INTERVENTO IN CHIUSURA DELLA SEDUTA INAUGURALE DEL 1° CONGRESSO DELLA FESAL-E

 

Stefano d’Errico

 

Questo intervento, essendo quello conclusivo, deve per forza tener conto delle caratteristiche del dibattito della giornata. Cercherò quindi anche di dare le mie risposte relativamente agli argomenti trattati.

Per poter dare delle risposte, la prima domanda che siamo obbligati a porre a noi stessi è che cos’è la FESAL-E ?

Per chi ha lavorato alla fondazione della FESAL-E, il tentativo prioritario è stato quello di riportare al centro della politica il protagonismo di base, per una nuova (proudoniana) capacità politica del mondo del lavoro. Cosa che nell’educazione è incentrata sulla libertà d’insegnamento (dei docenti) e di apprendimento (degli studenti) e nel generale mondo del lavoro s’incardina in un ribaltamento delle logiche di subordinazione del sindacato divenuto cinghia di trasmissione del sistema di dominio, dei partiti e delle istanze del mondo padronale privato e “pubblico”. Non più, quindi, ai lavoratori il ruolo di seguire una politica delegata ad una rappresentanza incentrata sui partiti e sulla concertazione che dettano l’agenda ed il progetto, riservando ai sindacati (al massimo) la vertenza, bensì un piano capovolto che riporti la centralità alla base della società civile.

Nella FESAL questa operazione si basa sul primato della prassi. Ma tale strategia affonda tradizionalmente le sue radici nel sindacalismo libertario e d’azione diretta: il sindacalismo come cellula di ricostruzione e di cambiamento, con il fine dell’autogestione egualitaria in politica ed in economia. Quella tradizione che, attraverso l’anarcosindacalismo, seppe affermare le grandi conquiste della rivoluzione spagnola nel periodo 1936 / ‘39. Non a caso abbiamo con noi gli eredi della CNT.

Un’esperienza che seppe costruire elementi avanzatissimi, come l’abolizione del denaro, la socializzazione delle fabbriche e delle campagne. Una prassi rivoluzionaria capace di coniugare elementi forti dal punto di vista economico con successi altrettanto importanti sul piano delle libertà e dei diritti civili. Senza mai venir meno al pluralismo politico ed alla democrazia sostanziale, nel mezzo di una guerra civile, nonché di un forte scontro interno con chi intendeva “gestire” opportunisticamente la guerra ed abbandonare la rivoluzione, in un patto scellerato che contemplava la restituzione delle terre e delle industrie. Occorre ricordare la lotta contro il settore socialista contrario a significativi cambiamenti; gli stalinisti, longa manus di una politica estera moscovita che mirava ad utilizzare a proprio uso e consumo le vicende di Spagna, svendendo una rivoluzione che non controllava sull’altare del patto spartitorio e di non aggressione con la Germania di Hitler; i repubblicani e gli autonomisti collegati agli interessi di imprenditori ed agrari.

Quell’esperienza dimostrò come i veri “riformisti” siano i rivoluzionari. Si vedano in proposito il ruolo della donna, la parificazione/integrazione fra lavoro manuale ed intellettuale, la speciale attenzione all’educazione integrale. Si ebbero: la prima donna al mondo divenuta ministro; la piena parità dei diritti (quando nelle rinomate “democrazie” anglosassoni le femministe non avevano ancora ottenuto il diritto di voto); la prima legge sull’aborto, vent’anni dopo la rivoluzione d’Ottobre.

Naturalmente, nel nostro caso e sull’attuale scacchiere europeo, non si tratta di richiamarsi ad un anarchismo ossificato, divenuto marginale perché incapace di orientarsi nella politica e nel mondo, come denunciò Camillo Berneri, poco prima di essere assassinato, già nel 1936. Mi riferisco a strutture prive ormai di senso, che hanno sminuito anche il ruolo dell’anarcosindacalismo, tanto che i residui di tali impostazioni parificano ancora oggi, nel 2006, la partecipazione alle elezioni sindacali come si trattasse di partecipazione alle elezioni politiche.

Viceversa, se oggi possiamo ancora capire (con riserva) il Marx economico, abbiamo seri problemi con il Marx politico. I risultati non sono stati certo esaltanti, né possono essere riproposti. Per questo la Federazione Sindacale Mondiale (FSM) non può essere per noi una “luce”. Tanto meno la possiamo considerare l’ “unico sindacato di classe”, come ho sentito dire. In omaggio al sistema federalista di rispetto ed indipendenza delle strutture aderenti alla FESAL-E, chiunque può avere legittimamente rapporti con la FSM, ma senza coinvolgere la FESAL-E.

La rottura con la logica dei sindacati cinghia di trasmissione dei partiti è tanto più importante oggi, in tempi di “pensiero unico”, ove la centralità del sindacalismo di base è data dalla totale subordinazione del sindacalismo “maggioritario” alle politiche neo-liberiste. In una situazione nella quale la CES (Confederazione Europea dei Sindacati) è il partner principale della Confindustria europea. Tanto che questa preferisce spesso la presenza di governi di “centro-sinistra” per la loro capacità di far digerire ai lavoratori, ai giovani, ai precari ed agli immigrati, la ristrutturazione neo-capitalista, tramite la sostanziale complicità dei sindacati compiacenti legati a quegli stessi governi. Per lo stesso motivo, in ogni paese dell’Unione Europea ed in sede di Consiglio d’Europa (nonché nella Costituzione europea), sempre più stringenti sono l’attacco al diritto di sciopero ed alle regole ed ai diritti sindacali, specie quando i lavoratori cercano di gestire questi diritti fuori dal regime di monopolio dei sindacati concertativi. Intendono toglierci le armi: noi invece dobbiamo saper difendere la nostra autonomia. Per questo occorre uscire dalla fase resistenzialista, per scatenare una battaglia forte per i diritti sindacali e per ribaltare i rapporti di forza. E tutto ciò appare impossibile senza una grande unità fra quanti sono fuori e realmente alternativi rispetto alla CES. Senza dimenticare il piano pratico-organizzativo: sarebbe velleitaria ogni unità e qualsiasi tentativo in tal senso senza la presenza di organizzazioni sindacali ben radicate sul territorio del continente, ancorché federate fra loro.

Nella scuola, questa è l’unica strada per abbattere il piano confindustrial-sindacale enunciato già da anni dalla struttura padronale europea. Come ebbero a dichiarare esplicitamente, costoro vorrebbero menti d’opera emancipate dal sapere critico. Tale enunciato, degli anni ‘80, ha guidato sino ad oggi la politica neo-liberista sulla formazione in tutti i paesi dell’Unione. In Italia dal dicastero Berlinguer (“centro-sinistra”) a quello della Moratti (centro-destra): scelte precoci e ritorno all’avviamento professionale; studenti come manodopera a costo zero per le imprese e apprendistato come scuola; scuola e docenti a servizio (e come servizio); minimalismo per facilitare maggiormente la distruzione dell’istruzione pubblica; confusione dei ruoli e contrapposizione fra “utenti-clienti” ed “operatori” (due termini inappropriati ed offensivi, atti a creare confusione). Non si riconosce il diritto di sciopero agli studenti, mentre invece s’intenderebbe confondere l’approvazione dei piani dell’offerta formativa sottoponendoli a chi non ha adeguate competenze professionali, come genitori e rappresentanti dell’impresa (novelli “sponsor” degli istituti). Si favoriscono le scuole private e si trasformano gli insegnanti in impiegati, travet di serie b. Si sottopongono le comunità educanti a vincoli gerarchici ed economici paradossali, che agiscono tramite i dirigenti scolastici. Si introduce una contro-pedagogia frammentaria e funzionalista di tipo statunitense con metodi comportamentistici pavloviano-skinneriani.

Bisogna fare attenzione alle categorie delle nostre analisi. La sfida non può essere affrontata ancora oggi con logiche “operaiolatre”. L’equità formativa non si realizza diminuendo lo spessore del bagaglio culturale e del sapere critico: semmai ridando eguale dignità al sapere manuale. Proprio laddove la disgregazione sociale agisce con più forza, dove il minculpop consumistico e post-moderno produce più vittime, occorre ridare valore alla cultura quale arma fondamentale di difesa per i più deboli, gli emarginati e gli esclusi. Occorre raccogliere la sfida, realizzare legami fra le strutture sindacali di categoria ed i centri sociali e giovanili, nel segno di quello che furono gli Atenei Libertari nella Spagna rivoluzionaria, con l’ausilio di un “sindacalismo sociale”, orizzontale e di progetto, capace di riconnettere i soggetti sociali sul terreno di uno scambio paritario. Serve una pedagogia realmente libertaria, non forme di sussieguoso idealismo “radical-schic”.

Occorre una scuola che sia istituzione popolare, spazio pubblico, e per questo libero sia dagli appetiti privatistici che dalla ragion di stato. Occorre capire fino in fondo l’importanza che investe l’istruzione: l’importanza della cosiddetta “sovrastruttura”.

E’ sempre più necessario analizzare finalmente senza schermi ideologici idealistici o mecanistico-economicisti il ruolo svolto dalla struttura gerarchico-dittatoriale a partito unico e dalla proprietà del sapere atto a condurre la proprietà “collettiva” nella formazione di una nuova classe tecnoburocratica appropriantesi di plus valore nella società sovietica ed in tutti i paesi statolatri del socialismo surreale. Un’analisi necessaria per evitare che la fine di questo non rappresenti anche la fine del socialismo in senso lato. Non sarebbe altrimenti comprensibile ciò che è avvenuto negli ultimi ottant’anni.  La questione dello stato non è certo solo questione ideologica.

Lo stato non svolge altro che il suo lavoro d’apparato, non può che riprodurre sé stesso, al proprio livello, in una spirale che tende sempre al cerchio più alto. Lo stato "matura" rafforzandosi. Così lo stato liberale, alla prima crisi, tende ad annullarsi, trasformandosi in totalitario, mentre quello “socialista”, divenendo in modo evidente sempre più impersonale (pur maturando élites palesi e nascoste, nonché il sottobosco burocratico), tende naturalmente, giocoforza, a realizzare il capitalismo di stato.

Elementi di capitalismo di stato si sono evidenziati anche nei totalitarismi espressi dalla destra fascista o nazista. Le nazionalizzazioni (e l’interventismo spinto o il dirigismo in economia), l’occupazione totale della società civile e delle sue istituzioni, vengono operate in entrambi i casi. Il capitale pare avere molto spesso la tendenza ad appoggiarsi sullo stato, a mascherarsi ed a divenire a guida “invisibile”. Forme più o meno palesi di capitalismo di stato sono state e restano un buono “schermo”, sia ad Occidente che ad Oriente.

Fenomeni simili a direzione variabile. Direzioni apparentemente opposte ma fenomeni contestuali. 

Grazie al capitalismo di stato fu creato un nuovo potere di classe nei paesi cosiddetti socialisti, che ha reso possibile il “regresso” o, semplicemente, la transizione, al capitalismo “autonomo”, dichiaratamente saprofita, conservando sempre come classe dirigente gli ex boiardi di stato. 

Ad Ovest, la paura del socialismo di stato ha favorito riforme di struttura che hanno consentito l’apparizione di un altro tipo degli stessi boiardi (vd. A.Nannei, “La nuovissima classe”; Sugar 1978), già creato peraltro dai fascismi e dalle socialdemocrazie "forti". Caduto il muro e scongiurato il "pericolo comunista", la marcia è stata invertita, si è fatta rotta sul liberismo totale e la cosa pubblica è diventata apertamente business. Esattamente come ad Est, ove oggi le strutture economiche e di servizio di quelli che furono "stati socialisti" sono divenute palesemente proprietà dei “camaleonti” che già le dirigevano e le sfruttavano "in nome e per conto di tutti". 

Il capitalismo, divenuto multinazionale, ha bisogno di un intensificarsi dei legami di capitale, un capitale multiproprietario riconducibile a persone, mafie, cartelli e pacchetti azionari apertamente deregolamentati che giocano ad impadronirsi di tutto ciò che esiste.

Non devono più nascondersi perché la “teologia” del denaro, divenuta ideologia dominante, rende legittima ogni operazione: tutto è reso merce e capitale potenziale. Dalla scuola ai trasporti, alla sanità, all'acqua, più o meno potabile, del quarto, terzo, secondo e persino primo mondo.

Nel liberismo, lo stato non si “annienta”, bensì si “asciuga” e liberandosi del wellfare, diviene anzi stato allo stato puro: mero cane da guardia atto a garantire di nuovo (come nel ciclo iniziale) lo sfruttamento e la reificazione totale, senza più mediazioni. Da questo, la nascita del terzo mondo interno (crescita dell’analfabetismo ed ampliamento della condizione di povertà fra la popolazione endogena dei paesi ricchi), accompagnato nella globalizzazione dai fenomeni migratori e dal livellamento in basso delle condizioni di lavoro. Un abbattimento delle garanzie dovuto al ricatto occupazionale delle delocalizzazioni ed all’insorgenza di mostri planetari come la Cina (il paese del più brutale capitalismo), ove s’esercita un dominio impersonale “misto” alla rinascita di un capitalismo all’occidentale gestito sotto custodia del partito “comunista”. La nuova fase della guerra economica, a suo tempo inaugurata dal Giappone - non solo nell’accaparramento delle materie prime e dei mercati, ma anche come guerra culturale - s’impone come l’ ultimo passaggio dello scontro fra imperialismi (non solo economici), con in più un sempre maggiore intreccio mafioso-multinazionale nella gestione e nell’amministrazione del capitale stesso.

La situazione del pianeta, a fronte dello sfruttamento inusitato delle risorse non rinnovabili e del problema climatico, pone come prioritaria anche la questione ecologica e quella dei limiti dell’industrialesimo, che va affrontata nei termini di un tutt’uno con la generale lotta di liberazione, anche nel necessario contrasto dell’etnocentrismo che il modello tecnocratico di sviluppo impone. Si tratta qui di un problema ancora più ampio, che richiama la necessità di un’antropologia libertaria, sì da demolire l’idea sbagliata che il modello statuale sia superiore a qualsiasi altro e successivo alla nascita delle classi (poiché invece ne è all’origine).

Infine occorre un ribaltamento di prospettiva della politica: occorre rispondere alla domanda inascoltata di una politica subordinata all’etica, ove il fine non giustifica i mezzi. Tutte le congetture sull’autonomia del politico sono destinate a riprodurre giocoforza sistemi di dominio.

Tutto ciò, tradotto in termini sindacali, riporta appunto al primato della prassi, nota distintiva del sindacalismo di base. Per questo la FESAL può essere insieme la vera novità e la vera alternativa, la più abilitata a rilanciare una visione socialista capace di invertire la tendenza alla sconfitta, al  residualismo, alla marginalizzazione ideologica. Una sorta di piccolo embrione per una nuova Prima Internazionale.