La societa' contro lo stato
(Pierre Clastres)
E’ stato recentemente ripubblicato, dalla casa editrice Ombre Corte, il libro di Pierre Clastres (1934-1977) intitolato "La società contro lo Stato". Si tratta di una raccolta di saggi, uscita per la prima volta nel 1974, nei quali l’autore, definito "l’erede libertario di Lévi-Strauss", analizza la struttura politica delle società dell’America precolombiana, con particolare riferimento alle "società senza stato". Poco interessato agli Inca, agli Aztechi, ai grandi imperi la cui struttura politica somigliava, in qualche modo, a quella degli imperi dai quali furono conquistati, Clastres indaga piuttosto sulle popolazioni che non svilupparono, o non vollero sviluppare, un apparato di tipo statale.
Nel primo saggio, "Copernico e i selvaggi", ci invita, sulle orme del proprio maestro, a non guardare alle cosiddette "società primitive" da un punto di vista eurocentrico; nel secondo, "Scambio e potere", si intrattiene sul ruolo del "capo" nelle "società primitive" amerindiane; nel terzo, "Indipendenza ed esogamia", sugli scambi matrimoniali; nel quarto, "Elementi di demografia amerindiana", presenta interessanti considerazioni sulla consistenza numerica dei popoli studiati; nel quinto, "L’arco e il canestro", ci parla della divisione di ruolo tra maschi e femmine; nel sesto, "Di che cosa ridono gli Amerindiani?", cerca di spiegare alcuni miti presenti tra essi.
Con il settimo saggio, "Il dovere di parola", Clastres passa ad analizzare gli stretti rapporti tra parola e potere; nell’ottavo, "Profeti nella giungla", e nel nono, "Dell’Uno senza il Molteplice", svolge alcune considerazioni sul pensiero religioso delle popolazioni Tupì - Guaranì; nel decimo, "Della tortura nelle società primitive", indaga sul significato di tale pratica; nell’undicesimo, infine, "La società contro lo Stato", tira le somme del suo discorso, cercando di ragionare anche, più in generale, sull’origine dei grandi apparati statali.
Dico subito che il libro è da leggere; e per almeno tre buoni motivi: innanzitutto perchè è ben scritto e, di conseguenza, si legge piacevolmente (il che non guasta mai); in secondo luogo perchè offre spunti interessanti per la riflessione; infine perchè, in quest’opera, l’autore mostra una qualche sensibilità libertaria (che, presumibilmente, non dovrebbe dispiacere ai lettori di Cenerentola).
Detto questo, il suo discorso non mi convince molto. E lo trovo pure un po’ pericoloso.
Le "società senza stato", sostiene in buona sostanza l’autore, erano prive di potere coercitivo. I loro cosiddetti "capi" non avevano, tranne che in guerra, alcuna possibilità di comandare, anche perchè non avrebbero trovato nessuno disposto ad obbedire. Sarebbero stati dunque, all’in-terno di esse, soltanto degli oratori, dei "facilitatori" (come si direbbe in aziendalese), degli uomini obbligati a mantenere il proprio prestigio con l’essere generosi dei propri beni, impossibilitati a respingere, senza screditarsi, le continue richieste degli altri componenti la comunità. Avrebbero rappresentato, insomma, un qualcosa di simile a quello che rappresentano, all’interno delle organizzazioni anarchiche, i "se-gretari" o la "commissione di corrispondenza". Avrebbero avuto, sì, un "potere", ma una sorta di "potere buono", qualcosa di simile a quella che gli anarchici chiamano, in contrapposizione all’autorità (termine carico di connotazioni negative), "autorevolezza".
Mi permetto di avere dei dubbi. Innanzitutto, mi chiedo: - Che cosa significa "tranne che in guerra", all’interno di comunità che, come ci ricorda lo stesso autore, erano in guerra quasi permanentemente?
In secondo luogo, siamo proprio sicuri che, in tempo di pace, i cosiddetti "capi" non avessero alcuna possibilità di comandare? O, più semplicemente, data la rigidità delle norme e la pervasività del controllo sociale, ne avevano meno necessità, rispetto, ad esempio, ai nostri governanti?
Certo, a differenza di questi ultimi, i "capi" amerindiani, all’interno delle "società senza stato", non erano dotati di un apparato di polizia, di una magistratura, di galere, e riuscivano a mantenere il proprio ruolo, prevalentemente, attraverso la parola, le capacità di mediazione, il prestigio personale. Ma questo accade anche all’interno delle società statali, dittature comprese. Nessun potere, neppure il più spietato, riuscirebbe a mantenersi senza poggiare su di una buona dose di consenso. E non è un caso che quelle che Clastres descrive, nel secondo saggio, come le doti di un capo "privo di potere coercitivo" siano, più o meno, le stesse che potrebbero essere attribuite a personaggi come Fidel Castro, o Benito Mussolini, cui il potere coercitivo, di certo, non è mancato.
Ritengo pericoloso, per chi vorrebbe vedere abolita ogni sorta di potere coercitivo, ritenere che questa condizione sia esistita all’interno delle "socie-tà senza stato" descritte da Clastres: il rischio è quello di riproporre modelli la cui superiorità da un punto di vista libertario è, a dir poco, discutibile.
Ma c’è un altro rischio che ritengo, forse, ancor più grande: quello di esser portati a pensare che possa esistere, oltre al potere coercitivo, una sorta di "potere buono", basato sul-l’autorevolezza e sulla parola. L’autorevolezza, che tutti attribuiamo a determinate persone, è un fatto; ed è probabilmente ineliminabile; come è probabilmente ineliminabile il "potere" che da essa deriva. Questo non significa tuttavia che tale "potere" sia "buono". Il libertario che ne dispone non si crogiola nella sensazione di legittimità della posizione faticosamente raggiunta, lavora costantemente per ridurlo, contribuendo ad accrescere l’autorevolezza di chi non ne ha a sufficienza: a dare parola a chi non ha parola.