è infranto sullo stilema «classico» che consacra il primato dell'economico, respinto da una strategia mirante a raccogliere ì lavoratori del comparto principalmente e attorno ad una protesta a carattere quasi esclusivamente normativo e retributivo. Protesta pure giusta ed imprescindibile, ma che avrebbe sedimentato una coscienza ancora maggiore della forza e della «ragione» del movimento, se avesse percorso al tempo stesso anche la via affascinante ed utile, dell'occupazione e della trasformazione attiva, sperimentale ed anche provocatoria, degli ambiti della didattica in un servizio che, pur non «assemblando» alcun prodotto o bene di consumo (almeno nel senso tradizionale dal termine), assume forza contrattuale proprio perla sua centralità sociale.

Eppure sarebbe bastato dar seguito alla convinzione che a fronte della vertenza contrattuale vi è anche e soprattutto una «questione scuola», che a fronte di un contratto da rigettare vi era e vi è un progetto governativo cosiddetto di «autonomia», destinato già prima dell'epilogo delle trattative a prefigurare giocoforza i contenuti dei contratto stesso. Non si tratta dunque di un contenzioso separato: tale ritardo ha favorito la sovrapposizione stereotipa dell'obsoleta immagine dei corporativismo (nella sua accezione peggiore) con la quale i bonzi sindacali e la controparte hanno cercato di neutralizzare quanto di meglio questo movimento andava esprimendo.

D'altra parte si è rinvangato un percorso mutuato dalla storie dei sindacati ufficiali (cinghie di trasmissione dei partiti), quasi ad accettare supinamente che il dibattilo sul progetto rimanesse appannaggio delle cosiddette forze politiche, non conta se istituzionali o meno, con esclusione del corpo sociale e del mondo del lavoro, sul quale vengono sperimentate le solite alchimie politiche. Un «farsi massa» cha anziché esprimere alterità esprime sudditanza all'autonomia del politico secondo l'usato schema della divisione dei ruoli tra «sindacato» e «partito». Una malintesa ottica sindacale ha inchiodato questo movimento, forse, alle categorie di un vetero-operaismo di maniera, anch'esse retaggio di affezioni ideologiche ormai datate.

Una sorta di «complesso di inferiorità» che ha messo in ombra aspetti importanti nell'ambito dello specifico e che mal si adatta alle trasformazioni sociali che stiamo vivendo, in primis quella della figura stessa del produttore, parallelamente ad una cristallizzazione segnata dall'imposizione di criteri privatistici, dalla nascita di un «terzo mondo interno» e dalla precarizzazione del mondo del lavoro. In forza di questi elementi, buona parte del «ceto politico» del movimento ha guardato con un certo fastidio al discorso sul «progetto scuola», paventando in esso lo svilimento della «tensione rivoluzionaria», temendo il risvegliarsi, suo tramite, della identità «piccolo borghese» della classe insegnante, dei crismi della «corporazione», di una scarsa propensione alla lotta.

In questo la «base» (gli «insegnanti normali», senza i quali non sarebbe stata possibile la nascita e lo sviluppo dei comitati) è, pur con tutte le sue contraddizioni, forse più avanti dei suoi «portavoce», incapace, anche se in modo inconscio, di scindere il momento remunerativo dalla condizione di generale estraneità e/o sudditanza indotta da un complessivo progetto scuola di stampo autoritario che ne riduca la funzione in ambito meramente impiegatizio mortificandone capacità e protagonismo.

Era ovvio che, nel mentre si chiudevano spazi utilissimi al divenire dell'identità collettiva del movimento ritardandone così il processo di autodeterminazione, si limitava fortemente la sua capacità di presa all'esterno favorendone l'isolamento. Si sarebbe invece potuta riversare addosso ai detrattori tutta la ricchezza di un dibattito mai sopito tra gli operatori in ordine all'educazione, ciò che ha consentito alla fatiscente struttura di sopravvivenza nonostante lutto e dare frutti sino ad oggi. Bisognava far comprendere con molta più forza che insieme alle esigenza dei lavoratori si stanno affossando anche quelle dalla scuola nel suo complesso.

Inoltre, altro effetto nefando dovuto alla carenza di riflessione sullo specifico dell'insegnamento (accentuarsi di contraddizioni interne, irrisolte perché non hanno trovato una trama di discussione al di fuori del mercanteggiamento fra settori professionali e gradi di scuola, ha determinato la deflagrazione del micro corporativismo (già indotto dalla generale condizione iniqua) e di una micro conflittualità che ha portato il movimento ad implodere su sé stesso, secondo un moto a spirale senza soluzione di continuità dal centro alla periferia e viceversa. Esempio ne sia il «sanguinoso» scontro sull'unicità della funzione docente, punto sviscerato prioritariamente a partire dal problema dei «titoli» e delle figure professionali anziché alla luce di un più lungimirante metro di misura legato al concetto stesso di sapere, alla sua produzione e riproduzione. II tatticismo «economista» ha favorito le manovre al ribasso delle «quinte colonne» che, troppo spesso inseguite sul territorio do un sindacalismo dimidiato hanno avuto buon gioco sui settori moderati.

La falsa opzione proposta fra il rampantismo di una «nouvelle vague», serva dei progetti dì ristrutturazione e refrattaria ad ogni forma di solidarismo e lo stereotipo di un operaismo vecchia maniera, quantomeno fuoriluogo, ha escluso in partenza la questione progetto scuola e l'essenza di un dibattito in proposito ha contribuito a gettare un'ombra di discredito anche su quanto di meglio il movimento aveva creato nel concepire in linea di principio quella che oggi è la prima necessità di una strategia irrinunciabile: l'allargamento del progetto COBAS all'interno del pubblico impiego ed oltre. In questo contesto la manovra intercategoriale ha assunto carattere di forzatura, molto al di là delle ingenuità che l'hanno caratterizzata.

Un confronto anche serrato sulla qualità del servizio pubblico ed ancora una volta su metodologia e didattica, avrebbe mantenuto in carreggiata i termini di un dibattito che necessariamente doveva svolgersi sul doppio binario della salvaguardia della scuola di tutti e di quelle famose libertà sindacali che interessano ogni lavoratore, ben oltre il solo comparto scuola.

Al tempo stesso il confronto sulle strategie didattiche sarebbe stato di gran lunga il più consono per costruire gradualmente fisionomia e coscienza dei Comitati, senza deroghe. Anzi nello sforzo di avviare un processo di autogestione della qualità del lavoro oltre che delle forme di lotta, quale miglior veicolo per definire demarcazioni ideali che la dialettica (ed il chiarimento non preconcetto) fra differenti modi di intendere la scuola? E non si pensi che tale materia sia ininfluente sul contenzioso contrattuale.

E' comunque bene che le differenze (che non vanno mai intese aprioristicamente come contraddizioni insanabili) emergono, ma si badi, non per acquisire una linea univoca (che il sindacalismo di base non ha nulla a che fare con le logiche integraliste o di partito), bensì per potenziare quella «pluralità di interventi nell'unità di intenti» che, così come in pedagogia, risulta essenziale allo sviluppo di ogni prassi collettiva. Differenze che esistono e che sarebbe interessante approfondire, recuperando al movimento il nocciolo duro del dibattito sulla scuola.

Per tarare l'argomento, basti pensare al percorso delle pedagogie libertaria. Mi riferisco, per rimanere nel nostro paese, ai vari Lamberto Borghi, Tina Tornasi, Marcello Bernarghi, Mario Lodi, che hanno segnato profondamente, con il Movimento di Cooperazione Educativa di cui Lodi fu tra i fondatori, l'intero impianto dell'istruzione (i nuovi programmi elementari ne sono, pur fra limiti e storture, un chiaro esempio). Segno dell'isolamento in cui vive il movimento, delle occasioni che ha perso, è il silenzio dì esperti ed intellettuali davanti ad un contratto ove si sancisce il ritorno ad un vero e proprio oscurantismo culturale che passa tramite il definitivo affossamento del ruolo unico (con l'idea di scuola che presuppone); la mera monetizzazione del monte orario e l'istituzione della figura dell'insegnante a metà, l'abbandono del criterio della continuità didattica con l'accorpamento delle classi successive alle prime, in funzione di tetti numerici concepiti in una logica dì gretto risparmio; che tratta le scuole dei piccoli centri alla stregua di rami secchi da tagliare. Nulla per far fronte alle necessità di riadeguamento ed individuazione della didattica in un paese con aree di sottosviluppo palese.

Si dice che i docenti sarebbero troppi, in presenza di un'evasione dell'obbligo che tocca punte altissime e con altrettanto elevate percentuali di mortalità scolastica ed analfabetismo di ritorno.

Che dire poi della questione valutazione? Abbiamo assistito agli sfoci di sindacati e partiti intenti a rivendicare in modo acritico il risultato della barbarie della valutazione in decimi. E tutto ciò nel ventennale del 68!

Questo cocktail di mostruosità è stato trangugiato senza un sussulto dal mondo accademico, che ha mostrato un'insensibilità assai preoccupante. Da parte dei Cobas si sono avviati però solo timidi tentativi di creare opinione.

Altro elemento centrale del dibattito è il rapporto sempre conflittuale fra l'idea di scuola pubblica, che emerge in Italia agli albori delle Prima Internazionale con il socialismo libertario. e quella di scuole dì stato, venuta in auge all'interno del movimento operaio con l'avvento del socialismo autoritario. Una scuola di stato è sottoposta alla ragion di stato, in contraddizione con la libertà di insegnamento: una coazione dell'etica che di fatto nega e condiziona l'ambito di ogni sperimentazione di base.

Sul piano della ripulsa di tale impostazione alcune comunità cristiane di base hanno operato con conguenza e continuità nel dopoguerra: don Milani docet. Grossa parte della sinistra è invece ben lontana dal recuperare il primato dell'etica, ma mai come oggi operare tale scelta fu prioritario: unica vera «svolta» possibile. Libertà critica e autonomia individuale sono sempre stati elementi indispensabili alla formazione umana, in antitesi alla logica dell'intruppamento, dell'oscurantismo ideologico, dell'alienazione; se è vero che il fine non giustifica mai i mezzi, ciò vale in particolare per l'educazione. La scuola, pare addirittura banale, può fornire un apporto determinante alla società civile, aprire una nuova rotta, cominciando con il riconvertire la rigidità dei programmi in autogestione della didattica, mentre i suoi operatori hanno imparato a rimettere in discussione i propri diritti conculcati, scuotendo con la lotta le gabbie normative e salariali.

Ma scardinare l'idea dozzinale che identifica la res pubblica nell'entità stato non giova se si appaia autonomia con privatizzazione, come pretenderebbe chi vuole piegare sempre più la scuola alle esigenze di un meccanismo di dominio produttivo accentrato ed accentratore, manageriale ed inumano. il contrario di ogni progetto da ecologia sociale.

Stefano d'Errico