Charles Spencer Chaplin. Sotto: la maschera di Charlot, più immagini tratte da: "Il monello", "Tempi moderni", "L'età dell'oro" e "Il grande dittatore"
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Charlie Chaplin Due secoli in una maschera
Dotati di una forza narrativa unica, data dalla freddezza della psicologia più sottile e da un pathos assoluto ma controllato, i film di Chaplin spingono l'intimismo verso una visione agrodolce dell’assoluto, dell’universale, attraverso l’individuo novecentesco e la massa. Ottocento e Novecento nel cinema di Chaplin e della sua maschera Charlot diventano una cosa sola, come non è riuscito a nessun altro regista finora
In una carriera lunga oltre 70 anni, Charles Spencer Chaplin (1889-1977) è diventato un pilastro del cinema inteso soprattutto come macchina storica e apparato creativo in grado di mettersi in relazione con i rivolgimenti sociologici, con il passare del tempo, con il rinnovarsi delle varie stagioni. A una popolarità immensa fin dagli anni 10 ha corrisposto un odio feroce da parte dei suoi detrattori, una serie di scandali epocali che invece di distruggerne la carriera come accadde per molti divi dell’anteguerra ne rafforzavano paradossalmente l’immagine. Chaplin è stato l’icona che l’Occidente meglio è riuscito a trasportare nel mondo, più di ogni altro divo e di ogni merce; ma è stato anche un uomo dalle splendide, fertili contraddizioni, riflesse totalmente nella sua opera-frequentatore “parvenu” dell’alta società hollywoodiana e dell’intellighenzia europea, bersaglio preferito dei reazionari americani e del maccartismo, moralista ottocentesco e seduttore novecentesco, uomo di idee ferocemente anticlericali e talora quasi cristologiche, psicologo finissimo e artista talvolta accusato di facile sentimentalismo. Queste contraddizioni complesse si sublimano nella sua opera, considerata oggi capitale, al di là della popolarità (per molti anni lo stesso Chaplin ha fatto circolare solo occasionalmente la maggior parte delle sue vecchie pellicole), soprattutto per la forza narrativa unica, data dalla freddezza della psicologia più sottile (lo spirito di osservazione) e da un pathos assoluto ma controllatissimo, privo di ogni banalità o convenzionalità. Si tratta di film che mettono progressivamente da parte la comicità degli esordi, che scommettono sulla possibilità di spingere più in profondità il semplice intimismo, verso una visione agrodolce dell’assoluto, dell’universale, attraverso l’individuo novecentesco e la massa. Ottocento e Novecento nel cinema di Chaplin diventano una cosa sola, come non è riuscito a nessun altro regista finora. Charles Spencer Chaplin nasce a Londra il 16 aprile 1889, a soli 4 giorni di distanza dal suo futuro “gemello nero”, Adolf Hitler. Fino al 1898 la vita del piccolo Charles è un incubo dickensiano vissuto nella miseria più assoluta e con lo spettro dell’alcolismo del padre e della crescente follia della madre, un tempo piccola celebrità del music-hall inglese presto decaduta. Queste esperienze sono decisive per la futura personalità di Chaplin: il regista dichiarerà sempre di avere mutuato il suo spirito di osservazione dalla madre e dalla folla di personaggi miseri e grotteschi che attraversavano le strade londinesi; Chaplin si comporterà sempre come un “parvenu” e cercherà a qualsiasi costo un riscatto. Notata la sua precoce abilità mimica, nel 1898 Chaplin entra a far parte di una piccola compagnia di teatro, gli Eight Lancashire Lads, ma ben presto le crisi di follia della madre Hannah lo costringono ad abbandonarla. Questa alternanza di periodi più calmi, in cui Chaplin può mettere a punto le basi del suo futuro personaggio in piccoli spettacoli locali, e di fasi in cui è costretto a occuparsi delle condizioni sempre più penose della madre, continua fino al 1910, anno della prima svolta. Hannah Hill viene definitivamente internata; il fratello di Charles, Sydney, trova un posto nella compagnia di Fred Karno, allora il più grande impresario di music-hall inglesi. La sua dura scuola mimica e l’innovazione dell’alternanza di comico e patetico saranno fondamentali per Chaplin. Charles intanto recita in un numero intitolato “Jimmy the Fearless” insieme a Stan Laurel, il futuro Stanlio; presentato a Karno dal fratello, viene assunto immediatamente. Lo sketch classico "Mumming Birds" gli permette di mettere a punto il cavallo di battaglia dei suoi primi anni, il personaggio del dandy ubriacone che porta lo scompiglio in una sala teatrale. Il successo è sufficiente da convincere Karno a portarlo con sé nel suo tour americano. Chaplin si imbarca nell’ottobre 1912, e resterà in America fino al 1957. Lo sketch, reintitolato “A night in a London club”, gli dà una discreta popolarità negli Usa, dove però il teatro comico-musicale è già stato sostanzialmente soppiantato dal cinema, a cui peraltro fornisce la quasi totalità degli attori. Così accade anche per Chaplin, che notato dal grande Mack Sennett, l’inventore delle comiche, entra nel 1914 a far parte della lanciatissima Keystone, la principale fucina di comicità americana del periodo. Nel primo breve film Making a Living (febbraio 1914), Chaplin riprende i suoi personaggi “europei”, è Kid Auto Races in Venice, dello stesso mese, il momento storico in cui per la prima volta appare sullo schermo la figura dell’omino in bombetta, bastoncino di canna, pantaloni sformati e scarponi. Qui però si chiama ancora Chas, è dispettoso e aggressivo, persino crudele nel suo interrompere una corsa di automobiline per bambini pur di farsi riprendere dalla cinepresa. Distribuite settimanalmente, le comiche Keystone sono un periodo formativo: il primo film diretto da Chaplin appare nell’aprile 1914, si intitola Twenty Minutes Of Love e non si discosta dalla formula comica del periodo, a cui bastavano “un parco, un poliziotto e una bella ragazza”. Anche il periodo successivo (1915), quello delle comiche girate per la casa Essanay, vede un Chaplin già popolarissimo, ma artisticamente ancora incerto tra semplici accumuli di gag da music-hall e primi abbozzi più complessi, velati di critica sociale (un film incompiuto del periodo si chiama “Work”; il suo primo film Essanay, “His new job”, si apre con un’immagine che anticipa già la crudeltà del futuro, con Charlot che cerca di trascinare una carriola stracarica lungo un sentiero ripidissimo). La forma comincia a definirsi più chiaramente: anche se manca ancora una vera e propria psicologia, le innovazioni di Chaplin si vedono soprattutto nella distensione del ritmo frenetico di Sennett, in piccoli esperimenti di montaggio, nell’inserimento finora impensabile di occasionali primi piani, nell’importanza data alle didascalie. Chaplin è comunque pronto al grande salto. Gli anni tra il 1916 e il 1921 sono considerati generalmente i migliori della carriera di Chaplin, come produzione e livello di popolarità. Approdato alla Mutual, una delle case più importanti del periodo, e poi alla First National, Chaplin gode di un controllo sempre maggiore sul prodotto finale e crea una troupe di caratteristi che tornano quasi invariabilmente di film in film-su tutte Edna Purviance, per anni l’incarnazione della visione chapliniana della donna come essere romantico e indifeso, ma all’occasione coi piedi ben piantati per terra. Le pellicole da due rulli del periodo 16-18 sono ormai perfette nei loro meccanismi: The Vagabond segna la fine del vecchio Chas e l’inizio del periodo “rosa” di Charlot; Easy Street, The Cure, The Adventurer sono piccoli gioielli di ritmo e di critica sociale. The Immigrant è l’opera più riuscita del periodo, in cui a una sottotraccia romantica si accompagnano notazioni di una crudeltà rara (la famosa scena d’apertura in cui all’inquadratura della Statua della Libertà e alla didascalia “l’arrivo nel paese della libertà” segue l’immagine di un gruppo di emigranti circondati come bestie da un cordone e frustati). Chaplin mette a punto un metodo di lavoro estremamente perfezionista, rigira le stesse scene per giorni interi scartando chilometri di pellicola; i suoi tempi di lavoro si dilatano quanto il successo internazionale. All’arrivo alla casa First National, può ormai permettersi di costruire i propri studi, all’inizio del 1918-in questo periodo gira altri due mediometraggi straordinari, A Dog’s life e Charlot Soldato. Il primo è una commedia picaresca nella quale Charlot condivide la propria lotta grottesca per la sopravvivenza con un bastardino; Charlot Soldato è un lavoro più complesso, dove appare per la prima volta il tema del sogno e una struttura circolare, geometrica della narrazione importante per il futuro. Incapace per i suoi piedi a papera di allinearsi agli altri soldati, Charlot si addormenta, sogna di travestirsi da albero e di catturare il Kaiser. I gas, che nella prima guerra mondiale avevano condotto alla pazzia il suo maestro Max Linder, sono sostituiti dal lancio di pezzi maleodoranti di formaggio. Il risveglio dal sogno è terribilmente reale. Dopo questi due capolavori, Chaplin attraversa una stasi creativa: ormai stanco del formato “due rulli”, tenta occasionali ritorni alla formula Keystone (A Day’s Pleasure,dicembre 1919) e scenari diversi (la campagna in Sunnyside), ma è visibilmente stanco e distratto dall’intensificarsi dell’interesse per la sua vita mondana e per le sue turbolente vicende sentimentali. Il matrimonio e divorzio con la minorenne Mildred Harris è il primo grande scandalo. Dalla Harris, probabilmente spinta dalla madre, Chaplin ha un figlio che muore pochi giorni dopo la nascita. Questo è il motore che spinge Chaplin a una rinascita creativa, insieme alla scoperta del piccolo Jackie Coogan (il futuro Fester del telefilm “la famiglia Addams”), figlio di due sue comparse. Il 1920 è dedicato interamente alla lavorazione di The Kid, il primo lungometraggio ufficiale. Si tratta probabilmente dell’opera in cui il pathos chapliniano raggiunge il miglior equilibrio. La tenerezza del rapporto tra un Vagabondo ormai universale e il bambino abbandonato dalla madre segna in un modo magnifico la differenza tra sentimento e sentimentalismo. La poesia si fa più grande anche grazie a uno stile ormai maturo, che rilegge le regole del raccontare proprie del cinema classico americano in funzione dei personaggi e della penetrazione psicologica. Il successo internazionale è ovunque immenso. Il rapporto con la First National è però ormai logoro. Gira in relativa fretta un ultimo capolavoro che chiude il contratto con la casa di produzione. The Pilgrim (febbraio 1923) è di fatto Molière trasportato nel contesto dell’America più bigotta e ipocrita, di fronte a cui Chaplin dà spazio alla sua vena più caustica. L’evaso Charlot riesce abbastanza agevolmente, nonostante tutto, a spacciarsi per un prete; il suo sermone domenicale consiste in un’incredibile pantomima sul tema “Davide e Golia”, che entusiasma i bambini della parrocchia e lascia indignate le vecchie matrone alcolizzate del villaggio. L’abito fa letteralmente il monaco. Già dal 1921 Chaplin, insieme ad altri divi come Douglas Fairbanks e al regista D.W.Griffith, aveva preso posizione contro lo strapotere degli studios hollywoodiani e costituito una casa di produzione autonoma chiamata United Artists, che resterà in vita fino ai primi anni 80. Il suo primo lavoro per essa è un film anomalo. Si intitola A Woman of Paris, Chaplin vi appare solo brevemente e truccato in modo da essere irriconoscibile; è una “commedia drammatica” sul tema del destino e del confine tra impotenza e insipienza dell’essere umano, “né buono né cattivo, fornito solo delle passioni date da Dio”, come recita la didascalia introduttiva. Su uno schema melodrammatico convenzionale (l’amore di due giovani è ostacolato dalle rispettive famiglie; per un equivoco i due si perdono, lei diventa l’amante di un aristocratico parigino; si ritrovano, ma la differenza di condizione è ormai tale da indurre il giovane al suicidio), Chaplin lavora per sottrazione. La lavorazione estenuante del film si basa sulla volontà di creare un racconto allusivo, sottile, un esperimento sulle possibilità del mezzo di sondare la psicologia più sottile e dialettica delle situazioni: questo sconcerta tanto attori mediocri come la Purviance quanto divi come Adolphe Menjou, che interpreta la parte di Pierre, il ricco parigino, quanto il pubblico stesso, che rifiuta anche l’idea di un film di Chaplin non comico. In realtà l’influenza di A Woman of Paris è enorme e riconosciuta da registi come Lubitsch; il film è però un fallimento economico tale da indurre Chaplin a ritirarlo dalla circolazione (resterà invisibile fino al 1975) e a tornare a Charlot. La Febbre dell’Oro (1925) è uno dei più grandi successi artistici ed economici di Chaplin, la consacrazione definitiva a “re del cinema” nella considerazione popolare e intellettuale. Girato in parte nella Sierra Nevada, rilegge ancora una volta il tema della trasformazione sociale dell’ingenuità ottocentesca nel monetariato novecentesco; è un primo accenno all’interesse crescente per i temi politici e sociali degli anni successivi. Tuttavia qui prevale ancora una grande poesia dell’individuo, della solitudine e delle relazioni umane, e gli echi del “destino” del film precedente sono ancora visibili. Costellato di sequenze passate alla storia del cinema (la scarpa bollita e consumata con grazia surreale, sopraffina; la trasformazione di Charlot in pollo nelle allucinazioni da fame del compagno; il capodanno 1925 e la folla che intona “Auld Lang Syne”, con una malinconia indescrivibile a parole; la capanna in bilico sul dirupo; la danza dei panini) The Gold Rush è anche dal punto di vista tecnico e visivo l’opera più elaborata di Chaplin, regista notoriamente poco interessato a immagini estetizzanti, ma che qui si serve di tecniche d’avanguardia, modellini e proiezioni con rara efficacia, creando scenari estremi, assoluti. L’oscillazione diventa l’immagine che definisce più a fondo il suo cinema, sempre più preciso e poeticamente drastico nella sua apparente ridondanza sentimentale e nella costruzione solo ingannevolmente caotica, a “strati” delle trame. Dichiara: “ho tutto in mente prima di girare, non mi serve una sceneggiatura”. Un nuovo matrimonio-scandalo con la sedicenne Lita Grey si conclude in una gigantesca causa di divorzio e minaccia di bloccare, insieme a varie altre disavventure (su tutte l’incendio del set, nel settembre 1927), la lavorazione del nuovo film, The Circus. Uscito nel 1928, The Circus è un film strano, nella stessa misura stanco, meccanico e pienamente in grado di trasmettere il senso di una creatività che in sé sarebbe sempre traboccante, ma viene messa in discussione dall’Altro, da chi ne deve godere più a fondo i frutti: pubblico, critica, gli altri membri del carrozzone cinematografico. La metafora è resa secondo il continuo stile comico-patetico, eppure il senso profondo del film all’epoca non venne colto con chiarezza. Charlot viene assunto come inserviente in un circo e si innamora della cavallerizza, figlia del padrone del circo, che la maltratta. Il circo va male fino al giorno in cui Charlot realizza involontariamente un entusiasmante exploit comico, con i disastri che combina mentre si sta svolgendo lo spettacolo. Diventa così, inconsapevolmente, l’unica vera attrazione del circo e finisce per trovarsi a camminare sul filo senza nessuna protezione e attaccato da un gruppo di scimmie dispettose. Una metafora fulminante per un film che chiude sostanzialmente il periodo più “universale” di Chaplin, che ora si volge a modo suo verso il Novecento. A modo suo: rifiuta il cinema sonoro e tra distrazioni, bagni di folla in Europa, vita mondana e ritorni al lavoro impiega oltre tre anni per realizzare City Lights. Un altro grande film di passaggio, più compiuto e coraggioso del predecessore e come questo leggibile a più livelli, è una parabola sulle maschere, sull’incomunicabilità e sull’impossibilità dell’amicizia come dell’amore, in un mondo nuovo: il capitalismo, la città, il novecento, non sono che un’altra forma attraverso cui l’uomo non riesce a essere uomo, anche se lo vuole. La celebre fioraia cieca che scambia Charlot per un “duca” ricco “quindi buono” è stata spesso descritta come un esempio dei limiti del sentimentalismo chapliniano, ma è in realtà una figura sottilissima nella sua ambiguità, una persona-maschera-essere la cui purezza potrebbe essere solo una facciata, un’autocostrizione necessaria per la sopravvivenza. La straordinaria agnizione finale si chiude su uno dei primi piani più enigmatici di tutta la storia del cinema, su uno Charlot che ancora una volta si perde e deve fare a meno delle parole. Tempi Moderni (1936) è un altro film muto, con occasionali effetti sonori ma senza dialoghi. Nel finale Charlot canta una canzone con parole senza senso sull’aria del motivo popolare “Je cherche la Titine”. Tra i suoi lungometraggi, Tempi Moderni è di sicuro il più vicino al vecchio stile chapliniano: definito non a torto un insieme un po’ forzato di comiche a tema (Charlot operaio, Charlot vagabondo, Charlot magazziniere, Charlot cantante), assume però un senso nell’idea di base del film, cioè una visione frantumata e meccanica della realtà moderna, angosciosamente surreale, fatta di movimenti incongrui, folle che non sanno dove stanno andando (a lavorare), di droghe, di macchine che nutrono l’uomo, ma in realtà si nutrono dell’uomo, lo ingoiano e lo sputano via. E’ il suo film più nevrotico. Solo la fuga può di volta in volta liberare dai fallimenti, dalle disillusioni, ma ogni volta si ricomincia da capo: anche la “monella” Paulette Goddard, la nuova star e moglie di Chaplin, nel finale passa repentinamente dalla tristezza più assoluta a un nuovo energico ottimismo. Basta una parola di Charlot e tutto, paradossalmente, si ricompone. Tempi Moderni piace più in Europa che negli Usa, la diffidenza crescente verso un Chaplin sempre più politico si intreccia inesorabilmente con il divampare delle tensioni che porteranno alla seconda guerra mondiale. Diversi caricaturisti europei notano la somiglianza tra Charlot e Adolf Hitler (il dittatore tedesco era nato tra l’altro a soli quattro giorni di distanza da Chaplin..) e spingono Chaplin verso il suo nuovo film, Il dittatore (1940). Girato tra ostacoli non indifferenti, è il suo primo film parlato, pur con ancora ampie concessioni alla pantomima e al non-sense metacinematografico che caratterizzavano i film degli anni 30. Non è certamente il suo film migliore, ma è di sicuro il più importante, il più coraggioso-i farfugliamenti del dittatore di Tomania Adenoid Hynkel sono un grande ritratto dei livelli a cui si può spingere l’assurda e vanesia mediocrità dell’essere umano; lo stesso essere umano però viene celebrato nel famoso e discusso finale, una perorazione lunga oltre 7 minuti in cui Chaplin si spoglia dei personaggi e si rivolge direttamente allo spettatore esprimendo tutto il suo disprezzo per ogni forma di totalitarismo, di destra e di sinistra. In mezzo a questi due estremi, c’è l’ultima apparizione di Charlot, qui barbiere ebreo sosia del temibile dittatore; Charlot si congeda dal pubblico con un recupero voluto di gag quasi slapstick, soprattutto nella seconda parte del film, ma è evidente la volontà del regista di cercare strade nuove. Gli anni 40 sono tra i più tempestosi della vita di Chaplin. Il maccartismo lo prende di mira, va alla disperata ricerca di elementi che possano comprovare una sua “adesione al comunismo”; ma ancora una volta il pretesto viene fornito soprattutto da un nuovo scandalo sessuale che però stavolta si rivela una montatura colossale. Nel 1944 Chaplin viene accusato dall’Fbi di stupro nei confronti di una sua ex amante, Joan Barry, mentalmente squilibrata, che dichiara di aspettare da lui un figlio. Segue un nuovo processo pubblico durante il quale non viene data la possibilità di eseguire il test del Dna, che, come poi dimostrato, avrebbe scagionato Chaplin; il regista viene condannato al mantenimento della Barry e del figlio che è in realtà figlio di un altro amante della Barry, il miliardario Paul Getty Jr. In questa atmosfera sordida, Chaplin scrive e gira in relativa fretta un nuovo film, Monsieur Verdoux (1947). Accolto malissimo negli Stati Uniti, si tratta in realtà di un’opera grandiosa nella sua apparente stringatezza. Girato con pochi mezzi e senza la stessa possibilità di perfezionismo maniacale del passato, Verdoux è un apologo crudelissimo sul 900 ispirato a Henri Landru, uno dei primi serial-killer del secolo. Henri Verdoux è un cortese ex bancario parigino che dopo il crollo delle borse nel 1929 per sopravvivere si è dato alla poligamia: sposa e uccide ricche vedove per mantenere la sua famiglia. Scoperto e condannato alla ghigliottina, si staglia nella sua dignità paradossale definendosi “un dilettante”, di fronte a un tempo in cui la politica e l’economia stessa si sono votate allo sterminio di massa, al genocidio. Di pessimo umore, Chaplin gira un film nevrotico, cerebrale ma anche perversamente godibile, che smentisce una volta per tutte la sua fama di autore “sentimentale” nel senso deteriore del termine. La campagna di diffamazione nei suoi confronti cresce esponenzialmente all’uscita del film, che viene boicottato in tutto il paese. Nel 1952, Chaplin lascia definitivamente gli Usa e si stabilisce prima a Londra e poi in Svizzera. Un nuovo matrimonio con Oona, figlia del drammaturgo Eugene ‘O Neill, sarà stavolta duraturo (da lei Chaplin avrà otto figli); una nuova riflessività malinconica, dopo anni frenetici, durissimi, è alla base di Limelight, girato tra Londra e gli Usa e considerato il suo testamento artistico. Reazione al pessimismo di Verdoux, ma anche estensione paradossale del suo individualismo, racconta in chiave semiautobiografica l’ultimo periodo di vita di un clown un tempo famoso, Calvero, rovinato dall’alcool (il padre di Chaplin morì alcolizzato), che salva dal suicidio una giovane ballerina depressa (Claire Bloom) e prima di morire la aiuta a raggiungere il successo e l’autostima. Da notare nel film è soprattutto la verbosità, che denota il cambiamento stilistico di un’icona del muto. La tristezza straziante che la grande espressività di Chaplin fa trasparire quando rinuncia alle parole, viene bilanciata da un tono sempre più meditativo, quasi filosofico e sereno. Chaplin si guarda indietro con qualche dubbio, ma non sembra stanco. Infatti si rimette quasi subito al lavoro, e realizza tra il 1957 e il 1967 i suoi due ultimi film, oltre a un’autobiografia (1964). Un re a New York non viene proiettato negli Usa fino al 1972; satira sferzante sul neoconsumismo americano, recupera la tecnica del paradosso nelle peripezie di un re europeo detronizzato, Shahdov-Shadow, che fugge in America e per sopravvivere è costretto a farsi plastiche facciali e girare spot per whisky e formaggini-fino a essere accusato di essere un comunista. La satira è acre come in passato, ma l’esperienza di Limelight distende i toni di un film un po’ sottovalutato da critica e pubblico, che sono invece concordi nello stroncare, dieci anni dopo, La contessa di Hong Kong. Il suo ultimo film è girato a colori, con Marlon Brando e Sofia Loren; recupera una sceneggiatura degli anni 30 scritta per la Goddard. E’ una piccola commedia vecchio stile, godibile, sicuramente priva della profondità del passato; eppure a distanza di anni sembra crescere e rivelare come il tocco di umanità del regista non si perda mai completamente per strada. La Loren è stranamente adeguata al personaggio, una taxi-girl russa che si imbarca come clandestina su una nave di milionari, mentre Brando è decisamente poco convinto (i suoi rapporti con Chaplin sul set erano pessimi). Il declino fisico non impedisce a Chaplin di progettare negli ultimi anni un nuovo film, da girare con le figlie Geraldine e Victoria, attrici in quegli anni per registi come Saura e Pasolini; The Freak, ideale recupero della scena del pollo nella Febbre dell’oro, dovrebbe parlare di una ragazza a cui spuntano le ali. Rimane però solo un abbozzo di script. Chaplin muore il 25 dicembre 1977 nel suo ritiro svizzero, a Vevey; il mondo intero fa ancora una volta a gara per omaggiarlo: il vero rilancio popolare della creatività di questo genio avviene però soprattutto negli anni 90, quando l’uscita dei suoi film in Dvd (progetto di restauro tuttora in corso sostenuto dalla Cineteca di Bologna, che dovrebbe concluderlo entro il 2008), viene accompagnata dall’apertura dei suoi sterminati archivi.
Filmografia
(Come attore)
Twenty Minutes of Love
(1914)
(Come regista)
Twenty Minutes of Love (1914)
(Come sceneggiatore)
His
Trysting Place
(1914)
(Come produttore)
The
Floorwalker
(1916)
(Come compositore)
A
Dog's Life
(1918)
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