I FILM
Morire a Madrid (Mourir à Madrid)
(Francia, 1937-1962)
regia: Frédéric Rossif; fotografia: George Barsky; musica: Maurice Jarre; montaggio: Suzanne Baron; commento: Madeleine Chapsal; durata 85'.
Frédéric Rossif è un cineasta di origine montenegrina, francese d'adozione, che ha lavorato finora soprattutto alla TV. Straordinario conoscitore del linguaggio filmico, ex collaboratore della Cineteca francese, si era già imposto all'attenzione con un'opera di montaggio sulle atrocità naziste, Vincitori alla sbarra. Per Morire a Madrid Rossif ha riunito un gran numero di documenti cinematografici, in parte inediti e spesso poco noti, sulla guerra civile; ha anche filmato, con il pretesto di realizzare un film turistico, un certo numero di scene sulla Spagna attuale, cercando di individuarne poeticamente soprattutto la tremenda immobilità. Le immagini nebbiose del colle di Somosierra, dove si combattè la prima battaglia per Madrid, ci sembrano eloquenti prima che suggestive. Come spesso accade il commento parlato risulta inferiore alle immagini. Nell'edizione originale le voci erano quelle di Suzanne Flon, Germaine Montéro, Jean Vilar, Pierre Vaneck e Roger Vallien; nella copia italiana i lettori sono soltanto tre: Giorgio Albertazzi, Arnoldo Foà e Anna Proclemer, molto puntuali ed efficaci. Madeleine Chapsal ha scritto un testo elegante, esatto, ma forse troppo incline a compiacimenti di carattere letterario che mascherano talune ambiguità. Non ci consideriamo fautori di una storiografia obbiettiva, che è un'astrazione impossibile, e siamo d'accordo che ogni autore proietti sull'evocazione del passato la sua ideologia presente. Vi sono tuttavia dei fenomeni storici, come la guerra di Spagna, intessuti di eventi complessi e contraddittori che andrebbero portati alla luce senza remore di nessun genere. Se i trentadue mesi di lotta per la Repubblica rappresentarono il tragico "prossimamente" della storia mondiale, ciò accadde anche perché la sinistra rivelò proprio allora la sua spaccatura. In terra di Spagna il contrasto fra il comunismo stalinista, sorretto dalla forza dei contributi sovietici alla causa repubblicana, e gli altri raggruppamenti politici del settore governativo sfociò in episodi di repressione dei movimenti anarchici e trotzkisti. Di tutto il sangue versato durante la guerra civile (e fu molto, un milione di morti), quelle dei libertari catalani accusati di collusione con i ribelli appartiene ad un capitolo oscuro. Per anni si è risposto alle vigorose testimonianze di parte, come l'Omaggio alla Catalogna di George Orwell, con argomenti dialettici e imperativi machiavellici. Oggi, archiviata l'ipoteca stalinista, sarebbe il caso di portare alla luce quei fatti senza sottintesi. Rossif e la Chapsal, come molti "gauchistes" anche in buona fede, non se la sentono di andare oltre un rapido accenno: "Il POUM, partito socialista d'ispirazione trotzkista, vuole contemporaneamente la vittoria e la rivoluzione. Gli anarchici della CNT e della FAI, che raccolgono la maggioranza dei lavoratori, vogliono la vittoria senza disciplina, il popolo senza lo Stato. Il partito socialista e il partito comunista detengono il potere effettivo: il partito socialista grazie al numero dei suoi deputati, il partito comunista grazie al suo dinamismo e alle armi russe. Purtroppo questi conflitti politici si risolvone con i fucili alla mano e con la mobilitazione nelle piazze". Il terreno scotta, ogni parola di più significherebbe compromettersi nell'una o nell'altra direzione. Ma lo storico, sia pure di estrazione giornalistica, non può lavarsi le mani dei problemi più scottanti, allontanare il calice amaro.
Tullio Kezich, Il film sessanta, Ed. Il Formichiere, Milano 1979
L'Espoir (Sierra de Teruel)
(Francia, 1939)
regia e sceneggiatura: André Malraux; soggetto dal romanzo omonimo di Malraux; interpreti: Joseé Sempere (comandante Péna), Andrés Mejuto (Munoz), Julio Péna (Attigniées), Pedro Codina (Schreiner), José Lado (José), Nicolas Rodriguez (Mercery); durata: 90'.
Film documentario e episodi sulla guerra di Spagna vista dalla parte dei repubblicani, diretto da André Malraux (1901-1976): intellettuale, scrittore e politico (fu Ministro della Cultura ai tempi del generale De Gaulle).
A proposito di "Espoir", lo storico del cinema Georges Sadoul così scrive nel suo dizionario dei film: "S'incominciò a girare il film nel giugno 1938, a Barcellona, in uno dei tre teatri di posa della città, ma con poco o nulla in fatto di materiale e attrezzature. Molti esterni furono girati sui campi d'aviazione tra un bombardamento e l'altro. Per la prima volta nella storia del cinema, alcune scene furono riprese nell'interno di un bombardiere, la discesa dalla montagna fu girata nella Sierra di Teruel con 2.500 reclute non ancora equipaggiate. Nel gennaio 1939, quando le truppe di Franco entrarono in Barcellona, il film non era ancora finito. Il film ha conservato un solo episodio del romanzo "La Speranza": e cioè l'incursione sul campo d'aviazione franchista. Il punto centrale dell'opera, il corteo che scende dalla Sierra portando i morti e i feriti, fu ispirato all'autore da un episodio cui aveva personalmente assistito. Splendide le scene dei combattimenti di strada, della colletta nel villaggio, del contadino che guida i bombardieri senza riconoscere dall'alto i paesaggi familiari. Nel 90 per cento del film, interpretato in piena guerra civile da combattenti che ricostruivano quanto avevano vissuto, si sente il vero soffio della rivoluzione spagnola, che annuncia le battaglie antifasciste della seconda guerra mondiale. Le parti più discutibili sono i dialoghi degli aviatori che si chiedono reciprocamente le ragioni per cui combattono. Quando il film fu presentato al grande pubblico, un critico svizzero scrisse: "Il mondo s'è messo a rassomigliare ai romanzi di André Malraux".
Terra e Libertà (Land and Freedom)
(Gran Bretagna - Spagna - Germania, 1995)
regia: Ken Loach; sceneggiatura: Jim Allen; fotografia: Barry Ackroyd; musica: George Fenton; montaggio: Jonathan Morris; interpreti: Ian Hart (David Carne), Rosanna Pastor (Bianca), Iciar Bollain (Maite), Tom Gilroy (Gene Lawrence); durata: 110'.
Liverpool, 1994. Un uomo che viveva in un quartiere popolare è vittima di un infarto. La nipote, Kim, lo accompagna con l'ambulanza all'ospedale ma durante il percorso l'uomo muore. Quello stesso giorno la ragazza trova una valigia con i ricordi del nonno: ritagli di giornale, foto, lettere e un fazzoletto rosso che contiene un pugno di terra. La ragazza comincia a leggere a partire da un foglio che riproduce l'annuncio di una riunione in difesa della Repubblica Spagnola.
Liverpool, 1936. Alla riunione nel corso della quale vengono mostrate sequenze di documentari su quanto accade in Spagna, viene chiesto un aiuto concreto per la difesa della Repubblica spagnola. David (il nonno di Kim) è presente tra il pubblico in compagnia della fidanzata Kitty, le parole del giovane miliziano lo convincono e decide di partire per la Spagna, Kitty cerca di dissuaderlo ma David è stanco della disoccupazione e delle parole che non vengono seguite dall'azione.
Spagna, 1936. David, che è iscritto al partito comunista inglese, entra però nelle file del POUM (Partito Operaio unificato Marxista) il gruppo detto della "Milizia" a cui aderiscono molti anarchici. David conosce così Bernard, la ribelle Maite e l'americano Jim Lawrence. Giunti al fronte vengono accolti dal capitano Vidal che consegna loro le uniche armi in possesso del gruppo: fucili vecchi e quasi fuori uso.
David fa così conoscenza di Coogan (ex combattente dell'IRA) e di Blanca, la sua donna. I compagni fanno uno scherzo a David facendogli credere che Blanca sia una prostituta.
Un mattino la Milizia attacca un paese che è in mano ai fascisti. La vittoria giunge al prezzo della morte di Coogan che viene sepolto solennemente. In paese si deve decidere se procedere alla collettivizzazione della terra. Il dibattito è acceso ma alla fine chi è favorevole alla collettivizzazione ha la meglio.
Kim continua a leggere le lettere che il nonno inviava alla fidanzata.
La guerra continua e il capitano si trova costretto a chiedere ai suoi uomini se vogliono sciogliersi come Milizia per entrare a far parte dell'Esercito Repubblicano controllato dagli stalinisti. I combattenti si esprimono in modo negativo alla fusione. Lawrence, il più pragmatico del gruppo, non è d'accordo su questa decisione. Intanto il senso di colpa che David prova per la morte di Coogan lo avvicina a Blanca. Un giorno, istruendo dei nuovi arrivati, David viene ferito dall'esplosione di un fucile difettoso. E' così costretto a curarsi e a passare un periodo di convalescenza a Barcellona. Una volta dimesso dall'ospedale si reca presso una pensione che gli era stata indicata da Blanca. Qui trova la ragazza che lo attende per rimanere con lui. I due trascorrono la notte insieme ma al mattino, quando Blanca apprende che David si è arruolato nell'Esercito Repubblicano, se ne va infuriata per quello che considera un tradimento.
David ha però ben presto occasione per ripensare alle sue scelte. Gli stalinisti sparano agli anarchici del POUM e non perdono occasione di diffamarli dichiarando che sono servi dei fascisti. L'uomo straccia allora la tessera del partito comunista e fa ritorno dai suoi compagni. Ormai la milizia è quasi del tutto priva di risorse e viene lasciata a combattere allo sbaraglio senza che i rinforzi repubblicani intervengano. Dopo una sanguinosa battaglia conclusasi con un ripiegamento i "rinforzi" arrivano. Sono camion carichi di soldati il cui comandante ordina ai miliziani di cedere le armi e di disperdersi. I loro capi verranno arrestati. Lo sconcerto tra gli uomini di Vidal è fortissimo: Tutti protestano, qualcuno comincia a deporre le armi. Blanca pretende delle spiegazioni dal comandante dell'esercito e, mentre si dirige verso un compagno che ha ancora il fucile in pugno, viene colpita a morte alle spalle dai soldati. Verrà vegliata da David e sepolta da tutti i suoi compagni. David conserverà nel fazzoletto rosso di Blanca un pugno di terra della sepoltura. E' quello stesso pugno di terra che la nipote Kim ha ritrovato e che sparge, nel giorno del funerale, sulla bara del nonno alzando il pugno chiuso.
"Il film tratta dell'esperienza della rivoluzione tradita nella Spagna degli anni Trenta, ma pone anche un interrogativo di grande attualità: se nel presente della nostra storia possa verificarsi qualcosa di analogo a quel che avvenne in Spagna". Così Loach ha presentato il film consapevole, ancora una volta e più di sempre, di aver provocato reazioni contrastanti, anche nel proprio campo di appartenenza, quello della sinistra. Loach è un autore che si è fatto via via più "scomodo" per chi vuole leggere la realtà con un solo tipo di chiave interpretativa. Se gli edili di Riff Raff potevano mettere d'accordo tutti, già la figura positiva del sacerdote (unica in un contesto sociale ormai dissolto) di Piovono pietre aveva fatto gridare al "tradimento" dell'ateismo dichiarato da parte del regista. Ma Loach non si è fermato e ha sferrato un colpo sotto la cintura intellettuale di chi era pronto a denunciare i danni prodotti dall'era tatcheriana. Quel colpo è stato portato con LadyBird LadyByrd, con una protagonista "troppo" irregolare per intenerire i progressisti dal cuore tenero.
(...) La prima parte del film sembra essere come bloccata dall'esigenza di collocare i personaggi all'interno della vicenda storica, quasi che la "didattica" tendesse a prevalere. Nonostante questa "gabbia" un po' vincolante la "realtà" si inserisce a viva forza nel film. Basti pensare alla sequenza della discussione sulla collettivizzazione per comprendere come Loach "legga" il pensiero di tutti lasciando che ognuno abbia spazio per proporre le proprie argomentazioni, costruendo così le premesse per la scena tragica del finale quando nessuno può più discutere perché la verità è "una e una sola": quella di chi ha il potere e lo impone con le armi. La prima parte di Terra e libertà è disseminata di questi segni che troveranno una loro compiutezza in seguito. Basterà citare lo scontro verbale tra miliziani e fascisti che troverà una specularità in quello tra miliziani e stalinisti a Barcellona o i due funerali (non a caso di due personaggi che si erano amati in vita, Coogan prima e Blanca poi)".
Giancarlo Zappoli, in "Film" n.17
Ay, Carmela!
(Italia - Spagna, 1990)
regia: Carlos Saura; sceneggiatura: Rafael Azcona; fotografia: José Luis Alcaine; musica: Alejandro Masso; montaggio: Pablo G. Del Amo; interpreti: Carmen Maura (Carmela), Andres Pajares (Paulino), Gabino Diego (Gustavete), Maurizio de Razza (tenente Ripamonte), Mario De Candia (Bruno); durata: 105'.
Spagna, durante la guerra civile, tre attori girovaghi, gli eterni fidanzati Carmela e Paulino e un ragazzo muto, Gustavete, vivono stentatamente recitando sempre lo stesso spettacolino, ora su un fronte ora su un altro. In una notte di pioggia, stanchi e affamati, decidono di abbandonare il campo repubblicano. Dopo aver rubato del carburante per il loro vecchio furgone, sempre privo di benzina, partono per far ritorno a Valenza.
Ma lungo la strada sono bloccati da un comando di nazionalisti (franchisti) che li conduce in una scuola-prigione.
Qui Carmela fa amicizia con un prigioniero delle Brigate Internazionali, un polacco, che le risveglia sentimenti materni.
Gli attori sono convinti ormai di essere fucilati insieme agli altri prigionieri, quando arriva l'ordine di condurli al cospetto del tenente Ripamonte.
E' un ufficiale italiano che da civile dirigeva un teatro. Nel campo italiano i tre sono rifocillati. Poi a loro è offerta la possibilità di salvezza: recitare per le truppe franchiste e per i camerati italiani. Paulino accetta e convince Carmela a far buon viso a cattivo gioco.
Lo spettacolo di varietà è adattato all'occasione. Tutto sembra filar liscio fino a quando la donna scopre che alla rappresentazione parteciperanno anche i polacchi che il giorno dopo saranno fucilati.
Carmela vorrebbe rifiutarsi perché lo spettacolo non è altro che una provocazione, ma Paulino la convince a recitare promettendole di sposarla in chiesa.
Carmela si appresta alla "pagliacciata" ma, durante lo spettacolo, cerca attraverso allusioni più o meno pesanti di rincuorare i prigionieri. Nel numero finale, quando si deve dileggiare la bandiera repubblicana, si scatena il putiferio.
Il tenente Ripamonte, ideatore dello spettacolo, si mostra soddisfatto. Ma l'imprevisto accade quando Carmela, stanca di essersi prestata ad un gioco subdolo, si lascia andare a grida e vituperi contro i franchisti e i fascisti. Un soldato, in platea, si alza di scatto e spara in fronte alla donna, che si accascia sul palcoscenico. Colpo di scena! Il ragazzo muto inizia a parlare gridando "Ay, Carmela". Poi Paulino e Gustavete la seppelliscono e si allontanano con il loro furgoncino.
Il regista si serve di una pièce teatrale dove gli avvenimenti della guerra civile sono narrati attraverso le vicende di tre attori dell'avanspettacolo. E' il "teatro nel teatro" non inserito in una realtà d'invenzione ma nella Storia, che determina le situazioni e a sua volta ne è determinata. Lo spettacolo, poi, è ripetuto più volte con piccole modifiche a seconda del pubblico (repubblicano o franchista), secondo una convenzione che fa pensare al cinema americano delle origini. Ay, Carmela! è stato avvicinato anche al cinema italiano (dalle commedie di Zampa a Polvere di stelle di Luciano Salce con Sordi-Vitti).
Cristina Mazzantini, in Film, n.3
L'assedio dell'Alcazar
(Italia, 1940)
regia: Augusto Genina; sceneggiatura: Augusto Genina, Alessandro De Stefani, Ugo Betti; dialoghi: Edoardo Anton; fotografia: Jan Stallich; montaggio: Fernando Tropea; interpreti: Fosco Giachetti (capitano Vela), Rafael Calvo (colonello Moscardò), Mireille Balin (Carmen Herrera), Maria Denis (Conchita Alvarez), Andrea Cecchi (Pedro); durata: 112'.
A Toledo la guarnigione militare agli ordini del colonnello Moscardò si schiera per il generale Franco che ha iniziato dal Marocco la sua presa di potere. Il colonnello resiste alle pressioni di Madrid e si dispone alla difesa di Toledo, proclamandone lo stato d'assedio. La popolazione è accolta dentro l'Alcazar, che domina Toledo. La prima difesa contro le forze madrilene viene sistemata all'ingresso della città, in un ospedale militare. Caduto questo, occorre resistere nell'Alcazar. Cominciano i 68 giorni dell'assedio (luglio-settembre 1936) in cui i legionari tengono testa agli assalti dei "rossi".
Il film procede linearmente attraverso una serie di episodi significativi: il primo bombardamento, mentre il cortile dell'Alcazar è pieno di bambini che giocano; la telefonata tra il capo della difesa e il figlio prigioniero dei "rossi"; la scoperta, in un magazzino vicino, di alcuni sacchi di grano, quando ormai sovrasta lo spettro della fame; la notizia da Radio Milano che i franchisti marciano su Toledo; l'attesa angosciosa dello scoppio della mina nei sotterranei dell'Alcazar; un fallito tentativo di sortita per distruggere la mina; la battaglia dopo lo scoppio; l'arrivo dei nazionalisti e la liberazione.
Contemporaneamente a questi fatti si sviluppano due storie d'amore:
a) Conchita, fanciulla semplice e candida, ama ed è riamata da Francisco (Aldo Fiorelli). Ma durante una tregua Francisco è proditoriamente ferito a morte da un miliziano. Poco prima di spirare si fa sposare "in extremis" con Conchita.
b) Una giovane madrilena, Carmen, trovatasi per caso a Toledo è costretta a sopportare i disagi e gli orrori del resto della popolazione. E' superficiale, frivola. Si invaghisce capricciosamente dell'eroico capitano vela. Il dolore che la circonda le matura l'anima: il suo sentimento per il capitano si trasforma in vero amore. Sentendo ormai troppo alieno da sé il proprio passato, respinge Pedro, il suo antico corteggiatore, anche lui nell'Alcazar e anche lui in clima di epica abnegazione. In una sortita Pedro muore, dopo aver rivelato al capitano Vela, l'amore della ragazza, che probabilmente non avrebbe avuto il coraggio di svelarlo lei stessa. Quando gli assediati vengono liberati lei e Vela si sposano.
"E' un film scabro, un film di guerra, robusto e niente affatto raffinato, che ha le radici scrupolosamente affondate nella storia, e in una storia recente. La retorica e l'enfasi stanno alla soglia delle rievocazioni di gesta eroiche, di gesta cioè che appena toccate squillano. Ma Genina ha avuto molto tatto non trascurando il lato borghese (mi sia permessa la parola) della storia. Poiché ciò che all'interno dell'Alcazar avviene è un po' la vita di una piccola città, con le sue nascite, le sue morti (ma queste tanto più numerose) e le sue storie d'amore. Si è parlato dell'Alcazar come di un film corale, un film di folla: ed è vero in parte. Poiché il senso epico dell'opera a nostro avviso si sprigiona anche dal sacrificio e dal dramma singolo, e qui sta il pregio maggiore del valore. Non dimentichiamo che sul finire, quando è annunciato prossimo l'arrivo delle truppe falangiste, il giubilo della folla è sfondo al dramma di poche persone; e son difatti i primi piani di queste che si susseguono, mentre dietro è tutto un brulichio e le voci intonano canti" (Michelangelo Antonioni, in Cinema, n.102, 25/7/1940).
"Il pregio migliore del film consiste in questo senso di compattezza austera e mossa, che nasce da un sapiente impiego delle masse e da un cosciente ripudio degli arabeschi e delle frondosità. La tecnica è un po' a squadro, e, a volte, di una brutalità non occasionale: questo film non è certo trine di Fiandra; né Genina ha avuto paura degli effetti. Pur controllandosi entro i limiti di una sua sobrietà istintiva egli non ha esitato, ad esempio, nella scena del bombardamento, a farci vedere una bambina sola, vacillante sulle gambette, mentre tende piangendo le braccia a invocare un protettore che purtroppo non viene; o una vecchia svenuta o una donna isterica che morde il cuscino ecc.; né è mancata la rituale nascita di un bambino nei momenti più tragici dell'azione...
Con una perizia massiccia e ignara tanto delle leziosaggini quanto degli eccessivi pudori, Genina ha usato tutti gli elementi emotivi a sua disposizione senza lesinare troppo: donne e bambini sono stati protagonisti delle scene più patetiche, ed il pubblico ha ceduto sempre alla suggestione imposta da lui.
A questo punto è essenziale una considerazione: per i caratteri ora delineati, L'assedio dell'Alcazar trova un senso pastoso di veridicità, che però non si solleva dal tono del documentario. Nobilissimo emozionante documentario, ma sempre documentario. Vogliamo dire, che, i fatti parlando da sé, hanno sempre parlato e non hanno permesso ai cineasti di aggiungere parole, o almeno parole felici. Tutti gli effetti buoni son sempre venuti dalla cronaca e dalla sua realistica riesumazione. Lo stesso montaggio, che in simili casi reca il sigillo della personalità dei creatori e conferisce il tono all'opera cinematografica, qui è forse stranamente, e vorrei dire fascinosamente, legato a suggerimenti non oscuri e non peregrini che la stessa materia offriva...
Ed eccoci al nocciolo: se l'arte è trasfigurazione operata dalla fantasia, l'Alcazar ci lascia dei dubbi. La fedeltà della ricostruzione dell'ambiente e dei fatti, la coerenza del tono massiccio e corale (anche la fotografia un po' grossa e non schifiltosa ha egregiamente concorso a tale effetto; anche il commento musicale che a lunghe pause alternava sonorità intense e scroscianti) hanno dato luogo ad uno splendido spettacolo e a un buon film. Ma la fantasia ha raramente spiccato il volo sul materiale documentario". (L.Tr., in Bianco e Nero, nn.11-12, 1940).
Spagna '37
(Francia - Spagna, 1937)
regia: Luis Bunuel; fotografia: Roman Carmen; musica: Beethoven brani dalla Settima e Ottava Sinfonia; montaggio: Jean Paul Dreyfus; commento: Pierre Unik e Luis Bunuel; durata: 35'.
Incaricato da governo repubblicano di realizzare un film di propaganda sulla Guerra Civile in corso, Luis Bunuel (1900-1983) deve fare i conti con la scarsità del materiale documentario a sua disposizione, ma ne sortisce un film di montaggio dal forte impatto ideologico ed emotivo.
La guerra è finita (La guerre est finie)
(Francia, 1966)
regia: Alain Resnais; sceneggiatura: Jorge Semprun; fotografia: Sacha Vierny; musica: Giovanni Fusco; montaggio: Eric Pluet; interpreti: Yves Montand (Diego), Ingrid Thulin (Marianne), Genevieve Bujold (Nadine), Dominique Rozan (Jude), Michel Piccoli (l'ispettore); durata: 121'.
Tre giorni della vita di un uomo.
Tre giorni datati con estrema precisione: siamo nel 1965, durante le feste di Pasqua. Cinque anni prima, l'anno scorso, tra sei mesi, quest'uomo non era, non sarà lo stesso.
Il tempo conta nella vita di un uomo di quarant'anni: l'usura si sente, le opzioni diventano più urgenti, o più irreali.
Tre giorni nella vita di uno spagnolo.
Anche questo conta, la realtà della Spagna. E' storia: una guerra che è finita, ma che pesa ancora sui destini individuali. E' un paese che muore, sotto gli orpelli tradizionali - e drammatici, tutti ne convengono - della corsa dei tori e delle processioni della settimana santa. Un vecchio paese, molto giovane. E' anche il paradiso delle vacanze: 14 milioni di turisti, i piedi nell'acqua, nel baccano dei transistor.
Trent'anni fa in questo paese scoppiava la guerra civile. Dopo trent'anni degli uomini cercano di modificare, attraverso la loro azione tenace e sconosciuta, il destino che una vittoria militare ha imposto al loro paese.
Il destino di Diego, questo spagnolo di quarant'anni, è la rivoluzione: è così che le cose si sono stabilite, per una serie di meccanismi del caso e delle scelte. Una rivoluzione che prende spesso la figura del sogno e del dolore. Tre giorni della vita di Diego Mora a Parigi. La Spagna con il peso di tutta la sua presenza assente. Tre giorni alla ricerca di Juan - suo simile, suo fratello - che il pericolo minaccia.
Alain Resnais e Jorge Semprun
La realizzazione de La guerre est finie rappresenta per Resnais non un'inversione di tendenza, ma certamente la scelta di una direzione operativa nuova. La guerre est finie è infatti un film che si presenta subito definito dall'esplicito carattere politico del soggetto e dalla volontà di aprire un discorso su alcuni problemi che riguardano il settore dichiaratamente politico della vita associata. Resnais tuttavia, da un lato non vuole richiudersi dentro il "genere politico" (non vuole fare un film la cui struttura sia già fondamentalmente predeterminata dall'appartenenza ad un ordine comunicativo codificato) e, dall'altro non intende rinunciare alle coordinate basilari della ricerca formale precedentemente avviata. Così il film non è tanto una sintesi tra un'esigenza di politicizzazione del discorso filmico e lo sviluppo di una ricerca formale personale, quanto una nuova esperienza di scrittura filmica, apertamente politica (cioè direttamente politicizzata a livello di soggetto), nella quale, tuttavia la strutturazione formale, l'assunto conoscitivo e l'interesse per la dinamica coscienziale e immaginativa restano fondamentali. Per Resnais e Semprun, infatti, si tratta di analizzare l'attività politica, le prospettive di lotta e di trasformazione di una situazione socio-politica passando attraverso il diaframma della soggettività quotidiana del militante politico. Il discorso politico, insomma, proprio per sfuggire al cliché usurato del film politico (di derivazione più o meno strettamente neorealistica) deve svilupparsi, secondo Resnais, come discorso sulla soggettività esistenziale e sulla forma; deve elaborare, cioè, strutture capaci di distanziare e mediare la problematica apertamente politica in una comunicazione più complessa e polimorfa.
Paolo Bertetto, Resnais, Il Castoro Cinema n.29
Antologia a cura di Aldo Viganò