CARLO CATTANEO
Notizie naturali e civili su la Lombardia
[da Notizie naturali e civili su la Lombardia, Tip. G. Bernardoni, Milano 1844, che si pubblicò in occasione del VI Congresso degli scienziati italiani tenuto a Milano nel 1844.]
AVVISO AL LETTORE
Gli studiosi delle scienze naturali, convenuti in Pisa nell'anno 1839, èbbero in dono una descrizione istòrica e artìsttca di quella città e de' suoi contorni, che per avventura trovàvasi publicata in quegli anni da un incisore, a corredo d'una sua raccolta di vedute.
Pel Congresso scientìfico di Torino parve il caso d'apprestare una sìmile operetta; e forse per darle pure alcun colore d'opportunità, vi s'introdusse una notarella di fòssili e un catàlogo di piante, con alcune righe su l'agricultura.
Il ripetuto esempio del volume donato prescrisse quasi un dovere alle città che dovèvano accògliere le successive adunanze. – A Firenze, di più, si pose inanzi al volume una descrizione naturale della valle dell'Arno: nel che si ebbe forse l'ànimo di far cosa particolarmente intesa a quell'òrdine di persone che volèvasi onorare. – I Padovani, con più cortese e savio consiglio, descrìssero agli òspiti le terre e le aque di tutta la loro provincia, e i vari aspetti che l'agricultura vi prende; e dièdero loro in appendice la flora dei Colli Euganei. – Lucca non si curò per verità di piacere agli amatori della botànica e della geologìa, ma pur descrisse le diverse condizioni del suo territorio alla marina, alla pianura e al monte.
Se nelle sedi dei futuri Congressi prevalesse sempre l'esempio di Pàdova a quello di Pisa e di Torino, altri potrebbe forse pensare che il continuato circùito di queste adunanze potesse d'anno in anno approssimarci a possedere infine un'accurata descrizione di tutta l'Italia. – Ma l'Agro Padovano non è vasto; il Lucchese, meno ancora. il Padovano è forse la 150a parte della terra d'Italia; il Lucchese, la 300a. E se d'anno in anno l'ospitalità municipale non ci consente uno spazio di terra alquanto maggiore, codesta speranza della finale descrizione d'Italia discenderà in fedecommesso ai figli dei nostri figli.
Inoltre queste divisioni di paese così anguste e minute invòlgono troppe simiglianze e infinite ripetizioni. E poche sono poi le provincie che nel loro giro comprèndano le precipue fonti delle loro condizioni naturali e civili, in modo che per darne ragionata contezza non si dèbbano invàdere ad ogni momento i confini delle terre circostanti.
Queste considerazioni destàrono in alcuni studiosi di Milano il pensiero d'inoltrarsi d'un altro passo, come a Firenze si fece in paragone di Pisa, e a Padova in paragone di Firenze. In luogo di fare ogni anno qua e là per l'Italia un volume su la centèsima o la trecentèsima partìcola del bel paese, parve convenisse prèndere risolutamente un'intera regione, purchè potesse considerarsi sotto una certa unità di concetto, la Venezia, a modo d'esempio, o la Toscana – È il principio da cui mosse il nostro lavoro.
È questa adunque una raccolta di notizie su quella regione d'Italia, naturalmente e civilmente dalle altre distinta, a cui per singolari circostanze rimase circoscritto il nome già sì vasto e variàbile di Lombardìa. E intendemmo adombrarvi, quanto per noi si poteva, l'aspetto geològico, il clima, le aque, la flora, la fàuna, lo stato della popolazione e l'ordinamento sanitario, i diversi òrdini agrarj, il commercio, l'industria, il linguaggio, le orìgini prime e la successiva cultura. Ciascuna parte dell'òpera venne conferita da persone specialmente dèdite a quel gènere di studj. Aggiungeremo inoltre che il nostro libro, qualunque egli sia, non è fatto coi libri; le notizie geològiche hanno per corredo una speciale collezione di rocce e di fòssili; le notizie sul clima, e più ancora quelle sulle aque, compèndiano alcune migliaja d'osservazioni, continuate per lunga serie d'anni; la nostra flora è tratta dagli erbarj raccolti di nostra mano dalle paludi del Mincio alla cima delle Alpi Rètiche; la nostra fàuna annòvera gli animali che ad uno ad uno possediamo.
Ma siccome codesti studj non èrano certamente intrapresi nel mero propòsito d'un libro d'occasione, così non potèvano facilmente accozzarsi in un compiuto e armònico edificio; ma dovèvano riescire piuttosto come pietre, che ognuno aveva scavate e dirozzate, e che ora stanno qui deposte l'una accanto dell'altra, materia prima d'una più vasta costruzione; intorno alla quale diremo quali sìano i nostri pensieri.
Noi vorremmo che, dietro l'esempio nostro, e con quei miglioramenti che il fatto venisse additando, in ogni regione d'Italia s'intraprendesse una sìmile raccolta di Notizie, le quali incominciate nella pròssima occasione o nella remota aspettazione d'un Congresso scientifico, venìssero poi proseguite per Supplementi annui anche di minor mole, in modo che, avviato una volta il lavoro nelle sìngole parti d'Italia, ogni anno dovesse arrecarci da ciascuna di esse altretanti manìpoli di studiose fatiche. Le lacune del primo lavoro, anzichè difetto, sarèbbero quasi addentellato che invita all'òpera successiva. – Non è un libro, nè più d'un libro che noi vogliamo aggiùngere alla congerie scientìfica; – è un'istituzione che vorremmo fondare.
I fini suoi sarèbbero grandi e molti. Recare alla scienza una perenne dote d'accurati e sicuri fatti – recare alle sìngole patrie municipali e alla patria commune quell'ìntima e verace cognizione di sè medèsime, per la quale il pùblico bene si pensa e si òpera entro i confini del possìbile e dell'opportuno, e senza mistura di mali; – aggiùngere a molti un impulso perpetuo al lavoro, coll'allettamento d'una vasta publicità data al più minuto studio locale – indurre gli studiosi a rivòlgere le loro fatiche a un oggetto determinato e arrivàbile, non logorando l'ingegno in vasti e vani sforzi – risparmiare la ripetizione delle stesse fatiche in diversi luoghi, di modo che il giòvane, bramoso di farsi mèrito, sappia sempre dove è un campo da coltivare e una lacuna da rièmpiere – infòndere agli studj nazionali quell'unità e quell'efficacia che non deriva da vìncoli importuni o sospetti, ma surge spontanea dalla natura stessa delle cose di fatto, le quali, essendo parti d'uno stesso òrdine universale, rièscono spontaneamente coordinate e concordi.
Non è assurdo il pensare che in quel modo in cui l'istituzione dei Congressi scientìfici venne dalle altre nazioni alla nostra, così questa istituzione delle Raccolte perpetue possa da noi propagarsi alle altre nazioni. Se così fosse, e se in ogni distinta regione della Germania, della Francia, della Scandinavia, uno stuolo di studiosi intraprendesse una collezione ordinata sopra un medèsimo disegno, e ognuna di queste nazioni offrisse annualmente il frutto di venti o trenta raccolte, ciascuna delle quali fosse fatta da venti o trenta speciali persone, è impossibile a dirsi qual tesoro di studj si potrebbe in breve tempo accumulare. Mentre nella più parte delle società scientìfiche gli studiosi vanno a riposare ed oziare, agli onori di questa vasta ma lìbera collaborazione avrebbe parte solo chi fosse operoso, e a misura della sua operosità. Migliaja di studiosi, tranquillamente e senza alcun lontano o malagèvole accordo, potrèbbero dar mano a un edificio, la cui base sarebbe l'Europa.
Questo pensiero, che nella sua vastità è pur tanto sèmplice e fàcile, dovrebbe raccomandarsi per sè medèsimo di promotori e fondatori di codesta bella consuetùdine delle annue adunanze; i quali non potranno dissimulare a sè medèsimi che l'opinione publica non se ne mostra peranco sodisfatta; poichè vede grande e frondoso l'àrbore, e non conosce i frutti; epperò giustamente sospetta che la nuova istituzione non apra tanto un campo alle fatiche quanto un teatro alla inoperosa vanità.
Per parte nostra, non ci faremo inanzi a prèndere il posto dovuto ai migliori; ma procureremo di giustificare nella mente dei nostri concittadini la nuova istituzione, col provar loro che può èssere veramente occasione di studj ùtili e laboriosi. Dobbiamo aggiùngere che il nostro pensiero venne alquanto tardi; che trovò inaspettate contrarietà, che la cosa essendo nuova e indeterminata anche nella mente di quelli che pur volèvano condurla a qualche effetto, doveva produrre molte esitanze; che ci fu necessario pur troppo d'accertar prima se l'opinione pùblica avrebbe assecondato i nostri sforzi, poichè non era giusto che alla fatica si aggiungesse anche altro più materiale nostro sacrificio; e per tutte queste cose, solo alla metà dello scorso maggio fummo in grado di por mano alla stampa.
Nel coordinare i manoscritti si mirò principalmente a rimòvere tutte le ripetizioni della medèsima cosa sotto diversi capitoli, collocàndola a preferenza in quello a cui la cosa più specialmente apparteneva. Ogni memoria venne ridutta alla più semplice espressione; e in ciò, i collaboratori mostràrono la più generosa fiducia e compiacenza all'amico, al quale avevano commesso questo delicato incàrico, persuasi che l'òpera dovesse riescire, per quanto si poteva, una concisa e disadorna collezione di fatti.
Paghi del mèrito d'aver dato l'esempio d'un'impresa che speriamo non finirà con noi, se i nostri successori con più bell'òrdine e più profondi studj oscureranno questo dèbole e frettoloso nostro lavoro, noi ci rallegreremo sempre nel vedere tanto più feconda la semente che avremo sparsa.
INTRODUZIONE
I.
Le Alpi Rètiche, che divìdono la nostra valle adriàtica da quelle dell'Inn e del Reno versanti a più lontani mari, sono un ammasso di rocce serpentinose e granìtiche, le quali emèrsero squarciando e sollevando con iterate eruzioni il fondo del primiero ocèano, in quelle remote età geològiche, che sèmbrano ancora un sogno dell'imaginazìone. – Fu quello il primo rudimento della terra d'Italia.
Gli antichi sedimenti del mare, parte s'inabissàrono e confùsero in quelle voràgini roventi, aggiungendo mole a mole; parte riarsi e trasformati, ma pure serbando traccia delle native stratificazioni, copèrsero i fianchi e i dorsi delle emersioni consolidate. Il tòrbido mare accumulò successivamente altri depòsiti, che si collocàvano in giacitura orizontale presso ai sedimenti anteriori già sollevati e contorti; e mano mano che la vasta òpera delle emersioni si andava inoltrando e dilatando, sollevati e raddrizzati anch'essi, si atteggiàvano in tutte le discordi inclinazioni, che ci attèstano la successiva serie di quei rivolgimenti. Nelle masse così deposte dominava, secondo la successiva natura delle aque, ora la sustanza silicea, ora l'argillosa cementata di poca calce, ora la calcare.
Così fu costrutta la trìplice regione dei nostri monti; nella quale i serpentini verdastri e negreggianti compòsero insieme ai graniti silicei la gran catena delle Alpi Rètiche; le roccie trasformate e le arenarie rosse, rivestite al piede dalle ardesie, formàrono, a guisa d'alto antemurale, la catena delle Prealpi Orobie; nelle cui propàgini più meridionali i sedimenti calcari e dolòmici costituìrono un altro òrdine di monti, d'altezza poco meno che alpina.
A perturbarne e rialzarne le estreme falde, sopravenne in era meno lontana una seconda serie di moti sotterranei, sìmili a quelli che avèvano sollevato le interne regioni. E prodùssero quella interrotta zona d'emersioni pirossèniche e porfìriche che, come più flùide e meno silicee, sospìnsero a minore altezza le masse delle stratificazioni, fra le quali si apèrsero il varco.
Nel corso dei sècoli le aque travòlsero per il declivio dei monti alle pròssime parti del piano i frammenti delle varie rocce. A poco a poco si colmò il golfo che aveva deposto lo strato cretaceo, e che in màrgine a quello accumulava i varj conglomerati e le argille e marne subapennine. Le aque si ritràssero dall'altopiano; e lungo il cammino dell'ùltimo loro soggiorno, il tardo osservatore raccolse interi schèletri di balene e delfini, e gli ossami degli elefanti che vagavano per le circostanti maremme.
Le estreme convulsioni della volta terrestre sempre più sòlida e potente, nel dar leva alle grandi moli dei monti calcari, prodùssero le profonde squarciature dei laghi; torturàrono ed erèssero le stratificazioni degli ìnfimi colli; e qua e là sollevàrono a miràbili altezze i frammenti erràtici, sparsi sulle spalle dei minori monti.
Per òpera d'altre emersioni surgèvano intanto a levante, a ponente, a mezzodì le terre della Venezia, della Liguria, del Piemonte. Il sublime arco delle Alpi era proteso fra i due golfi, che l'Apennino aveva poscia divisi, sollevando in più tarda età le sue pendici ingombre dai sedimenti cretacei. Allora le onde del Mediterraneo non percòssero più le falde delle nostre montagne; e la frapposta regione fu un'ampia valle, aperta all'oriente, e cinta di continui gioghi nelle altre parti.
Così èrano preparati i lontani destini del pòpolo che doveva abitarla. – Le gèlide Alpi la dividèvano dalle terre boreali e occidentali; l'ùmile Apennino ligùstico appena la dipartiva dalle riviere del Mediterraneo; il corso delle aque confluenti in poderoso fiume la collegava all'Adriàtico; e ambo i mari la congiungèvano alla bella penìsola che tèngono in grembo. – Anche la nostra patria era Italia.
II.
Ma nel seno stesso della valle cisalpina, quella parte che noi descriviamo sortiva forme sue proprie, per le quali si distinse e dalla parte subapennina, e dalla Venezia, e dal Piemonte. La catena delle Alpi, partendo dal M. Stelvio, scorre a occidente fino al Gottardo; e quivi con sùbito àngolo si volge poco meno che a mezzodì fino al M. Rosa. Con altro simil àngolo si dirama dallo Stelvio un'altra catena, che si spinge ben avanti nella pianura, separando dalla valle dell'Adige i nostri fiumi tributarj del Po. Laonde, se a ponente giganteggia il M. Rosa, a levante sùrgono a pròssima altezza il Cristallo e l'Adamo. Questa Catena Camonia non è alpe: non circonda l'Italia: solo divide l'interno e domèstico dominio dei due primieri suoi fiumi: ma nella maggior sua mole è costrutta delle stesse emersioni serpentinose e granìtiche; ed è ammantata di larghi ghiacciaj, e così eccelsi, che, tranne il Monte Bianco e poche altre vette delle Alpi occidentali, ella oltrepassa tutte le altre sommità dell'Europa. – Per tal modo, dalle Alpi Pennine alle Prealpi Camonie, un ampio semicerchio chiude a settentrione, e sèpara dal dominio non solo dell'Inn e del Reno, ma della Sesia, del Ròdano e dell'Adige, quella parte della regione cisalpina onde il Ticino, l'Adda, l'Ollio e il Mincio discèndono al Po.
III.
Una zona di grandi e profondi laghi, che forma corda all'arco delle suddescritte montagne, accoglie alle loro falde le piene precipitose, che i digeli e le piogge chiàmano dalle riposte valli; e porge le aque rallentate e chiare ai successivi fiumi; le cui lìmpide correnti, quasi nulla apportando e sempre togliendo, potèrono incavarsi il letto sotto al livello della pianura. E il màrgine estremo di questa, elevàndosi alquanto anche su le pròssime campagne, è durèvole monumento delle alluvioni che quei fiumi diffondèvano lungo le loro sponde, allorchè, scendendo da valli ancora senza lago, scorrèvano tòrbidi e superficiali, come vediamo i fiumi alpini del Piemonte e i torrenti dell'Apennino, che ingòmbrano di continue ghiare il letto del Po.
Benchè codeste alluvioni fluviali ascèndano a enorme congerie, pure da tempo immemoràbile il gran fiume non elevò il suo letto, come fu sì communemente supposto e ripetuto. Le tòrbide fiumane dell'Apennino arrìvano in poco d'ora al Po; solo quando esse vanno già declinando, si fanno minacciose le piene delle interne aque del Piemonte; ùltimi sopragiùngono il Ticino, il Mincio e gli altri nostri fiumi, rattenuti e riposati nei laghi; e corrodendo con aque più gonfie che tòrbide le recenti alluvioni, le sospìngono a poco a poco per l'alveo del fiume a colmare le sue marine. – La stessa miràbile successione di movimenti che conserva stàbile e lìbero il letto del Po, ne mòdera eziandìo le aque; e anche solo a colmarne il vasto alveo si spèndono già parecchi giorni di piena impetuosa.
La geografìa dei fiumi, nascente ancora, si ristringe quasi solo a compararne le lunghezze, e a dir maggiore il fiume le cui fonti sono più lontane dalle foci e più spazioso il bacino, mentre anche per essi, come nei regni umani, la vastità non è misura della potenza. Il corso del Reno è lungo il doppio di quello del Po, ma il volume d'aqua del fiume itàlico sùpera quello del Reno, anche dove il fiume germànico, raccolti tutti i suoi tributarj e non per anco diviso, spiega il sommo della sua pompa. – Ora, questo paragone dei fiumi simboleggia in breve fòrmula tutte le circostanze fondamentali d'un paese.
Il corso continuo dell'Adda rappresenta uno strato aqueo, il quale coprisse a notèvole altezza tutta la superficie del suo bacino; ma le aque che còlano annualmente nella Senna, diffuse su tutta la superficie del suo bacino, appena giungerèbbero alla sèttima parte di quell'altezza. Che avviene dunque delle piogge che discèndono sotto quel cielo tanto men sereno del nostro? – Nel bacino della Senna cade veramente men aqua che fra noi; e cade poi dispersa in minute e frequenti pioggie, che anche nell'estate fanno tetro il cielo e fangosa la tetra, svaporando largamente prima di giùngere al fiume, il quale appena riscuote dalla vasta campagna un terzo della pioggia che vi scende. Nella nostra valle, la stagione più piovosa è l'autunno; men piovosa è la primavera, meno ancora l'estate; anche nella parte più bassa e aquidosa della pianura, il sereno regna la metà dei giorni dell'anno; nella zona media, più della metà; sull'altopiano, più ancora; e il maggior nùmero di questi lìmpidi giorni è nell'estate. Le aque scèndono adunque in generose piogge; poca parte si sperde in vapori; il più scorre impetuoso ai fiumi; onde il Po riceve la maggior parte delle aque pioventi nel suo bacino, e l'Adda più ancora.
L'Adda non segue col suo deflusso l'andamento delle piogge, perchè queste prèndono piuttosto forma di nevi, riservate ad alimentarla solo fra gli ardori della successiva estate; cosicchè, pòvera nelle due stagioni piovose, si gonfia costantemente in giugno e luglio. Il Po, che aggiunge allo stillicidio delle Alpi il tributo meno glaciale degli Apennini, corrisponde all'andamento delle piogge, gonfiàndosi in primavera e in autunno, e rallentàndosi fra gli ardori dell'agosto. – Ma la Senna serba un tenore affatto inverso a quello dei nostri fiumi, poichè s'ingrossa solo nella stagione invernale; quindi nella Sciampagna e nell'Isola di Francia regna un òrdine fondamentale ben diverso da quello che vediamo nelle nostre pianure.
Colà l'agricultura è raccomandata alla frequente e parca aspèrgine delle piogge estive, e poco potrà mai valersi delle aque fluviali, poichè vèngono meno a misura che cresce il bisogno delle irrigazioni. Da noi l'estate è costante e àrida; e la pianura erràtica e silicea potrebbe per sè inaridirsi, come le steppe del Volga, che pur giàciono sotto questa medèsima latitùdine, se nei recessi della regione montana non avèssimo il tesoro dei ghiacci e delle nevi, onde le vene dei fiumi si fanno più larghe col crèscere dell'arsura. Ma poi le aque estive sarèbbero un dono inùtile, se accanto alle loro correnti non giacèssero vaste campagne, atteggiate a mite e uniforme declivio, non formate di materie argillose e tenaci, ma sciolte e àvide d'irrigazione; e infine sarèbbero men preziose ed efficaci, se fòssero più frequenti e sparse le piogge, e meno assidua la luce del sole estivo.
Finalmente i laghi nostri non hanno solamente uno specchio di superficie senza profondità, come il vasto Bàlaton; ma discèndono sino a centinaja di metri sotto il livello del mare; e giacendo appiè d'alti e continui monti che devìano i venti boreali, e sull'orlo d'un piano che s'inclina alle tèpide influenze dell'Adriàtico, non gèlano mai. L'interna circolazione, promossa d'inverno dalla specìfica gravità degli strati più freddi, e rallentata nella stagione estiva dalla comparativa leggerezza degli strati più caldi, mòdera talmente la loro temperie, che a mediocre profondità si serba perenne e immutàbile. Queste masse d'aqua, incassate lungo il màrgine superiore d'una landa uniforme di materie erràtiche e incoerenti, non solo si effòndono in fiumi, ma sèmbrano penetrare interne e sotterranee, stendendo fra le alterne ghiare quegli strati aquei, che le annue nevi e piogge rèndono più o meno copiosi, e che per la successiva inclinazione del piano si fanno sempre più pròssimi alla superficie. E forse nei primitivi tempi, quando l'arte non li esauriva avidamente a sussidio dell'agricultura, riempièvano di limpidi stagni le pianure, non ancora spianate da secolari fatiche. Era questa dunque in orìgine una larga zona di terre palustri, non per impedimento recato da suolo argìlloso o còncavo al corso d'aque fluviali, ma per inesàusto afflusso d'interne vene, che, sgorgando dalla profonda terra, non risèntono i geli del verno, se non dopo lungo soggiorno sulle aperte campagne.
Per tal modo le alpi eccelse e gli abissi dei laghi, i fiumi incassati e l'uniforme pianura silicea, le correnti sotterranee e le aque tèpide nel verno, gli aquiloni intercetti e le influenze marine, le generose piogge e l'estate lùcida e serena, èrano come le parti d'una vasta màchina agraria, alla quale mancava solo un pòpolo, che compiendo il voto della natura, ordinasse gli sparsi elementi a un perseverante pensiero. Altre miràbili attitùdini delle terre, delle aque e del cielo si collegàvano a preparare le riviere del Benaco a un pòpolo di giardinieri, che le abbellisse d'olivi e di cedri; e chiamava un pòpolo di vignajuoli a tender di viti le balze su cui pèndono i ghiacci della Rezia. Il progresso dell'incivilimento dimostrerà con fatto posteriore, che in ogni regione del globo giàciono così predisposti gli elementi di qualche gran compàgine, che attende solo il soffio dell'intelligenza nazionale. Da ben poche generazioni si accorse il pòpolo britànnico di vivere in mezzo ai mari chiamato dalla natura a navigarli vastamente, e d'aver sotto i piedi i sotterranei tesori della forza motrice. – Perlochè può forse avvenire che più d'un pòpolo che largheggia con noi di superbi vaniloquj, non abbia per avventura inteso ancora il verbo de' suoi proprj destini.
IV.
I primi uòmini che si spàrsero per questa terra transpadana, vi si avvènnero in due ben dissìmili regioni di pari ampiezza, l'una montuosa, l'altra campestre. Le Alpi sublimi, nevose, inaccesse, abbracciàvano un labirinto d'altre catene di poco minore altitùdine ed asprezza, entro cui stàvano alte e recòndite valli, fra loro disparate, chiuse al piede da laghi o da passi angusti, che nei tempi primitivi, quando non v'era arte di capitani, opponèvano impenetràbile serraglio alle orde vaganti. – La regione campestre, àrida e sassosa nella parte superiore, più sotto era piena di scaturìgini e di ghiare aquidose, interrotta da dorsi di bosco, asciutta ed aprica lungo gli alti greti dei maggiori fiumi, ma in preda alle lìbere inondazioni nelle basse règone, e fra le curve dei loro serpeggiamenti.
Come vediamo tuttavìa nelle sparse reliquie della vegetazione virgìnea, surgèvano nude le vette alpine, ammantati di pàscoli naturali i larghi dorsi della regione calcare, irte di selve conìfere le somme pendici, più sotto frondose di faggi e di betule, poi di quercie, d'àceri e d'olmi, che ampiamente scendendo unìvano i monti ai colli e all'altipiano, vestito d'èriche e sparso di rara selva. La campagna uliginosa e le pingui golene dei fiumi dovèvano esser dense di sàlici e d'alni; lungo le tèpide scaturìgini delle correnti sotterranee, doveva qua e là verdeggiare, e fors'anche nel verno, qualche spontaneo lembo di prato. Ma sui clivi eretti al vivo sole, sulle miti riviere dei laghi ignare quasi di nebbie e di geli, fra le suavità d'una flora naturalmente australe, poteva facilmente mitigarsi anche la fiera vita del selvaggio. – Folte turme di cervi, d'uri e d'alci dovèvano pàscere la pianura, lungo i plàcidi stagni ai quali il castoro lasciò il nome di Bèvera e Beverara; le generazioni, ora fra noi quasi estinte, de' dàini e de' camosci dovèvano animare il silenzio dei recessi montani. Ma solo l'amor della caccia, o il timore dei nemici, poteva incalzare le prime tribù di rupe in rupe sino a piè di quegli òrridi precipizj, ove le vallanghe e la tormenta e il notturno rintrono de' ghiacciaj atterrìvano le menti superstiziose, e dove il forte alpigiano, che ha cuore d'inseguir veloce le pedate dell'orso, anche oggidì non sa, in faccia alla taciturna natura, difèndersi da quella tetra e arcana ansietà ch'egli chiama il solengo.
V.
Chi fùrono i primi abitatori dell'Insubria?
È vano il crèdere che l'Europa ne' suoi sècoli selvaggi fosse altrimenti dalle terre che tali rimàngono fino ai nostri giorni. L'Europèo trovò l'Amèrica e l'Australia in quello stato in cui pare che l'Asiàtico trovasse l'Europa. Qui pure, prima delle grandi nazioni dovèvano èssere i pìccoli pòpoli, e prima dei pòpoli le divise tribù. E ogni tribù, che abitava una valle appartata e una landa cinta di paludi e interrotta di fiumi, ebbe a vìvere primamente solitaria di lingua e di costume, nell'angusto cerchio che le segnàvano intorno le tribù nemiche. L'indagare a quale appartenesse delle grandi nazioni che si svòlsero poi nel seno dei sècoli e delle lente preparazioni istòriche, è propòsito falso e inverso; è come investigare da qual fiume derìvino i ruscelli, che al contrario càdono dai monti a nutrire i fiumi. Quindi sarebbe tempo ora mai, che non si andasse fantasticando se provènnero dai Celti, o dagli Illirj, o dai Traci quelle primitive genti, le quali fùrono lungo tempo avanti che l'incivilimento orientale, penetrando colle sue colonie, coi sacerdozj, coi commercj, colle armi della conquista e colle miserie degli esilj e della servitù, propagasse lungo tutti i mari e i fiumi d'Europa quell'arcana unità linguistica, che con meraviglia nostra ci annoda all'India e alla Persia; la quale, con inferiori òrdini d'unità sempre più divergenti, costituì nel corso del tempo ciò che noi chiamiamo la stirpe cèltica, la germànica, la slava. Se v'è in Europa un elemento uniforme, il quale certo ebbe radice nell'Asia, madre antica dei sacerdozj, degli imperj, delle scritture e delle arti, v'ha pur anco un elemento vario; e costituisce il principio delle singole nazionalità; e rappresenta ciò che i pòpoli indìgeni ritènnero di sè medèsimi, anche nell'aggregarsi e conformarsi ai centri civili, disseminati dall'asiàtica influenza. Le varie combinazioni fra l'avventizia unità e la varietà nativa si svòlsero sulla terra d'Europa; non approdàrono già compiute dall'Asia. Le grandi lingue si dilàtano in ampiezza sempre maggiore di paese; e danno a pòpoli di diversa e spesso inimica orìgine il mendace aspetto d'una discendenza commune. La Francia, terra pur d'unità e di centralità quant'altra mai, non cancellò ancora nel suo seno le vestigia delle quattro lingue che Cèsare vi udì tra l'Adour e il Reno, ciascuna delle quali aveva già forse sommerse e spente più favelle di primigenie tribù. In Haiti, la favella dei Bianchi e il volto dei Neri dimòstrano quanto sia grande il moderno errore di classare le stirpi per lingue. In Germania sono evidenti reliquie di Celti, di Lettj, di Slavi; la Germania non può spiegare, con ciò ch'ella crede sua prisca lingua, i nomi de' suoi fiumi, e rare volte quello delle sue più illustri città. Quanto più si risale la corrente del tempo, ogni nazionalità si risolve ne' suoi nativi elementi; e rimosso tuttociò che vi è d'uniforme, cioè di straniero e fattizio, i fiochi dialetti si ravvìvano in lingue assolute e indipendenti, quali fùrono nelle native condizioni del genere umano.
VI.
Tutti gli scrittori, mentre pàrlano di colonie approdate in Italia dall'Oriente, e di tribù venturiere discese tratto tratto dalle Alpi, dìcono pur sempre che l'Italia ebbe più antichi abitatori. E per dinotare che parlàvano lingue proprie, e non riferìvano l'orìgine ad alcuna delle grandi nazioni allora fiorenti o fiorite prima, li dissero aborìgeni (Italiæ cultores primi aborigenes fuere. Just.); li dìssero abitatori di monti, frugali, forti, agresti, duri all'armi, duri come le ròveri delle selve native (durum in armis genus. Liv.; – duro de robore nati. Virg.). Nè quelle stirpi fùrono mai spente, nè cacciate altrove; e più volte ristauràrono la popolazione del paese aperto, esterminata da ràpide calamità. E tuttavìa le vediamo discèndere ogni anno ad assìsterla nelle fatiche dei campi, e tenerla a nùmero nelle arti delle città; – fondamento e nervo della nazione; – principio sempre redivivo di quella varietà d'ìndole e d'ingegno, che ammiriamo nei sìngoli pòpoli d'Italia, e che alcuni vanamente deplòrano. Codesta progenie fu la materia prima, che l'influenza orientale improntò solo della sua forma.
VII.
Le rive del Po èrano note ai navigatori fin da quei tempi in cui prèsero forma le poètiche legende della fàvola greca; e pare che sotto il nome d'Erìdano fosse uno dei fiumi di quell'angusto orbe che la poesìa popolò de' suoi sogni. Ivi presso era approdato Antènore, fuggendo l'Asia desolata; qui le Elìadi si èrano consunte in làcrime; qui la tradita Manto celava il suo nato nell'ìsola del lago etrusco; qui Cigno regnava sul fiume dei Lìguri; qui Ercole, il sìmbolo della potenza fenicia, nella sua via verso occidente, aveva incontrato "nella terra palustre (x Ç r o w m a l y a k ñ w ) sparsa di sassi caduti dal cielo, l'esèrcito impertèrrito dei Lìguri, contro cui gli era vano il valore e l'arco" (Eschilo ap. Str.); questa era la terra dove i Greci compràvano l'elettro del Bàltico, e i cavalli che dovèvano vìncere le palme d'Olimpia. – Per tal modo il nome della nostra patria s'intesse ai primordj dell'arti belle ed ai sìmboli dell'intelligenza nascente.
Quegli antichi Orobj, Leponti, Isarci, Vennj, Camuni. Trumplini, che si ascrìvono alle nostre valli, sono ombre senza persona; gli scrittori nulla aggiùnsero al nudo nome. Dissero solo che avèvano fondato la città di Barra, madre di Como e Bèrgamo e da lungo tempo perita. Forse era all'uso itàlico sovra ameni colli, presso Baravico e Bartesate, appiè del Monte Baro, tra l'Adda e il Lago Eupili; e la prisca Como era forse intorno al poggio del Baradello; e Bèrgamo, pur sovra un colle, se non trasse il nome dalla madre patria, lo trasse forse da quel Dio Bèrgimo, al quale nelle sue valli si pòsero tante iscrizioni votive. Ma quali pur si fòssero quelle vetuste genti, giova notare, con quali pòpoli si pòsero in successiva ìntima connessione, nel trapasso che fècero dallo stato d'isolate tribù a quella vasta orditura di cose, che le rese membra d'una gloriosa nazione. Solo dopochè sìasi annoverato quanto in esse penetrò d'adottivo e straniero, potrà forse per eliminazione chiarirsi in qualche modo ciò che vi rimase di proprio e di nativo.
VIII.
Abbiamo già visto come il nome dei lìguri si nasconda nella notte dei tempi. Quei poggi dell'Apennino lìgure, che noi chiamiamo la Collina, si strìngono ben presso la riva del Po, contro la foce della nostra Olona; ambo le rive del Ticino èrano popolate ab antico da un pòpolo lìgure (antiquam gentem Lævos Ligures incolentes circa Ticinum amnem. Liv.); antica stirpe lìgure si dìssero i Taurini e gli altri Piemontesi (In alterâ parte montanorum... Taurini ligustica gens aliique Ligures. Strab.); il nome dei Liguri nei Fasti consolari si stende fino ai pòpoli del lago d'Idro (Liguribus Stonis); si stende nelle valli del Taro e della Scultenna, lungo il confine toscano; in una parola, pare diffòndersi dapprima in tutta la valle del Po, il cui più antico nome (Bodinco) è nella lingua dei Lìguri, e a poco a poco ristrìngersi all'Apennino, come di popolo che da vaghe conquiste si raccolga per infortunio di guerra all'asilo nativo. Perciò non diremo che gli aborìgeni dell'Apennino e delle Alpi fòssero d'un'ùnica stirpe o d'un'ùnica lingua; questo nome poteva indicare un nodo posteriore di religione, di conquista o di federazione; poteva aver cominciato da loro; poteva aver cominciato da noi. Un decreto del Senato Romano, scritto 117 anni avanti l'era nostra, nel comporre una controversia di confini nella Liguria, annovera certi fiumi, che sèmbrano nella stessa lingua in cui sono molti nomi di luoghi del nostro paese: (fluvius Neviasca, Veraglasca, Tutelasca, Venelasca). Poco sappiamo di quelle antiche genti, non illustri in arti e in lèttere; ma pare che avèssero lontane relazioni nell'Iberia e con varj luoghi del Mediterraneo; pare che sin d'allora coltivàssero a ronchi le pendici dei monti, che munìssero di mura le loro castella, in ciò mostràndosi al tutto diversi dai Germani e dai Celti. Erano robusti, onde si diceva che gràcile Lìgure valeva più che fortìssimo Gallo; erano valenti frombolieri; portavano scudi di rame; onde alcuni li giudicàrono Greci (Quia æreis scutis utuntur Græcos eos esse ratiocinantur. Strab.); onoràvano un Dio Pennino, e gli intitolàvano i più alti monti; ma questo nume era commune ai popoli cèltici, come il Dio Camulo e il Dio Bèrgimo, il Dio Tillino e il Dio Nottulio; commune coi Celti era in alcuni di loro il costume dei lunghi capelli (Ligures capillati); Walckenaer nota una naturale loro alleanza con quelle nazioni. E finalmente i dialetti della Liguria vivente hanno la proprietà commune ai nostri dialetti e ai piemontesi, e a nessun altro d'Italia, dei due suoni gàllici dell'u e dell'œu. – Diremo adunque che il più antico vìncolo di lingua e di costumi fu tra il nostro paese e la Liguria; e che sembra già invòlgere un più lontano nodo coi Celti.
Se verso il Ticino i nostri aborìgeni si collegàvano ai Lìguri, verso le valli dell'Ollio e dell'Adige, il nome degli Orobj trapassava confusamente in quello degli euganei, gente antica (præstantes genere Euganeos. Plin.), fondatrice di molte pìccole città (quorum oppida xxxiv enumerat Cato. Plin.), e aveva tutto il paese che si stende fino al mare.
Lungo il basso Po fiorìvano anche gli umbri, aborìgeni pure, e tenuti i più antichi d'Italia (Umbrorum gens antiquissima Italiæ. Plin.); e avevano empito di città (trecenta eorum oppida. Plin.) le valli del Tebro, e i gioghi dell'Apennino, e la marina ove discende il Po, sino al Monte Gargano. Èbbero arti e lèttere e monumenti; e l'ìndole loro era tale che potèrono intrinsecarsi coi pòpoli d'ambo le estremità d'Italia; onde ad alcuni pàrvero congèneri ai Latini ed agli Etruschi, ad altri pàrvero Pelasghi, ad altri Galli, non ostante l'uso non gàllico di murare le città mìnime; e si volle che ne venisse ai pòpoli della nostra pianura il nome d'Isombri o di Symbri, dato dai Greci, non però dagli Italiani, agli Insùbri. Ma questi scrittori, fra i quali Amedeo Thierry, non conoscèvano quella radicale differenza di dialetti che distingue l'Umbria Tiberina dalla Marìtima; nella quale soltanto, e per posteriore influenza dei Senoni, rimàsero vestigia di Celti. Onde se uno scrittore antico, ripetuto poi da tutti, li disse propàgine di Galli, dinotò forse solo il nesso loro coi pòpoli dell'alta Italia.
Ma i veneti approdati dall'Asia si èrano annidati nei porti della Laguna. Avèvano lingua propria (sermone diverso utentes. Polyb.); e questa, nel trasmutarsi in dialetto latino, conservò quella mìnima varietà e somma dolcezza d'articolazioni, per cui fa quasi un'isola linguistica fra gli aspri dialetti che si pàrlano lungo il semicerchio delle Alpi. Il che palesa assurda l'opinione che i Vèneti fòssero un ramo divelto dall'àrbore slavo (ein abgerissener Zweig der grossen Volkstammes der Slawen. Mannert); poichè la stirpe slava, al contrario, spiega in tutte le sue favelle la màssima attitùdine a moltiplicare e variare i suoi orali, sicchè si potrebbe ben appellarla, fra tutte, la nazione pronunciatrice.
Una colonia orientale, sotto il nome di pelasghi approdata alle foci del Po, vi aveva fondato Spina; poi si era insinuata fra gli Umbri; e quindi per tutta l'Italia meridionale, propagando istituzioni religiose e civili, e stringendo forse quel nesso linguistico che congiunge il latino al greco, ed entrambo alle riposte orìgini indo-perse.
IX.
Gli etruschi, le cui memorie cominciàvano milleducento anni avanti l'era nostra, si dicèvano venuti dalla Lidia; ma Dionisio, nato in quelle parti, li giudicò diversi da qualunque altra gente per lingua e costume. Onde, forse non venne dall'Asia il pòpolo etrusco, ma solo il consorzio sacerdotale, che ammaestrò le ingegnose tribù aborìgene, e piegò ad uso loro le forme indubiamente orientali della scrittura etrusca, lasciando sopravìvere dei costumi nativi tuttociò che non ripugnava alle grandi iniziazioni sociali. Compiuto l'ordinamento delle dòdici repùbliche di Toscana, la lega etrusca, progressiva allora come vediamo oggidì le nazioni che rièmpiono di loro colonie l'Amèrica e l'Africa, spinse le armi al di qua dell'Apennino fino all'Adige e alle Alpi, fondando altre dòdici città. – Ma se ciò è vero, non si può spiegare come la terra toscana dischiuda tanto tesoro di sculture, di pitture e d'iscrizioni, e nulla di ciò si scopra fra noi. Forse il dominio etrusco fu qui poco più che mercantile e fluviale; onde Adria, ìsola delle lagune e città più marina che terrestre, ha bensì qualche reliquia di vera città etrusca; ma Màntova e Fèlsina e le altre, per opposizione degli aborìgeni o per altrui rivalità, non vènnero a quella cultura ed eleganza onde fiorìrono le interne sedi della toscana potenza. E in vero, pare istoria di rivalità moderne quella ove leggiamo: "E se l'un pòpolo (l'etrusco) tentava spedizioni verso qualche gente, l'altro (l'umbro) si studiava impedirla; onde avvenne che i Tirreni avendo mandato un esèrcito contro i Bàrbari litorani del Po, e avendo vinto, e dopo essèndosi nell'abondanza rilassati, gli Umbri li assalìrono. Dal che avvenne che in quei luoghi si stabilìrono colonie tirrene ed umbre, delle quali maggiori fùrono le umbre, per la vicinanza maggiore di questi pòpoli".
Niebuhr, nel derivare il pòpolo toscano dalle Alpi, non osservò che i monti, su cui la lega etrusca pose le sue mura suntuose (jugis insedit etruscis, Virg.), hanno mediocre altezza, e i loro continui gioghi fanno quasi un'alta via tra valle e valle. Al contrario i nostri monti prealpini hanno cime alte, fredde, inabitàbili, che divìdono le terre e non le collègano; e le valli appartate, anguste, non consèntono grandi aggregazioni di pòpoli, e molto meno in tempi senz'agricultura e commercio. Non sono questi i luoghi ove le menti potèvano avvicinarsi e scaldarsi, e inventar leggi senza esempio e arti senza modello, così lungi dal mare e dalle vie degli altri pòpoli civili. Se anche fosse vero che gli Etruschi fòssero venuti dai nostri monti, il che non è avvalorato da monumento alcuno, nè dall'aspetto e dall'ìndole dei pòpoli, nè dal testimonio delle lingue, ancora sarebbe solo una materiale derivazione dei corpi, e non delle idèe, delle leggi, della società; ossìa di ciò appunto che giova sapere.
Ma da qualunque punto si fosse mossa, codesta lega anseàtica dell'evo antico teneva tutti i punti dell'Italia e delle ìsole, e involgeva co' suoi commercj, co' suoi riti, col suo diritto delle genti le tribù aborìgene, in tempi anteriori all'era ìtalo-greca. Anzi pare che intraprendesse grandi òpere alle foci del Po, e costruisse i primi àrgini sulle sue rive.
X.
La civiltà era dunque surta per noi tremila anni sono, fra il commercio dei Liguri, deli Umbri, dei Pelasghi, degli Etruschi. L'arte di murare, ignota allora oltralpe, la pittura, la modellatura, l'uso di convìvere nelle città con gentili costumi e pompe eleganti e spettàcoli ingegnosi, di contrasegnare con monumenti le vicende della vita pùblica e privata, di decorare con veste religiosa i provedimenti intesi al progresso dei pòpoli, avrèbbero in poche generazioni elevato a quasi moderna cultura il nostro paese; e la navigazione tirrena l'avrebbe congiunto a tutte le genti civili. La cultura del frumento era diffusa tra noi col culto di Saturno; i colli èrano adorni di viti; e già il commercio recava ai bàrbari d'oltremonte questi dolci frutti della civiltà. Ben altra sarebbe l'istoria d'Europa, e tanti sècoli non sarebbero trascorsi stèrili e ciechi alle genti del settentrione, se gli Etruschi avèssero propagate sin d'allora lungo il Reno e il Danubio quel loro vivajo di città, generatrici di città. Il principio etrusco era diverso dal romano, perchè federativo e moltìplice poteva ammansare la barbarie senza estìnguere l'indipendenza; e non tendeva a ingigantire un'ùnica città, che il suo stesso incremento doveva snaturare, e render sede materiale d'un dominio senza nazionalità.
XI.
Èrano già corsi seicento anni dai primordj dell'era etrusca, e mancàvano ancora altretanti ai primordj dell'era cristiana, quando una grave e durèvole calamità fermò il corso del nostro incivilimento, e differì di quattro sècoli lo sviluppo dell'intelligenza umana fra noi. Prima che la consuetùdine colle città etrusche avesse terminato d'ingentilire i circostanti aborìgeni, cominciò ad inoltrarsi fra noi un altro principio sacerdotale, che dalle arcane sue sedi nell'Armòrica e nelle Isole Britànniche dominava vastamente una famiglia di nazioni, varie di lingue e d'orìgine, ma tutte simili nell'inculto costume, e comprese dagli antichi sotto il nome di Celti.
I Drùidi non ergèvano, come gli Etruschi, i loro altari in suntuosi recinti di città consacrate, ma nei recessi di vietate selve; e non volgèvano la religione a sollievo ed ammaestramento della vita, ma col terrore di secrete dottrine tramandate da bocca a bocca, e con riti crudeli, incatenàvano i pòpoli a una prima forma d'improgressiva civiltà. Immolàvano vìttime umane; ora ardendo vivi i proscritti e i prigionieri entro masse di fieno e di legna, disposte a qualche forma di simulacri colossali (fœni colosso... defixo ligno. Strab.), ora consegnàndoli a furibonde sacerdotesse, che li scannàvano sopra certe caldaie di rame, e ne raccoglièvano in nefande pàtere il sangue. Altre maghe, tutte dipinte di nero, scapigliate, nude, con faci in mano, celebràvano riti notturni; altre, che si chiamavano le Sene, facèvano vita solitaria sugli scogli del mare, pronunciando nel furore delle tempeste temuti oràcoli. Le vite si redimèvano col sacrificio d'altre vite; e i Drùidi ne facèvano mercato coi guerrieri arricchiti dalla vittoria; onde nelle selve sacre si accumulàvano grandi tesori, che giacèvano all'aperto custoditi dal terrore del luogo o sommersi nelle temute aque dei sacri stagni (¤ n ß e r a Ý w l Û m n a i w . Strab.). Tutta la dottrina druìdica instillava il disprezzo della morte; e teneva le menti così fisse nel pensiero d'un'altra vita in tutto sìmile alla terrena, che alcuni dàvano a prèstito, con patto d'èssere pagati nell'altro mondo. Alla morte dei capitani si abbruciàvano col cadàvere i cavalli; e talora i seguaci prediletti (servi et clientes quos ab iis dilectos esse constabat, unâ cremabantur. Cæs.); talora le spose, per affettato sospetto di veleno. Ne tenèvano anche più d'una; e avèvano sovr'esse e sulla prole diritto di vita e di morte (In uxores... in liberos vitæ necisque... potestatem. Cæs.), e per provare la loro fedeltà, i gelosi e fanàtici guerrieri talora legàvano l'infante a una tàvola, e lo gettàvano tra i gorghi d'un fiume; e se periva, lo avèvano per giudizio divino di non legìtima origine, e pugnalàvano la novella madre; la quale giaceva, durante la stolta prova, nella più tremenda angoscia. Il padre non si curava altrimenti dei figli, nè si degnava ammètterli al suo cospetto, finchè non avèssero età da comparirgli inanzi armati; onde era quello un vìvere senza alcuna domèstica dolcezza.
I combattenti decapitàvano sul campo i nemici caduti, e ne ostentàvano i teschj confitti sulle lance, o appesi al petto dei cavalli. Ogni casa nòbile li serbava in un'arca, nè a peso d'oro ne consentiva mai il riscatto (neque si quis auri pondus offerret. Strab.); e ogni generazione si pregiava di recare altri crani ad ingrossare quel tesoro di barbara gloria. I teschj più illustri, legati in oro, stàvano nei templi ad uso delle sacre bevande. Alle porte delle case s'inchiodàvano teste di lupi e d'altre belve; onde agli Itali e ai Greci, i quali solèvano rimòvere religiosamente dalle città ogni avanzo di morte, se ponèvano il piede in un casale di Celti, pareva d'entrare in uno squàllido ossario.
Vivèvano di pastorizia o d'instàbile agricultura, senza città, senza privato possesso, in clani, o communanze di famiglie, ripartite numericamente sulle terre, come un esèrcito sotto le insegne, col dèbito di conferire certe misure di grano e di birra e certo nùmero di montoni e di porci alla mensa del brenno, ossìa prìncipe. Dimoràvano all'aperta, e per lo più lungo le aque, in tugurj rotondi, costrutti di tàvole e graticci e terra pesta e con acuto tetto di strame; non si curàvano di supellèttili, dormìvano sulla paglia; mangiàvano a tàvole rotonde assài basse, sedendo sopra manìpoli di fieno, coi loro scudieri seduti in altro cìrcolo dietro ai signori; bevèvano in giro a pìccole e frequenti riprese, in una sola conca di terra o di metallo; appena conoscèvano il pane; mangiàvano molta carne; e ciascuno "ne prendeva a due mani un gran pezzo, e lo addentava come un leone" (l e o n t v d Ç w t a Ý w
x e r s Ü n Ž m f o t ¡ r a i w a à r o n t e w ÷ l a m ¡ l h , k a Ü Ž p o d ‹ k n o n t e w . Posid. ap. Ath.); dopo il convito si provàvano in duelli, che spesso èrano mortali, nè altra pare l'orìgine dei gladiatori che tardi s'introdùssero fra i Romani. Sulle persone loro facèvano pompa d'armi dorate, di collane e braccialetti d'oro, di tracolle lavorate in argento e in corallo, strascinando al fianco destro lunghe sciàbole, talvolta di rame temprato; portàvano saj vergati di splèndidi colori, e grandi scudi quadrilunghi con imprese gentilizie, rozzamente dipinte o intagliate; e sopra gli elmi affiggèvano figure d'augelli o di fiere, o alte corna di bùfali o di cervi, e grandi pennacchj ondeggianti; nutrìvano lunghi mustacchi e lunghe chiome tinte in rosso; e alcune nazioni si dipingèvano d'azzurro le braccia e il petto; combattèvano più sui carri che sui cavalli. Talora nelle battaglie, per insultare il nemico, o per brutale audacia, o per disperazione, gettàvano l'elmo e il sajo, e combattèvano nudi; tanta era l'esaltazione cavalleresca, nutrita in quelle rozze menti dalle memorie dei feroci antenati, ripetute dai bardi adulatori, che coll'arpa in collo erràvano di casale in casale. – Tutte queste usanze di tàvole rotonde, di scudi blasonati, di cimieri, di trovatori, di duelli, e di prove dell'aqua e del foco, non estinte nelle Isole Britànniche e non obliate mai del tutto nelle Gallie, ripullulàrono nella nuova barbarie del medio evo; e ne scaturì quella poesìa romanzesca, che i freddi poeti legàrono in rima.I Drùidi, paghi di tener sotto il terrore dei loro misterj e delle formidàbili loro maledizioni molte bàrbare tribù, e di tesoreggiarne le lontane prede, non si curàrono mai di partecipar loro quella qualunque scienza che avèvano; nè sapèvano tampoco tenerle in pace, onde tutta la terra cèltica era un campo di discordia, di rapina e di sangue (In omni Galliâ factiones. Cæs.). Uscìvano tratto tratto da quel perpetuo tumulto le tribù più mìsere o le più audaci, e andàvano altrove in cerca di preda o di terre, ove pasturar bestiami, o spàrgere le passeggere sèmine d'un'agricultura vagabonda. Pare che la mano arcana dei Drùidi reggesse quelle lontane spedizioni; poichè dalla sede dei loro collegj le turbe conquistatrici si èrano precipitate in Ispagna, in Italia, sul Bàltico, in Boemia, lungo il Danubio, insultàvano agli Dei della Grecia in Delfi, s'accampàvano sull'Ellesponto, e preludendo alle crociate dei loro pòsteri, fondàvano un regno gàllico nell'Asia Minore.
XII.
Ma se i Celti non amàvano chiùdersi nelle città, non si può dire che le odiàssero e distruggèssero con quello stolto furore che mille anni più tardi si vide nei Vàndali e negli Unni Scorrendo velocemente fra città e città, forse perchè non sapèvano come espugnare quei ricinti di pietra (Gens ad oppugnandarum urbium artes rudis... segnis intactis assideret muris. Liv.), andàvano a sorprèndere genti lontane, e tornàvano onusti di preda. Quando poi le terre giacèvano desolate e derelitte, allora qualche tribù dimandava di potersi accasare con patti di pace su quegli spazi, che altri inutilmente possedeva (egentibus agro quem latius possideant quam colant... partem finium concedant. Liv.). E così le antiche città itàliche rimanèvano come ìsole solitarie in mezzo a lande, sparse di bàrbari casali; e potèvano udir senza spavento dalle mura le strane voci e i càntici di guerra. Laonde, quando gli Etruschi, dopo aver lungamente conteso ai Galli le nostre pianure (cum Etruscis... inter Apenninum Alpesque sæpe exercitus gallici pugnavere. Liv.), si ritràssero nelle castella alpine, non solo Màntova, Adria, Ravenna, Arìmino rimàsero salve, ma forse lìbere, o per noncuranza cavalleresca dei bàrbari, o per condizione di pace, o per qualche antico nodo di religione o di sangue che i nostri aborìgeni avèssero già con quelli dell'altro declivio delle Alpi. Màntova si conservò divisa in tre stirpi, tra le quali la più potente rimase quella degli Etruschi (Mantua tres habuit populi tribus, et robur omne de Lucumonibus. Serv.). Melpo fu distrutta, ma solo due sècoli dopo. E in poca distanza delle antiche città mercantili, i Galli elèssero le sedi dei loro brenni e delle loro adunanze militari; cioè Beloveso, poche miglia a ponente di Melpo, in un casale posto là dove il torrente Sèveso, giunto sul piano palustre, prendeva forma di continuo e plàcido fiume; e gli diede il nome di Mediolano, commune a diversi altri luoghi delle Gallie e della Britannia (Mediolanum, pagus olim; nam per pagos habitabant. Strab.), e il nome di Breno rimase a una terra presso la città di Bèrgamo, e ad un'altra presso la città dei Camuni (Cividate), e ad altri luoghi del nostro paese. – È uno stato di cose che si vede tuttodì nell'Asia Minore, nell'Armenia, nella Persia, dove le città dei mercanti o degli artèfici hanno diversa lingua, e spesso diversa religione dalle orde pastorali dei Turcomanni o dei Beduini, che si attèndano nelle circostanti campagne. – Così si visse tra noi per quattrocento anni.
XIII.
Le orde gàlliche, varcato con zàttere il Po, stabilite le tribù dei Boi e dei Senoni intorno a Bononia e Sena Gàllica, còrsero lungo l'Adriàtico, spogliàrono persino le città Italogreche, penetrarono pei monti in Etruria; colla stranezza delle armi e la furia degli assalti abbagliàrono le legioni; e accampate nelle vie deserte di Roma e sui monti d'Alba e di Tìbure, e andando e venendo per la via gàllica, devastarono il Lazio per diecisette anni. Ma nel calpestare quell'angusta striscia di terra non sapèvano che vi avesse radice quell'irresistibile principio, che dilatàndosi avrebbe in poche generazioni divorato in Europa e in Asia la potenza e la gloria de' Celti.
Roma ben presto si agguerrì a nuovi modi di vittoria. I Cisalpini, inferociti nei disastri, si collegàrono con tutti i suoi nemici, Etruschi, Umbri, Sanniti; ma sempre soccumbèvano alla disciplina delle legioni e alle arti del Senato. Fra le discordie gàlliche i Romani si apèrsero il varco del Po; coll'aiuto degli Anàmani tragittárono sulla nostra pianura (223 a. C.); ma non potèrono farsi strada, nè tener fermo; patteggiàrono e retrocèssero. Poi tosto, per accordo coi Cenòmani, aperti i passi del Mincio, dell'Ollio, dell'Adda, irrùppero repentini nell'alta Insubria, trucidàrono le genti disperse ne' campi. I pòpoli sùrsero in armi; tràssero dal tempio della Vèrgine gl'immòbili vessilli d'oro (aureis vexillis quæ immobilia nuncupant. Polyb.); sostènnero con forze non intere un'aspra battaglia. L'anno seguente, il brenno Virdumaro e il cònsole Marcello s'incontràrono sul campo di Clastidio; si riconòbbero allo splendor delle divise; il cònsole trucidò il re nemico; passò il Po; sottomise Mediolano; portò in trionfo l'armatura dell'ucciso. Roma pose due colonie di veterani in Piacenza e Cremona; ma fùrono tosto fieramente combattute.
Comparve in quel mezzo Annìbale a piè dell'Alpi; si vìdero tra le foreste del Ticino le seminegre tribù del deserto. A quell'annunzio duemila Cisalpini, che costretti militàvano nel campo de' Romani, si lèvano notturni, ne fanno strage, pòrtano ad Annìbale i teschj sanguinosi. Su la Trebia, gl'Insubri combattèvano per Cartàgine; i Cenòmani, per Roma. Sessantamila guerrieri, accorsi in pochi giorni al grido della vittoria, sèguono Annìbale in Toscana. Al Trasimeno, l'insubre Ducario getta di sella e uccide il cònsole Flaminio. A Canne, fra cinquantamila soldati d'Annìbale, trentamila èrano Galli; e deliberati di far disperata prova, vènnero nudi sul campo (Galli super umbilicum erant nudi. Liv.); quattromila vi lasciàrono la vita; ma i cadàveri dei Romani, in quell'orrenda giornata, fùrono sessantamila. – Quando Amìlcare venne in Italia, altri Cisalpini lo seguìrono; altri seguìrono Magone sbarcato a Gènova; altri seguìrono Annìbale in Africa, e morìrono a Zama. Venuta la pace, ancora un venturiero africano adunava sul Po quarantamila guerrieri, distruggeva Piacenza, assediava Cremona, cadeva con tutti i suoi. Un'altra battaglia si perdeva sul Mincio per nemicizia dei Cenòmani; in un'altra perìvano più di quarantamila Insubri; restàvano sul campo centinaja di bandiere, centinaja di carri da battaglia, splèndide collane d'oro (Liv.); Como era presa con ventotto castella de' suoi monti; un'altra giornata si combatteva sotto Milano; tre esèrciti romani insanguinàvano ad un tempo la valle del Po; la resistenza era indòmita; più volte le legioni vènnero conquise e trucidate; ma parèvano risurgere dai sepolcri; e omài rimanèvano agli esàusti Cisalpini solo i vecchj e i fanciulli. Ma quando Scipione entrò, con insegne spiegate, a mèttere i coloni romani in possesso delle divise campagne, i supèrstiti delle 112 tribù de' Boi non rèssero all'amaro cordoglio, si mòssero in turba, e varcate le Alpi Nòriche, si dispèrsero nelle selve del Danubio. Fra l'eccidio dei Senoni e la dispersione de' Boi, la stirpe degli Insubri sopravisse (Senones... deleverunt... Boios ejecerunt... Insubres etiam nunc existunt. Strab.).
La guerra arse ancora negli Apennini Lìguri; la conquista di quel palmo di terra costò più di quella dell'Asia; Roma, non sapendo come mutar l'ànimo di quegli uòmini indòmiti, ne trasportò quarantamila in Apulia. – Più lunga arse la guerra nelle nostre valli alpine, sulle quali i pròfugi Etruschi avèvano diffuso il nome commune dei Reti. Anche dopo la sommissione della pianura, si difèsero per un sècolo e mezzo, dalle pòvere montagne scendendo a depredare la pianura (Lepontii, Tridentini, Stoni et aliæ complures exiguæ gentes latrociniis deditæ et pauperes. Strab.). Nel 164 (a. C.) un Tiberio penetrò in Val-Camònica; nel 128 un Marzio vinse gli Stoni; nell'85 i Reti incendiàrono la colonia romana di Como; nel 42 fùrono sconfitti da Planco; nel 16 Silio domò del tutto i Camuni e i Vennj; i Trumplini furono venduti all'asta e dispersi in catena; l'anno seguente i due fratelli Nerone e Druso compìrono il loro trionfo sui Reti. La via dei laghi e delle alpi era aperta per sempre (Iter supra montes... otim superatu difficile... nunc tutum et expeditum... latronum excidio, viarum structurâ. Strab.).
Fino a quel tempo le invasioni cèltiche e anche quella dei Cimbri e dei Tèutoni, se non giungèvano a farsi strada per le Alpi occidentali, giràvano pel Reno e per l'Inn fino alle fonti dell'Adige o alle Alpi Nòriche; la doppia fossa dei laghi nostri e degli elvètici e la fierezza dei pòpoli chiudèvano le alpi a noi vicine. Già fin d'allora i Reti èrano nelle valli dell'Inn, e gli aborìgeni tèutoni in quelle del Ròdano e del Reno (Obsepta gentibus semigermanis... Veragri incolæ. Liv.).
XIV.
Ma molto avanti quell'ùltima conquista, già le nostre pianure èrano comprese nel nome e nella legge d'Italia; nelle città nuove, in Placentia, Hostilia, Laude Pompeja, Ticino, tutto era romano; le antiche, o come colonie o come municipj, èrano ascritte alle tribù del generoso pòpolo, alla Fabia, all'Ufentina, alla Voltinia, alla Sabatina; suntuose vie militari, tratte a immensi rettilinei, le congiùnsero tra loro e con Roma. – Cèsare aveva atterrato l'imperio dei Drùidi, disperse le caldaje insanguinate e le fanàtiche sacerdotesse; le sacre selve dell'ìsola di Man, ov'era il gran collegio, fùrono incendiate da Paulino. Le colonie romane intorno al Reno, Còira, Costanza, Augusta, Basilèa, Strasburgo, Spira, Vormazia, Magonza, Trèveri, Aquisgrana, e quella che per eccellenza si chiamò Colonia e divenne poi la madre delle città anseàtiche, fùrono le fondamenta al tutto itàliche di quella nuova Germania, che dopo la linea del Reno s'inoltrò successivamente a quelle dell'Elba e dell'Oder e della Vìstula, apportando a quei pòpoli la vita della civiltà, e il retaggio dell'intelligenza, non bramato nè conosciuto dai loro padri. I canali di Druso e di Corbulone insegnàrono ai Bàtavi come crearsi una terra fra le acque del mare. – Allora l'Insubria, che nell'era etrusca era la favolosa frontiera del mondo civile, si trovò co' suoi laghi e i suoi fiumi su la gran via delle nazioni, potè stèndere i suoi commercj alle Isole Britànniche e all'Egitto, a Càdice e al Mar Nero.
I Romani risuscitàrono il principio etrusco, dièdero ai municipj un'autorità su le campagne; le famiglie opulente non vìssero più in solitarj casali, ma in città piene di commercj e di studj. "Quanta sia la bontà di quella regione si può giudicare dalla frequenza degli abitatori, e dalla ampiezza e opulenza delle città; nelle quali cose i Romani di quelle parti sovràstano a tutti gli Italiani" (Strab.). Troviamo ancora nelle làpidi di quel tempo, i nomi delle famiglie insùbriche, scritti con romano costume; Albucio figlio di Vindillo, Banuca figlia di Magìaco, Surica di Dunone, vestigia d'un passato che si va dileguando. La legge romana sostituì all'incerta communanza cèltica il diritto di piena proprietà; e così propose alle famiglie le grandi aspettative del futuro, le animò alle grandi òpere territoriali, alle irrigazioni, agli scoli. Le antiche arginature etrusche si prolungàrono lungo l'alveo del Po; già Lucano le descrive. L'Insubria, già vastamente irrigua (ob aquæ copiam, milii feracissima. Strab.), si coperse di ubertosi poderi, che consèrvano ancora i nomi delle famiglie innovatrici: Campagne-Valerie, Villa-Pompejana, Isola-Balba, Balbiano, Corneliano, Albuzzano. Represso l'uso delle prede, gli armenti celati nelle Alpi scèndono al piano; la palude abitata da feroci cignali diviene plàcida praterìa, dove i garzoni di Virgilio àprono e chiùdono i rivi. I colli fioriscono d'àrbori fruttìferi (planities felix... collibus fructiferis. Strab.); la vite delle Alpi Rètiche acquista grido; il ciriegio, il pèrsico, il cotogno, il pomo d'Armenia sono propagati dai giardinieri romani; il castagno dell'Asia Minore sale a nutrire i pòpoli fin sulle cime dei monti; l'olivo, che ai tempi di Beloveso era ignoto in tutta l'Italia, fa molle contorno ai laghi, coltivato forse dagli agricultori greci che Cèsare chiama sul Lario, e che ripétono nei nostri villaggi i nomi di Corippo, di Plesio, di Picra, di Lenno, di Delfo, dei Corinti e dei Dori.
Ma più ìntima e più durèvole fu la mutazione che la legge romana introdusse nella vita domèstica, annunciando alle bàrbare stirpi i sacri diritti delle spose e della prole, i doveri dell'educazione, la providenza delle tutele, la libertà dei testamenti, limitata dalle aspettative delle legìtime eredità. L'ideale della matrona romana non uscì dai serragli dell'Oriente, nè dai ginecèi della Grecia, nè dalla càmera servile e dalla turpe morganàtica dei Celti e dei Goti; per esso la donna di Virgilio si eleva ad immensa altezza sulle ancelle degli eròi d'Omero; in esso sta il principio che distingue il contubernio dei bàrbari dalla famiglia europèa; è una vasta emancipazione che comprende d'un tratto la metà degli èsseri viventi.
La Cisalpina ebbe adunque leggi, famiglie, municipj, strade, ponti, aquedutti, àrgini, irrigazioni, magnìfici templi de' suoi marmi, terme, pòrtici, ville, delizie d'arti e di fontane, teatri, librerìe pùbliche, grandi scuole, scuole ove imparò un Virgilio. Nè questo è il solo dei grandi Latini che nacque tra il Po e le Alpi; ma Catullo, Cecilio, Tito Livio, Cornelio, i due Plinj. Insigni giureconsulti, molti capitani e magistrati, alcuni imperatori dièdero lustro alle nostre città. Ma lo splendore più puro e più durèvole è quello che le lèttere diffòndono intorno alle sacre dimore dei grandi ingegni. È un dolce e caro orgoglio quello d'incontrare negli scritti ammirati dai sècoli i nomi dei nostri fiumi e dei nostri laghi, del curvo Mella, e del plàcido Mincio, dell'Eupili e di Sirmione, ancora oggidì non bene ìsola, nè penìsola, ma dilettosa selva d'olivi. Nelle valli dell'Adda troviamo ancora i vini rètici, il mele nutrito dalla flora virginea delle alpi; i vasi della verde pietra comense sul torno dell'alpigiano. Possiamo assìderci accanto alla fonte ammirata dal giòvine Plinio, il quale descrive le delizie del suo Lario con quella mano che fu la prima a difèndere, non per senso di propria salvezza, ma di lìbera e generosa giustizia, l'innocenza del costume cristiano.
Tuttociò scaturiva da quel principio municipale in cui presso l'interesse al bene stava l'immediata facultà d'operarlo. Il gran municipio di Roma porgeva agli altri l'esempio d'ogni splèndida cosa. Nè per certo avvenne mai che un pòpolo possessore di sì vasto dominio avesse tanta brama d'immortalarsi con òpere d'universale utilità, nè che la potenza andasse congiunta a tali e sì culte menti, quali si vìdero in Catone, in Cèsare, in Tullio, in Tàcito; nè che uòmini, quali furono i giureconsulti romani, conservàssero per una serie di sècoli dottrina di sapienti e autorità di legislatori.
XV.
Ma s'era quella una prosperità nuova e grande per questa estrema parte d'Italia, trattenuta in barbarie dai Celti, non così poteva dirsi della rimanente penìsola. La guerra sociale aveva abbattuto le bellicose contadinanze della prisca Italia. L'intera patria d'un pòpolo forte vedèvasi talora mutata in una squàllida possessione d'un solo patrizio, che non poteva sfruttarla se non colle braccia degli schiavi.
I Cèsari, come capitani del pòpolo e promotori dell'emancipazione, si èrano recati in mano il comando delle armi, il pontificato, il tribunato e altre dignità divise una volta fra molte famiglie; ma per non alienare l'opinione che aveva dato loro quella potenza, esercitàvano le sìngole parti di quell'accumulata autorità, giusta le antiche fòrmule consacrate dalla religione e dal tempo. – Pur tuttavìa non era confidata loro dai senatori e commisurata, come quella dei moderni dogi; sotto nome e modi di magistrato, era conquista di vittorioso nemico. Nel secreto delle menti patrizie stava una profonda riprovazione, un indelèbile giudizio di illegalità, una ferma memoria dell'antica eguaglianza; epperò tra l'affettata popolarità e le parentele cittadine, il prìncipe confidava sopratutto nelle armi, e viveva nel sospetto. Quindi tutto mirava a inspirare in quelle superbe famiglie uno spìrito togato; i patrizj non dovèvano frequentare gli esèrciti; gli esèrciti èrano relegati lungo remote frontiere, dovèvano conòscere solo i loro capitani; la milizia diuturna, perchè l'Italia non s'empisse di veterani pericolosi; dura e pòvera, per la natura ancor selvaggia dei luoghi; molesta al cittadino, perchè cresciuto alle largizioni, agli anfiteatri, alla lìbera garrulità del foro. Di 120 Milioni di sùdditi che pare avesse l'imperio dei Cèsari, si vuole che soli sette avèssero diritto di Romani; e questi non potèvano dar mezzo milione di combattenti, come si richiedeva a sì disparate frontiere, e a tanti presidj terrestri e marìtimi. Fu necessità ricèvere soldati d'altre genti, la cui mescolanza era nauseosa all'altiero romano. Il moderno principio britànnico di fare una nazione d'officiali e un'altra di gregarj, sarebbe stata più nell'interesse dei patrizj che dei Cèsari. L'esèrcito adunque in poche generazioni non conosceva pòpolo, nè senato; non era più romano; e dopochè qualche conduttiere ambizioso seppe valèrsene per giùngere al soglio, si vide troppo aperto che in tutto l'imperio non vi era altra forza e altra legge che la spada del soldato. In meno d'un sècolo più d'ottanta generali perirono, o nel tentare l'acquisto del regno, o nel difènderne il fugace possedimento.
Allora Severo potè insegnare a' suoi figli che il secreto unico della potenza e della vita era il favor degli esèrciti; e in questa voràgine i suoi successori precipitàrono le finanze dello stato. Dopo il 200 dell'era nostra l'arte di regnare in Roma fu quella sola di trar denaro dagli inermi per saziare gli armati. Le grandi famiglie senatorie si estinguevano; la plebe romana si era sommersa fra più milioni di venturieri, venuti dal Reno e dal Nilo, dal Tago e dall'Eufrate. Bastò un còmputo di finanza, perchè Caracalla accomunasse a tutto l'imperio la condizione di cittadino, e rivelasse al mondo attònito che quel pòpolo non era più; ch'era sparito colla sua favella e colla sua religione, lasciando sotto al suo nome una colluvie d'ogni gente e d'ogni cosa.
Trascinati dal principio fiscale, gl'imperatori del sècolo III non curàrono più le strade e i porti, che avèvano dato un'insòlita vita alle nazioni; le provincie aggravate non èbbero forza di supplirvi; il commercio si arenò; le derrate giacquero inùtili sui campi d'una provincia, mentre in un'altra si moriva di fame. Perìvano i pòveri, impoverìvano i ricchi; àvidi usuraj e magistrati impuni spogliàvano migliaja di famiglie, e per semplicità d'azienda inondàvano i latifondi con turbe di schiavi; gli arati divenìvano inculta pastura; le reliquie dei lìberi agricultori riservate a rinovare in migliori sècoli la nazione, appena si salvàvano nei recessi degli alti monti, che non si ponno coltivare con braccia di servi; le fami, le pestilenze, le fiamme dei bàrbari, le rapine dei masnadieri diradàrono rapidamente l'umana generazione.
XVI.
Intanto nella città si faceva sempre più ardua l'esazione dei tributi; e colla miseria cresceva il frèmito degli esèrciti affamati, e l'acerbità e la disperazione del fisco. I magistrati municipali èbbero a rispòndere del proprio pei cittadini insolventi; fùrono armati di tutti i diritti del fisco, ma occupàvano terre deserte e case cadenti; si ostentò povertà per fuggire i gravosi onori. Allora il fisco li conferiva per forza; prendeva i beni dei magistrati, poi quelli delle mogli, poi citava gli eredi; un collega doveva pagare per l'altro; chi si recava in altra città, veniva cerco e ricondutto. Alcuni si facèvano soldati, e il fisco lo vietò. In poche generazioni quelle magnìfiche signorìe, che ripetèvano con decorosa moderazione nei teatri e nei palazzi dei municipj le lautezze di Roma, èrano un branco di pezzenti gabellieri.
Intanto nelle campagne si numerava e si tassava ogni àrbore fruttìfero, ogni tralcio di vite; la tassa delle piante che perivano, ricadeva sulle supèrstiti; allora il contadino, per sottrarsi alle esazioni, estirpava i frutteti e le vigne; e la legge, che inseguiva l'ombra della fugitiva agricultura, puniva di morte la morte d'una pianta. Se le tribolate famiglie si disperdèvano, la mano della legge le riconduceva in catena; ogni contadino si registrava servo della sua gleba; e surgeva un nuovo modo di servitù, che forse nell'Europa orientale era più antico, e oggidì non vi è peranco estinto. Il demanio, possessore d'intere provincie, le offriva indarno al primo occupante; vi trascinava dal confine i prigionieri bàrbari, che condannati ad un'arte ignota nelle loro patrie, si spargèvano ladroneggiando, e vessando le reliquie dei veri agricultori.
Anche le arti delle città si spegnèvano ogni giorno. Sul principio del IV sècolo, Costantino trovò necessario che ogni uomo salvasse l'arte sua tramandàndola a' suoi figli. Nessuno doveva adunque mutarla, nessuno scèglierla a piacimento; e come il discendente degli antichi signori era assegnato al servigio municipale, e il contadino alla gleba, gli artèfici furono ascritti alla paterna officina, e i nocchieri alla paterna nave; a tutti venne interdetta la milizia; e l'uomo che nasceva per esser soldato si bollava sulla mano; la popolazione fu smembrata in caste; le minute discipline, le aspre pene, gli usi, gli abusi, stabilìrono una generale servitù. Questi èrano gli infelici sùdditi che i moderni istòrici chiàmano ancora i Romani, per dilettarsi a dire ch'erano i vinti. E chi era dunque stato il vincitore?
Intanto i Sàrmati tenèvano presidio nelle inermi città dell'Italia e della Gallia; i Franchi avèvano in guardia, o piuttosto in preda, le frontiere del Reno; i Goti, quelle del Danubio. Gli Alani del Càucaso erano custodi del palazzo imperiale, e gli òrridi Unni della Mongolìa si pascèvano di carne cruda sotto i pòrtici di marmo. I capitani di queste genti, Stilicone vàndalo, Arbogasto franco, Allobego alano, Fràvita goto, Ricimero, Aspare, Ardaburo, èrano i veri signori dell'imperio, perchè il dominio consiste nelle armi, e l'autorità nella consuetùdine e nella fiducia dei prìncipi. Essi facèvano gl'imperatori, li disfacèvano, li uccidèvano. L'ùltimo di quei simulacri di regnanti fu Ròmulo Augùstulo, figlio d'un Oreste, venuto non si sa di qual nazione, e scriba d'Attila. – Infine le truppe mercenarie, morendo di fame ai confini, cominciàrono a internarsi; si confùsero colle orde che dovèvano respìngere, e colle quali avèvano communanza di sangue e d'interesse; si prèsero, in luogo d'imposta prediale, una parte delle terre cogli schiavi e col bestiame che rimaneva. E poichè la milizia si era così proveduta da sè, i tributi fùrono inùtili; l'òpera della distruzione era compiuta.
Già fin dal 400 i nostri municipj èrano a tale che S. Ambrogio li disse cadàveri di città. – Eppure il gran flagello di Dio non era ancora venuto.
Ancora dopo il passaggio d'Attila, la nostra Insubria nutriva qualche favilla di studj; e in Pavìa nasceva Boezio che i Goti uccidèvano. Milano, sola forse tra tutte le città dell'impero, si levò in armi contro i Goti, per vana speranza ch'ebbe di soccorso da Costantinòpoli, la quale a difènderla inviava il goto Mùndila. E il traditore spariva nel momento del perìcolo; e i Goti, ingrossati dai Burgundi, trucidàvano tutti quelli che non si salvàrono nei monti e nelle paludi. La città nostra giacque smantellata, le vigne, gli orti, i broli, persino i paschi si dilatàrono fra le sue ruine, e lasciàrono nomi di dolorosa memoria alle piazze e alle vie; e rimàsero intorno alla squallida cerchia le sole basìliche, fondate sugli antichi sepolcreti, e risparmiate dai distruttori bàrbari, più forse che non dai pòsteri ristauratori.
Sette sècoli dopochè la nostra terra era sottratta alla communanza cèltica, e consegnata ai municipj romani, tutta quell'òpera di civiltà pareva distrutta. Ancora Bèrgamo stava solitaria sul suo monte, e Màntova fra le sue paludi; e in mezzo alla campagna derelitta, si accampava in un recinto di legno qualche squadra d'Èruli e di Goti, a cui la sorte (lot, loos) aveva assegnato i pochi rùstici e i pochi bestiami, che sopravivèvano su la vicina gleba. – Nei tempi anteriori, il Celta viveva cogli uòmini della sua discendenza e del suo nome, aveva nel clano una mòbile patria; e infine per ancorarsi a questa feconda terra aveva confitto in luogo sacro gli immòbili vessilli. Ma Ricimero, Stilicone, Odovacre, Clodovèo, Hastingo, Rollo, Guglielmo, Tancredi, erano venturieri senza patria, che o giuràndosi a fortùiti capitani, o traendo seco fortùiti seguaci, pronti a difèndere qualsìasi padrone, a parlare qualunque lingua, a onorare qualunque Dio, non altra legge seguìvano che quella della privata fortuna. Così, dopo che la fiscalità bizantina aveva annientato ogni umana libertà e dignità, quei lacci venìvano rotti dall'opposto principio d'un ferino egoismo, che sprezzava ogni vestigio di civile convivenza, e riduceva tutti i doveri dell'uomo a un patto di preda fra un capitano e i suoi compagni.
XVII.
Ma in quelle città disfatte stava il germe d'una nuova e più ìntima associazione, che nel nome d'un solo Dio e nella parola d'un solo libro aspirava a ricongiùngere tutte le nazioni d'Europa. Quando l'antico patriziato fu estinto, e fu tronca la tradizione dei riti familiari, confiscata la terra sacra, gettato alla fornace il bronzo dei simulacri e il marmo dei templi, sola rimase fra quella spaventèvole dissoluzione la società dei Cristiani, che in Occidente era pìccola e oscura, e ristretta a pochi borghesi, forse di patria orientale e i più di greco nome. L'antica sapienza civile in mezzo a tanta miseria pùblica doveva smarrirsi; non poteva più dire come nel mondo vi fosse un principio regolatore delle umane cose. Ma nella contemplazione d'un òrdine sovrumano, le sventure divenìvano prove e occasioni di virtù; e un'intera vita d'indegno dolore diveniva parte e condizione d'un'immortale esistenza. Si dièdero intieramente a questi pensieri tutti i più fèrvidi intelletti. Milano, sede imperiale, e fino all'arrivo d'Attila meno mìsera delle altre città d'Italia, albergava Augustino nativo dell'Africa, e Ambrosio nativo delle Gallie; i quali, e per dottrina, e per nome, e per virtù, appena si accostàrono alla società dei Cristiani, ne divènnero i più autorèvoli capi. Felice, Bassiano, Stèfano, Filastrio reggèvano la nuova fratellanza in Como, in Lodi, in Cremona, in Brescia; le famiglie fuggitive la disseminàrono fra i palustri ricòveri della pianura e nelle interne montagne. Ma fu mestieri di quattrocento anni per troncare del tutto le tradizioni aborìgene; alla fine del secolo VIII il culto di Saturno sopraviveva ancora nell'estrema Val-Camònica (in curte Hedulio); e le tribù dell'etrusca Màntova èbbero una propria congregazione episcopale solo al principio del secolo IX.
XVIII.
La religione cèltica aveva le sue sedi nelle foreste, la romana nelle mura dei municipj; e nei municipj le successe la cristiana; il vìncolo morale fra le campagne e le città si conservò adunque ad onta dell'occupazione barbàrica. Al risùrgere della civiltà tutti i pòpoli, i cui sacerdoti erano ordinati a Milano, a Brescia, a Pavìa, divènnero i Milanesi, i Bresciani, i Pavesi. Queste minute nazionalità cancellàrono ogni vestigio delle più antiche divisioni; nè più l'alpigiano si segregò dalla pianura, come al tempo degli Orobj e dei Reti. Pavìa divenne capo delle popolazioni che dal basso Ticino salìvano sino ai gioghi degli Apennini; Milano, dalle campagne del Po sparse il suo rito ambrosiano fino ai ghiacci del Gottardo; Como penetrò vastamente per le valli, dalle fonti del Ròdano fino a quelle dell'Adige; e quivi si trovò in confine con Brescia, ch'ebbe le valli dell'Ollio, del Clisio e del Mella. Bèrgamo seguiva tutto il corso del Brembo e del Serio fin presso Cremona; e i suoi confini s'intrecciàvano intorno a Crema con quelli di Piacenza e di Lodi. I dialetti che prima esprimèvano la sola origine dei pòpoli, si risentìrono di questi riparti municipali. Presiedeva alle chiese delle città minori il vèscovo della maggiore; e perciò Milano ebbe primato in tutta la Liguria e la Rezia, da Gènova fino a Còira, e forse a Costanza; ma le successive calamità e poi le inimicizie municipali rùppero quei vìncoli; e Como, per sottrarsi quanto poteva alla prepotente vicina, preferì di sottostare al lontano patriarca d'Aquileja.
Perlochè queste nostre città, piuttosto che cadàveri, erano corpi tramortiti. Tutte le preci, tutte le scritture èrano nella lingua che i Romani avèvano dato all'Europa; il nostro vulgo colla sua proferenza cèltica mutilava le voci latine; ma in quel dialetto poteva intèndersi col vulgo vicino; e da plebe a plebe v'era in potenza una lingua commune a tutte; le favelle della penìsola non èrano più così disparate come l'etrusca, la latina, la greca. V'èrano case e chiese, e avanzi ed esempli di strade, di ponti, di mura; la vite era salita fino alle Alpi; l'olivo aveva posto nido sulle riviere; il castagno pareva già un àrbore spontaneo dei nostri monti; l'irrigazione non poteva cadere in oblìo. Le famiglie mercantili, e nelle città, e nei rifugi dei monti e delle paludi, non perdèttero le loro tradizioni; e anche nel medio evo sèppero trovare per la via delle Alpi le rive del Reno, continuarvi l'oscuro loro tràffico, prestar l'ingegno e le braccia a edificarvi chiese e castella, che a que' pòpoli pàrvero fatte per opera d'incanto.
XIX.
Molti dìssero che i Romani ammolliti dovèvano coll'innesto dei bàrbari rifòndersi a nuova virilità. Ma quando vènnero i bàrbari, nessuno poteva più dire d'esser Romano; ogni lusso era estinto, e la gente indurita al disagio. E la forza militare d'un pòpolo non risiede nei mùscoli, ma nel consenso, nelle tradizioni, nella disciplina; al che la presenza dei bàrbari nulla giovava, essendochè la milizia rimaneva privilegio dei pochi, e i molti non potèvano dunque agguerrirsi. E i Goti fuggiaschi inanzi alla ferocia degli Unni, divènnero àrbitri dei nostri destini, perchè la legge bizantina faceva privilegio di stranieri la milizia, onde non si sapeva più come un uomo potesse divenire un soldato. I Goti, padroni dell'Italia e delle cento sue fortezze, non sèppero conservarla, e in sessant'anni il loro nome era estinto; in Gallia soggiàcquero ai Franchi; in Ispagna fugìrono inanzi agli Arabi, e perdèttero ogni cosa in un giorno. – I Longobardi entràrono chiamati: e tuttavìa non èbbero mai forza d'occupar le marine, e di superare le nascenti difese di Venezia e le mura inermi di Roma; e il loro dominio che cominciò col cranio di Cunimundo, ebbe fine con una mìsera scena di viltà.
Oltralpe i duchi prèsero nome dai pòpoli o dalle vaste terre; ma i capitani longobardi s'intitolàrono dalle città; duchi di Spoleto, di Verona, di Brescia; il che fa crèdere che vivèssero entro le mura urbane; soggiorno che doveva ammansare il costume, e contribuiva, come le sedi episcopali, a conservare importanza ai municipj. E questi sulle nostre pianure èrano così vicini che appena v'era alcun luogo, che a distanza di quìndici miglia non avesse una città; e perciò gli òrdini feudali non si radicàrono così assoluti, come là dove le popolazioni rimanèvano senza moderatori o testimonj della loro oppressione.
Dopo Carlomagno, le famiglie longobarde fùrono guardate con sospetto; e il predominio passò nel sacerdozio, che, oltre al potere dell'opinione, acquistò quello d'una possidenza, di cui nessuna legge limitava l'incremento. I conti e i capitani dei Carolingi, o con voci moderne, i delegati provinciali e i commissarj distrettuali, dopo l'editto di Kiersy divènnero ereditarj; e verso il novecento, l'abuso vincolava alle famiglie anche i beneficj ecclesiastici, sotto colore di patronato. In mezzo a questi due òrdini di nuovi proprietarj, le discendenze longobarde smarrìvano il nome e i possessi; e dopo il secolo XI è raro vedere nei documenti chi dichiari di vìvere con quella legge. Nelle diete che si celebràrono sotto i Carolingi, la maggioranza era dei conti e dei vèscovi, e presiedeva il vèscovo di Milano.
L'imperio romano si era sciolto per la cessazione dei tributi e l'occupazione delle terre fatta dalle milizie federate. L'imperio carolino non si stabilì veramente mai, perchè non potè instituire stàbili finanze. Cominciò con un'invasione per sè transitoria, che distrusse un regno senza fondarne un altro; ma la Chiesa adottò e perpetuò gli effetti dell'invasione, valèndosi dell'imperatore eletto e coronato, come d'un capo della sua milizia; onde fu quello veramente, come sonava il suo nome, un Imperio Sacro. I suoi luogotenenti, quando non èrano prìncipi potenti per forza propria, èbbero nelle diete e nelle città quel solo potere che i prelati consentìvano, e ch'era pur necessario per conciliare al clero l'ossequio della moltitùdine feudale.
L'irruzione degli Ungari fu la prima occasione di risurgimento. Ogni abitato si cinse di mura, ogni casato alzò una torre; l'Europa divenne una selva di fortezze. Il vèscovo Ansperto ristaurò le mura di Milano alla fine del secolo IX; pochi anni dopo, il vèscovo Ariberto devastava il territorio di Lodi. Quando i suoi cavalieri feudali gli negàrono obedienza, egli armò la plebe cittadina, e combattè a Campo Malo la prima battaglia popolare. – Corrado il Sàlico, geloso di quelle insòlite armi, lo imprigiona; ma egli fugge, gli chiude in faccia le porte della città; sostiene un primo assedio; chiama dalla vasta sua provincia tutti gli uòmini atti alle armi; e per dare a quella che fu la prima di tutte le moderne fanterie un principio d'òrdine e di stabilità, pianta un altare sopra un carro, e uno stendardo sopra l'altare. Quello stuolo di divoti, che colla picca in mano si stringe intorno al carroccio consacrato, è il primo rudimento della moderna società.
XX.
Un barone, ucciso un plebèo, si offerse a pagar la multa dell'omicidio, giusta il prezzo che il sangue dell'ucciso aveva nella tariffa della giustizia feudale. Ma il pòpolo fremendo si armò, e uccise tutti i signori che incontrò per via; trovò un capo in Lanzone, che lo condusse a diroccare le torri delle case feudali, fra gli orti dell'ampia città. – Ariberto, meravigliato e dolente che l'uso delle armi avesse tanto inalzati gli spìriti della plebe, le tenne fronte; i suoi capitani armàrono contro la città tutti i servi del contado; e così, senza avvedersi, preparàrono quelli pure ad armìgera e lìbera condizione. Inesperti degli assedj, nella barbàrica loro inettezza fècero un ridutto di legnami di fronte ad ogni porta della città, stàndovi a campo tre anni, e aspettando che la penuria domasse i sediziosi; ma Lanzone corse in Germania a invocare presso l'imperatore il soccorso delle leggi; onde già si palesava quella verità così perpetua nelle istorie, che gli interessi naturali del principato e dei pòpoli sono in concorde opposizione alla licenza feudale. – Irritato il pòpolo dall'ostilità non paterna d'Ariberto, passò di ragionamento in ragionamento; volle che le famiglie prelatizie, le quali nel loro seno eleggèvano il vèscovo, rendèssero conto dei beni sacri che possedèvano per eredità e simonìa; chiamò concubine le mogli dei beneficiati; li strappò dagli altari; li espulse dalla città; l'omicidio e l'incendio si spàrsero di villa in villa; Arialdo Alciato e i fratelli Cotta versàrono il sangue in nome della chiesa; Ildebrando gli ànimava da Roma al combattimento. – La contessa Matilde, la doviziosa erede dei Longobardi di Toscana, divenne ardente nemica dell'ordine feudale; le sue vaste donazioni ai Benedettini nella valle del Po divènnero asilo di schiavi fuggiaschi, che ristaurati gli avanzi degli àrgini etruschi e romani, le mutàrono in ubertose possessioni. Così dissipato il patrimonio feudale, cresciute di popolazione e di ricchezza, e redente dai patrizj le terre della chiesa, cominciò quella gran mutazione dei servi in lìberi contadini, che per otto sècoli si estese in Europa. – La prima onda di questa corrente si mosse dalla nostra patria, poco dopo il mille.
XXI.
In quel sècolo le città d'Italia tòrnano ad èssere stanza di pòpolo armato. L'uso delle armi ravviva il senso dell'onore, soffocato dall'oppressione bizantina e longobarda; l'onore gènera tutte le virtù; gli uòmini sèntono di poter còmpiere un pensiero; e hanno l'audacia di concepirlo; le menti aspìrano a tutto ciò ch'è bello e grande. Già Venezia colle ricchezze del suo commercio fonda San Marco; il milanese Anselmo Baggio, vèscovo di Lucca e poi pontèfice, edìfica in dieci anni quel duomo. Pisa più gloriosamente fonda il suo, colle spoglie degli Arabi che ha cacciati da Palermo. Tutto ciò avvenne una generazione prima delle Crociate, le quali non fùrono dunque la càusa del risurgimento europèo, come la turba dei ripetitori va tuttora scrivendo, ma ben piuttosto uno dei più pronti effetti, e il primo esercizio d'una forza che si espande. – Il principio vero del risurgimento fu nel legìtimo possesso della milizia popolare.
Nel 1075 Urbano II adunò sui nostri confini il concilio di Piacenza, e al cospetto di duecento vèscovi e di quattromila sacerdoti fece giurare la crociata a trentamila guerrieri. La canzone del passaggio, il grido d'ultreja, risonò per le nostre città. – L'anno seguente egli raccolse in Arvernia il concilio di Clermonte. Già in quella prima crociata (1096) si vìdero le famiglie milanesi dei Selvàtici e dei Ro, e quella dei Rocj d'antico nome ricordato nelle làpidi romane; Ottone Visconti conquistò allora in Oriente lo scudo della serpe, che divenne la gloriosa insegna dello Stato.
Nel 1106 Milano si elesse con nome antico due cònsoli, e prese forma di stato con un Consiglio maggiore e un Consiglio secreto o Credenza.
I primi cònsoli dello Stato fùrono dell'ordine dei capitani, che aveva in eredità le antiche magistrature caroline, epperò grandi fèudi e numerose contadinanze. Avvenne dunque che anco i minori gentiluòmini, o valvassori, a propria difesa rendèssero stàbile la loro adunanza feudale o Motta (Gemote, Meeting), e la trasformàssero in un magistrato di cònsoli. E parimenti i mercanti e gli altri cittadini non compresi nell'orditura feudale, èbbero un consiglio delle parochie urbane, che si chiamò Credenza di Sant'Ambrogio. Questa giurisdizione consolare, proteggendo abbastanza gli industrianti, rese inùtili le corporazioni e le maestranze; e con ciò mantenne il foco sacro della lìbera concorrenza. Si svolse così il nuovo diritto commerciale; e per l'universalità delle sue forme e la irresistìbile rapidità della sua procedura, si divise affatto e dal diritto feudale e dal canònico e dal romano, il quale non poteva districarsi dalla lentezza delle ambagi forensi. I mercanti lombardi, stabiliti oltremonte, tràssero seco i cònsoli di città in città, e propagàrono il nuovo diritto per tutta l'Europa. – Le tre credenze consolari presiedèvano a tre consigli, l'uno di quattrocento, l'altro di trecento, l'altro di cento; e l'adunanza generale si chiamò degli ottocento. Ma èrano sempre tre pòpoli con diverso principio di vita, di leggi e di governo; l'uno rappresentava la potenza territoriale, l'altro la forza militare, il terzo la mercantile; e a parte rimaneva ancora il diritto canònico con tutte le giurisdizioni ed immunità ecclesiàstiche. E non essèndovi un prìncipe, in cui potèssero far capo i tre poteri civili, si cercò al di fuori un giùdice supremo, che fosse patrizio d'un'altra repùblica; e lo si chiamò podestà, perchè appunto rappresentava la mano regia, e colla forza di tutti sanciva la commune volontà.
Cominciò un'era d'esaltazione bellicosa. In un castello del Lago Ceresio alcuni Comensi avèano ucciso due fratelli Càrcano di Milano; le vèdove e i congiunti vèngono sulla piazza del Duomo, mostrano al pòpolo le vesti sanguinose degli uccisi, implorando vendetta. Il vèscovo Giordano esce dal tempio, e pronuncia l'interdizione dei sacri riti, finchè il pòpolo non abbia lavato quel sangue nel sangue degli uccisori. La moltitùdine armata assale Como; gli abitanti, abbandonando a quel subitaneo furore la città, si rifùgiano sulla rupe del Baradello; poi, vedendo le fiamme accese dalla vendetta, si pèntono della loro debolezza; discèndono impetuosi; còlgono i nemici fra la confusione della vittoria, e li dispèrdono. Al ritorno, gli umiliati guerrieri giùrano sull'altare di non deporre le armi, se prima Como non è distrutta. Como arma tutti i suoi montanari, dai confini del Vallese a quei del Tirolo; i Milanesi tràggono seco una lega di dòdici città; navi armate combàttono sui laghi; artèfici genovesi fanno castelli da guerra, e altre màchine della romana milizia, obliate nell'abbrutimento dell'era gòtica. I Comensi, ridutti all'estremo, sàlvano su le navi le mogli e i figli, si chiùdono nel castello di Vico; e infine, dopo dieci anni di guerra, cèdono vinti, e inàlzano intorno all'atterrata patria le capanne dell'esilio. – Si direbbe che queste città inferocite còrrano alla loro distruzione; eppure, fra quelle battaglie il pòpolo cresce; fra quelle depredazioni si svolge un'insòlita prosperità; e dai sècoli precedenti a quel sècolo v'è un trapasso come dalla putrèdine del sepolcro al fermento della vita.
XXII.
Quando Federico I, fatto re di Germania nel 1152, ebbe adunata la Dieta in Costanza, due cittadini lodigiani si fècero nel mezzo con una croce di legno su le spalle, e gettàndosi a' suoi piedi, invocarono giustizia contro Milano, la quale, dopo avere omài da quarantadùe anni distrutta la loro città, opprimeva i cittadini dispersi nella campagna. Federico desideroso di ridurre a obedienza Milano, quando venne a convocare la Dieta Itàlica, sul piano di Roncalia alla foce della Nura nel Po, fece umilianti comandi ai cònsoli milanesi Oberto Dell'Orto e Gerardo Negro, i due famosi autori dei libri del diritto feudale. Con quelle altiere intimazioni e colle più altiere risposte si accese una guerra di trent'anni. – Tortona fu presa per sete; i pàllidi e consunti guerrieri vènnero accolti in Milano, che mandò le milizie di quattro porte a rialzare a sue spese la smantellata città. Nel mezzo dell'òpera gli alleati imperiali assaltàrono i lavoratori; alcuni capitani si rifugìrono dal combattimento in una chiesa. I cònsoli milanesi impòsero loro una nobil pena, affiggendo i loro nomi disonorati alle porte del duomo. – La piccola Crema arrestò tutta la potenza dei feudatarj Germani e Itàlicì per sei mesi; e cadde con tutti gli onori dei prodi sventurati. – Sotto il castello di Càrcano, nel Piano d'Erba, Federico rovesciò e prese lo stendardo sacro dei Milanesi; ma prima di sera era fugitivo in Como, le sue tende èrano prese; i suoi alleati, prigionieri. – Intanto un incendio distrusse i vìveri, accumulati in Milano per resìstere all'assedio; Federico con centomila combattenti girò vastamente tutta la campagna, troncando gli àrbori, ardendo le case, mutilando chiunque apportasse vìveri alla città, ch'era divorata dalla più aspra fame. Alla fine i cittadini domati uscìrono dalle mura; s'avviàrono al campo di Federico, che, ritràttosi a venti miglia di distanza, aveva lasciato fra l'esèrcito e la città il vuoto spazio della desolata campagna. Prima trecento cavalieri depòngono al suo piede le spade e le insegne; poi viene lo stuolo dei personaggi consolari; poi il carro del sacro stendardo; poi tutti i combattenti, emunti dal lungo digiuno, colla croce su le spalle. Al suono delle trombe municipali, il vinto stendardo cade, lo sventurato pòpolo si atterra; i capitani vincitori rèstano attòniti e commossi al pianto. Il solo Federico non si muta; comanda che i vinti colle loro mani abbàttano ampiamente le mura, perchè vuole entrarvi con tutto l'esèrcito in òrdine di battaglia. Avventa le soldatesche contro la vuota città; e salve solo le chiese di Dio, fa di tuttociò che appartiene agli uòmini un cùmulo di ruine. I cittadini si spàrgono pei campi in tugurj di paglia.
Dopo che per cinque anni èbbero sofferto i più gravi disagi, apparve un giorno fra i loro pòveri tugurj un frate del convento di Pontida, seguito da squadre d'armati delle vicine città. Veniva a ricondurli entro le mura e a rialzarle. – Tre anni dopo, la potenza e la perseveranza di Federico èrano finalmente domate sul campo di Legnano; era seminata di cadàveri tutta la landa tra l'Olona e il Ticino; ed ei lasciando in mezzo alla strage le sue armi e il suo cavallo, andava fuggitivo a celarsi, come la tradizione narra, in una caverna. – Alla vittoria successe più tardi la famosa pace di Costanza (an. 1183), che compose le ragioni dell'imperio colle necessità della guerra, in un modo che rammenta l'antico stato dei municipj romani, accresciuto solo da un troppo largo arbitrio di pace e di guerra. Nell'anno seguente Federico venne òspite a Milano; allora si vide risplèndere la cavalleresca cortesìa dei tempi, e nel pòpolo che lo accolse festoso, e nel prìncipe che consentì a rialzare le mura di Crema, che aveva smantellate. Così dal seno della distruzione surgèvano più forti e più belle, Milano, Crema, Como, Asti e Tortona; il circùito di Milano era dilatato sino alla fossa che ora è navigàbile; Lodi fioriva nella nuova sua sede sull'Adda; e la colonia municipale d'Alessandria segnava sul Tànaro il lìmite della feudalità subalpina, ferma ancora nelle terre del Monferrato e del Piemonte. Sulla nostra pianura era già tracciato il Naviglio del Ticino, ancora studiato oggidì fra le meraviglie dell'arte moderna; pochi anni dopo, il gran canale della Muzza faceva della pianura lodigiana un modello d'agricultura, mentre al principio della guerra, tutto lo spazio fra Milano Lodi e Pavìa era una così erma solitùdine, che quando vi fu condutto Federico coll'esèrcito, credè d'esser vìttima d'un tradimento.
XXIII.
Negli anni seguenti, le famiglie tribunizie dei Marcellini e dei Cotta continuàrono ad estirpare la feudalità; abolìrono le tariffe che sembràvano vèndere la licenza dell'omicidio; persuàsero ai valvassori di rinunciare i loro squàllidi fèudi ai capitani, per farsi lìberi uòmini del commune; invàsero i fèudi del Monferrato e della Savoja; e nel mezzo di quelli, costruìrono la rocca di Cuneo, asilo ai fuggitivi. Federico II riaccese la guerra contro le città lombarde; trasse in Lombardia le tribù àrabe della Sicilia e dell'Apulia. I nostri intrèpidi padri le affrontàrono a Camporgnano; allagarono di notte il campo nemico; lo avviluppàrono fra un labirinto di fossi. – In quegli anni si vìdero generosi fatti. Il pòpolo milanese, dolente dei soprusi feudali non peranco estinti, ricusava di prèndere le armi contro i Pavesi, che devastàvano i poderi dei capitani. I giòvani cavalieri escìrono senza il pòpolo e respìnsero i predatori; ma nell'ebbrezza della vittoria non serbando gli òrdini della prudenza militare, fùrono raggiunti dai nemici nel ritorno, e messi alle strette. A quell'annunzio il pòpolo, immèmore d'ogni altra cosa, corse alle armi, e giunse in tempo a salvarli (an. 1242). – Panera Bruzzano, il più alto e più forte dei nostri campioni, sfidato sul campo a singolar tenzone dal re Enzo, figlio di Federico, lo vinse e lo fece prigione. Ma i Milanesi, senza far vendetta dei prigionieri slealmente uccisi, lo lasciàrono lìbero, a patto che non portasse le armi contro la loro città. – Voleva il pòpolo abolita la legge che stabiliva a sette lire e dòdici soldi il valore della vita d'un plebèo ucciso da un feudatario. Uno dei signori da Landriano aveva ucciso a tradimento il suo creditore Guglielmo Salvo. Il cadàvere sanguinoso, scoperto sotto un mucchio di paglia, portato a Milano, ed esposto sulle piazze, accese di furore il pòpolo, che cacciò tutti i capitani; quindi andò di terra in terra ad espugnare le castella rurali. Si fècero molte paci; quella che fu detta di S. Ambrogio riconobbe nelle famiglie dei cavalieri e dei cittadini egual diritto a tutti gli onori consolari. Ma la legge bàrbara delle campagne, e la legge romana delle città non potèvano stare in pace sullo stesso terreno; la guerra era nella natura delle cose. Il pòpolo cacciò di nuovo i capitani; rifugiati in Como, li perseguitò e li espulse; ma nell'incàuto ritorno venne circondato fra le paludi di Prato Pagano, e ridutto a dure condizioni. Vinse di nuovo, e cacciò i capitani, che invocàrono il braccio del terribile Ezzelino. Questi passa l'Ollio, l'Adda, giunge fino a Vimercato; ma le milizie di tutte le città lo accèrchiano; ripassa l'Adda, è raggiunto, un giòvine bresciano lo ferisce e lo atterra; condutto prigione nel castello di Soncino, si squarcia le ferite e muore. Con lui cade la feudalità nella Venezia, per frutto di battaglie combattute sul nostro terreno.
XXIV.
Correva la metà incirca del sècolo XIII. Spuntava l'era moderna; èrano i tempi in cui nacque Dante; omai la nazione italiana era adulta e cominciava un nuovo òrdine di cose. Il pòpolo colle armi alla mano aveva tratto dalla feudale ineguaglianza un viver civile; ma la guerra, fra il risurgimento di tutte le industrie, tornava a farsi arte; e i cittadini non potèvano nello stesso tempo attèndere ai mestieri della pace, e pareggiare i giòvani delle famiglie militari nel maneggio delle armi e dei cavalli. I magistrati avrèbbero potuto agguerrire a spesa commune il fiore della gioventù cittadina; pensàrono invece con fatale consiglio d'assoldare cavalieri d'altro paese, non imbevuti d'odj cìvili. Il primo capitano del pòpolo fu Oberto Pallavicino, condutto per cinque anni. Col carroccio d'Ariberto era cominciata un'era d'esaltazione morale; collo stipendio d'Oberto Pallavicino ricominciò un'era di morale debolezza. D'allora in poi si vide un pòpolo di pazienti e ingegnosi lavoratori in lana, in seta, in armi di famosa tempra, in metalli preziosi, esinanirsi nella fatica, in pòvere case, sotto crescenti gabelle, colle quali i suoi capitani, ora guelfi ora ghibellini, pascèvano squadre di mercenarj d'ogni parte d'Italia e sopratutto Romani e Romagnoli, ma più spesso stranieri, Catalani, Tedeschi, Guasconi, Bretoni, Inglesi, stradiotti d'Albanìa. In ogni città v'era una o più fortezze; nel cui secreto le famiglie dominatrici conducèvano una vita impopolare, spesso nelle crudeltà e nelle dissolutezze, nutrendo migliaja di cani e di falconi e sollazzàndosi con nani e menestrelli. Questa vita di sospetti senza pensiero e di splendore senza dignità, durava finchè un vicino più vìgile o più pèrfido, o infine un invasore straniero, collo sproporzionato peso delle forze d'un regno, li snidasse da quelle tristi delizie, e li precipitasse nell'antica oscurità. "Tal fortezza fu a danno e non a sicurtà de' suoi eredi, perchè giudicando mediante quella viver sicuri, e poter offèndere i cittadini e sùdditi loro, non perdonàrono ad alcuna generazione di violenza, talchè perdèrono quello stato come prima il nemico gli assaltò..." (Macchiavelli).
XXV.
A domar l'ànimo bellicoso delle nostre plebi contribuì un'istituzione che cangiava le arti in esercizio di penitenza. Prima ancora d'Ariberto (an. 1014), alcuni cavalieri milanesi andati in Germania prigionieri d'Enrico I, e nel tedio dell'esilio dàtisi a vita laboriosa, fècero voto di perseverarvi anche rèduci in patria. Il pòpolo li rivide con meraviglia nelle vie della città con ampie vesti pelose e berretti di straniera forma; si chiamàvano gli umiliati; e attèsero all'arte della lana. In breve èbbero trenta case d'uòmini e trenta di donne; si trapiantàrono in tutte le città d'Italia; Firenze deve loro quell'arte, che tanto conferì alla sua potenza. Fondàrono ricòveri nei passi delle Alpi; e d'ospizio in ospizio, difendèndosi col nome della religione dai rapaci castellani che intercettàvano le strade, contribuìrono a collegare l'industria di Milano colle piazze del settentrione e del mezzodì.
Ma le austere opinioni insinuate per tempo nel nostro pòpolo fermentàrono in sette religiose, che annunciàvano la riforma della chiesa, del sacerdozio, della magistratura, delle pompe cavalleresche. Il più formidàbile tra i riformatori fu Arnaldo da Brescia, discèpolo prima in Parigi d'Abailardo, poi suo difensore. La contrita e rìgida sua vita faceva meraviglia anche ai santi (Homo est neque manducans neque bibens... habens formam pietatis... Cujus conversatio mel... cui caput columbæ. S. Bern.). – Quando il vèscovo di Brescia diede a un garzone di dòdici anni una ricca parochia, Arnaldo rinovò le querele che Arialdo Alciato aveva levate in Milano; inveì contro le famiglie, che vendèvano, infeudàvano, donàvano come cosa propria i beni della chiesa: contro il pastore, che dava in fèudo a cavalieri le regalìe della sacra mensa, per fàrseli vassalli, e adoperarli in imprese profane e crudeli: contro i beneficiati, che vivèvano con lusso mondano, e si tenèvano con tìtolo di spose le figlie dei potenti. Voleva che i beni della chiesa fòssero governati da un consesso di popolani, i quali, distribuito ai sacerdoti un ùmile alimento, e compiuti i sacri riti, largìssero il resto ai poverelli di Dio. Ma i violenti consigli accèsero la guerra civile; Arnaldo fu costretto a fuggire sotto il peso di capitale accusa; sparse in Zurigo le sue dottrine; errò per la Francia; e perì miseramente in Roma, consegnato da Federico I a' suoi nemici. Nell'intervallo tra i due Federici, il nostro pòpolo si ordinava in sette di vario nome. L'inquisizione romana le represse col ferro e col foco; ma i cavalieri ghibellini, nemici della chiesa, le ricettàrono nelle loro castella, le protèssero armata mano, e cogli omicidj vendicàrono i supplicj. L'inquisitore Pietro da Verona venne trucidato nelle selve del Sèveso, un altro sul ponte di Brera, un altro nella Valtellina.
Finchè il potere ondeggiò tra i cittadini guelfi capitanati dai Torriani e i feudatarj ghibellini capitanati dai Visconti, la lutta delle opinioni durò dubiosa. Ma dopochè la fortuna dei Visconti prevalse, essi mìsero ogni loro fiducia nelle armi stipendiate e nelle fortezze, deprimendo con mano di ferro tutte le parti, minacciando di morte chi solo di guelfì e ghibellini proferisse il nome. Quindi, con industria poderosa e con vasto commercio di derrate e di banco, le città lombarde non conòbbero quella lìbera cultura letteraria, che il governo popolare per tre sècoli fomentò in Firenze; sicchè parve che per fatto di natura l'ingegno fosse più potente in Toscana che fra noi.
XXVI.
Verso i principj del dominio dei Visconti (an. 1311), troviamo fatta la più antica menzione dell'uso delle bombarde, ossia delle artiglierìe, colle quali i Bresciani si difèsero contro l'imperatore Enrico di Lussemburgo. Nel 1331 se ne fece uso all'assedio di Forlì; nel 1334 in quello di Bologna, la più antica memoria presso i Francesi è del 1340; presso gli Inglesi, del 1343, alla battaglia di Crécy; presso gli Anseàtici, del 1360. Circa 65 anni dopo l'assedio di Brescia, l'artiglierìa prende a nuova perfezione dalla mano di Bertoldo Schwartz, che ne fu poi detto inventore.
Dei Visconti i più fùrono d'ànimo grande; alcuni pochi fùrono d'abjetta e quasi delira crudeltà. Ottone e Mattèo, fondatori di quella potenza, fùrono perseveranti e destri nelle avversità delle guerre e degli esili. Marco, prode cavaliero, vinse gli Angioini sotto Gènova, il catalano Cardona sul Po, Enrico di Fiandra sull'Adda. Azzone, signore di dieci città, e in aspetto omài di regnante, favorì le arti, chiamò Giotto a dipìngere il suo palazzo, fece il ponte di Lecco, forse il maggiore che allora fosse, coperse le cloache, inalzò la torre delle Ore. – Quando un poderoso esèrcito di mercenari, congedato dal Signor di Verona, si prese a condottiero il ribelle Lodrisio Visconti, e venne devastando orribilmente il paese fino a Parabiago sull'Olona; colà, quasi su le medèsime campagne ov'era caduta la potenza di Federico imperatore, si combattè sulle nevi una delle più sanguinose battaglie del medio evo. Gli stranieri avèvano già ucciso uno dei generali milanesi, e preso l'altro, ch'era Luchino Visconti, quando la cittadinanza, agitata dal perìcolo di cader preda a gente senza legge e senza pietà, sopragiunse in soccorso; strappò Luchino di mano ai vincitori; fece prigione il vincitore Lodrisio, al quale il clemente Azzone concesse la vita. Le menti infervorate nella mischia vìdero il patrono del pòpolo S. Ambrogio, il cui stendardo si portava nelle battaglie, scèndere dal cielo, dispèrdere i bàrbari a colpi di sferza; e da quel giorno su le monete e le insegne popolari il mansueto pastore si dipinse sempre in atto d'impugnare quello strumento della vittoria.
I fratelli Luchino e Giovanni fùrono gentili òspiti al Petrarca. Fùrono signori in Gènova; e la loro insegna sventolò sulle navi che in Morèa trionfàrono di Nicolò Pisani. – Bernabò era l'ideale del ghibellino; non temeva nè gli uòmini nè Dio. Quando i legati pontificj gli si fècero incontro sul ponte del Lambro per intimargli una bolla nimichèvole, egli impose loro di mangiar la bolla e i sigilli; ed era uomo sì terrìbile che il suo comando fu obedito. Si compiaceva di taglieggiare i poderi degli ecciesiàstici; e forse fu il primo che pareggiasse i càrichi di tutti i beni, come ben tardi fece la rimanente Europa. Mentre a Trezzo sull'Adda faceva gettare un meraviglioso ponte d'un arco solo, suo fratello Galeazzo, ornando d'aque il parco di Pavìa, dava l'esempio d'un gran giardino a paese; fondava l'università di Pavìa; mandava ambasciatore il Petrarca in Germania e in Francia; e lo induceva ad abitar lungamente. ora in romita parte della città, ora fra i solitarj prati di Linterno.
Galeazzo assediava Pavìa. L'austero agostiniano Jàcopo de' Bussolati esortò i cittadini a non lasciarsi cadere in dominio d'un prìncipe. Quando li ebbe accesi delle sue calde parole, aperte le porte da terra e dal fiume, li guidò ad assalir le bastite nemiche, e le navi sul Ticino e sul Po. Vincitore, rivolse la voce contro i Beccarìa, troppo più potenti che non la legge in quella città; i cittadini gli si strìnsero intorno armati; egli elesse venti tribuni; e quando ogni tribuno gli ebbe condutto cento armati, intimò l'esilio ai Beccarìa, distrusse le loro case. – In un nuovo assedio, colle gioje offerte in sacrificio da tutte le donne, comprò i soccorsi dal Monferrato, liberò la città. – Ma in un terzo assedio, involto fra la pestilenza e il tradimento, infine si arrese; assicurò il destino altrùi, solo per sè nulla stipulando; ma Galeazzo perdonò i suoi errori alla purità de' suoi costumi, e generosamente gli impose di ritirarsi in un convento.
XXVII.
Il più grande dei Visconti fu quel Gian Galeazzo, che primo si chiamò Duca, ed ebbe l'ànimo di porre le fondamenta del nuovo Duomo, la più miràbile delle costruzioni cristiane; nè pago di ciò, vi aggiunse quell'altra meraviglia della Certosa di Pavìa. – Il venturiero Giovanni d'Armagnac comparve a quei tempi sotto Alessandria con diecimila cavalli e molte fanterìe, e insultò Jàcopo dal Verme chiuso nella fortezza. Ma il valoroso capitano lo avviluppò, lo disfece, e in pochi giorni prese l'esèrcito e il condottiero, che ferito, e accorato di tanta ignominia, morì. Galeazzo pervenne a dominare trentadùe città, fra cui Gènova, Pisa, Siena, Perugia, Assisi, Nocera, Spoleto, Bologna, Parma e Piacenza, la Terraferma Vèneta fino a Feltre e Cividale, tutte le pianure del Piemonte; era quasi il regno dei Longobardi, ma pieno di ricchezze e di vita. Infine egli intraprese a stringere del tutto la repùblica fiorentina, occupando con dòdici mila cavalli e diciottomila fanti tutti i passi dell'Apennino e dell'Arno. Voleva dopo la vittoria comparire ei medèsimo in Firenze, incoronarsi re d'Italia, quando la morte dissipò tutti i sogni di quella grandezza.
Più magnànimo che assennato, egli non vide con quali interni vìncoli si stabilìscono i regni; e morendo divise il dominio a tre figli minorenni; nè lasciò loro altra sicurtà che la fede dei conduttieri. Tosto fu messo in brani lo Stato; i Cavalcabò si fècero signori a Cremona, i Benzoni a Crema, i Rusca a Como, i Sacchi a Bellinzona, i Vignati a Lodi, i Suardi a Bèrgamo, i Malatesti a Brescia, i Terzi a Reggio e Parma e Piacenza; Facino a Novara e Tortona e Alessandria; Siena tornò libera; il Monferrato ebbe Vercelli; e la vèdova di Galeazzo, per amicarsi i Vèneti, cedè loro Verona, Vicenza, Feltre, Belluno; e allora cominciò il dominio vèneto in Terraferma, e un'era novella per quella repùblica. Il solo Jàcopo dal Verme ebbe pari il valore e la fedeltà. La discordia penetrò nella famiglia ducale e nel consiglio secreto; Bucicault, luogotenente di Francia a Gènova, chiamato, occupò Milano, spogliò i cittadini, falsò le monete, e venne discacciato. Il giòvine duca, libertino e crudele come Nerone, fu pugnalato da uno stuolo di patrizi. Allora Filippo Visconti, sposando Beatrice Tenda, vèdova del conduttiero Facino, acquistò le sue armi e le sue fortezze; e tosto con miràbile velocità riebbe Vercelli, Como, Lodi, Crema, Bèrgamo, Brescia, Parma, Piacenza, Gènova, Savona, Imola, Faenza e Forlì. – Bisogna che le città una volta assoggettate o si facèssero propense a quel dominio, più aspro che maligno, e veramente benèvolo all'ùmile industria e ai lontani commercj, o fossero attratte dalla vasta mole; le amministrazioni èrano pur sempre municipali; e pareva migliore un prìncipe grande e lontano, che un vicino e bisognoso oppressore.
XXVIII.
Era appena trascorso un sècolo, dacché aveva cominciato la tarda libertà degli Svìzzeri; e già le loro fanterìe di bronzo palesàvano la debolezza delle soverchie cavallerìe dei conduttieri. Dopo che Carmagnola e Pèrgola èbbero ricuperate a Filippo Visconti le valli della Toce e del Ticino, le armi loro fùrono troppo vicine alle svìzzere. Il primo incontro in quelle anguste gole riescì arduo agli uòmini d'arme; ma Carmagnola, capitano d'alto intelletto, fatti smontare i suoi, li ricondusse alla prova, e ne uscì vittorioso; ancora oggidì presso la Chiesa Rossa d'Arbedo si addìtano le tombe dei vinti Svìzzeri.
Il più splèndido momento del dominio dei Visconti si fu quando, vinti e fatti prigioni nella pugna navale di Ponza (an. 1435) i due re Alfonso d'Aragona e Giovanni di Navarra della flotta di Gènova, la quale portava allora l'insegna del serpente, gli illustri prigionieri fùrono addutti nel castello di Milano; dove il nostro duca, con più cortesìa che arte di stato, li pose in libertà, e li onorò con feste suntuose. – Languiva allora da molti anni, nel càrcere di Monza, il giòvine cavaliero Venturino Benzone, che aveva militato nell'esèrcito del Carmagnola, già divenuto nemico di Filippo, e passato al comando dei Vèneti. La figlia di Carmagnola lo voleva suo sposo; ma il vecchio Giorgio Benzone, padre di Venturino, tuttochè spoglio del suo principato e ramingo, sdegnò alteramente il parentado del soldato, che nato contadino era salito a improvisa fortuna. Il disprezzato Carmagnola si vendicò, abbandonando Venturino al nemico in una fortezza. Il prigioniero, erede del ribelle signore di Crema, e preso colle armi alla mano contro lo Stato, doveva morire; ma un zio, ch'egli aveva nella casa del duca, gli implorò un indugio alla morte, e tanto fece che rimase obliato nel càrcere. Senonchè nelle splèndide giostre date ai re prigionieri, apparve un Gonzaga di Màntova così bello e prode cavaliero, che nessuno dei campioni del Duca potè tenergli fronte. Ne doleva fieramente al superbo Filippo. Allora il vecchio Corio, il zio di Venturino, venne a dirgli che vi era pure nel suo Stato un guerriero, che solo fra tutti poteva vìncere la prova. Il duca tutto lieto acconsentì; Venturino, tratto dal càrcere, adorno d'armi preziose, comparve improviso nell'ùltima giornata, come uomo che risurge dal sepolcro; rimandò sconfitto il Gonzaga; ebbe la libertà, il dono d'un palazzo in Milano, e d'un castello nell'Astigiana; e sposò la giovinetta del suo cuore, la figlia di Princivallo d'Asti.
XXIX.
Nel 1421, Carmagnola era entrato in Brescia colle armi di Filippo; cinque anni dopo, nello stesso giorno (16 marzo), vi entrò colle armi vènete; per sei mesi ancora si combattè intorno al castello; e solo al cader dell'anno Brescia fu tranquilla. Ma in dòdici anni il generoso pòpolo s'affezionò tanto a quella modesta e non umiliante signorìa vèneta, che quando il Piccinino comparve con ventimila uòmini per ricuperarla a Filippo, era troppo tardi. I Bresciani, sospese tosto le domèstiche inimicizie, proferìrono al magistrato i loro averi, spianàrono le case dei sobborghi, munìrono di ricche artiglierìe le mura; fècero una compagnìa di quattrocento che chiamàrono immortali, perchè altri dovèvano prender sempre il posto dei caduti. Il nemico batteva le mura con ottanta cannoni; i cittadini battèvano le chiese ov'era alloggiato; ogni giorno egli scendeva dai colli a combàttere; ogni giorno gli assediati uscìvano dalla città. Chiusi i tribunali e le officine, rifugiati nelle chiese i vecchi e gl'infanti, tutti i cittadini èrano sulle mura; tutte le donne, sotto il comando di Brìgida Avogadro, èrano tra il foco, a sollevare i feriti, a dar mano alle òpere di difesa. Scaricate tutte le artiglierìe per nascòndersi col fumo, Piccinino sboccò dalle sue trincèe, diede l'assalto da due parti; fra il rintocco di tutte le campane e le grida delle donne, cominciò all'alba un combattimento che arse fino a sera. Il nemico respinto battè le mura per altri dòdici giorni, poi le assaltò da tre parti; le artiglierìe dei cittadini, mirabilmente appuntate, fècero strazio delle file nemiche lungo il piede della breccia; gli elmi infranti e sanguinosi èrano sbalzati duecento passi lontano; infine la battaglia stretta sospese il foco; le donne versàvano dalle mura olio bollente e pece infocata; si combattè fino a sera; poi tutto il dì seguente. Piccinino aveva perduto settemila soldati; l'esèrcito fremeva dell'inutile sua pertinacia; egli sciolse l'assedio, andò sul lago e sui monti; lasciò la città tra la peste e la fame. – I Vèneti mandàrono intanto su per l'Adige trenta navi; le tràssero per terra dietro il monte Baldo; le lanciàrono inaspettate su le acque del Benaco. I loro capitani, Taddèo d'Este, Sforza, e Gattamelata, s'inoltràrono nei monti da una parte, mentre il bresciano Avogadro e il conte di Lodrone tentàvano il passo dall'altra; ma un convoglio di vìveri scortato da mille cavalli venne intercetto; le navi vènete sul lago affondate o prese; Taddèo d'Este prigioniero. Allora tutto l'esèrcito vèneto si spinse nelle valli del Tirolo; i Bresciani uscìrono dai monti; Piccinino preso in mezzo e disfatto si riparò con dieci cavalieri nel castello di Tenno. Ma nella stessa notte, l'astuto capitano, giovàndosi della breve statura che gli aveva dato il nome, si fece portar fuori in un sacco, come cadavere d'un appestato. Gettàtosi in una barca, raccolse le sue genti in quella stessa notte; e mentre il nemico lo credeva certa preda nel castello, egli volò a Verona, ove teneva secreti accordi; scalò le mura; prese la città; ma non la fortezza. I Vèneti delusi sopravènnero a furia; Verona, perduta da quattro giorni, fu ricuperata. – Intanto a Brescia si moriva di fame; l'inverno era asprìssimo; non v'èrano vìveri, nè legna, nè strami; èrano agghiacciate le fosse della città; e i nemici ad ogni istante sotto le mura. Attraverso alle desolate campagne appena si poteva apportar combattendo qualche pane bagnato di sangue; metà degli abitanti era perita, i supèrstiti si sostentàvano d'erbe selvagge e d'animali immondi. – Ma sull'aprirsi della primavera l'incostante Filippo richiamò Piccinino, lo mandò contro Firenze; apparve sul lago una flottiglia vèneta; Garda e Riva fùrono espugnate; Sforza vincitore passò il Mincio a insegne spiegate. – I Vèneti invitàrono cento cavalieri Bresciani a ricèvere le più solenni grazie del doge. Brescia rimase sùddita; ma con autorità di mutare le sue leggi municipali, e con giurisdizione su tutto il territorio; il nome vèneto divenne più caro ai Bresciani, che in tutte le guerre d'Italia e d'Oriente fùrono sempre pròdighi a Venezia di denaro e di combattenti. – I fatti di quell'assedio pròvano due cose contro la maggioranza degli scrittori: – che il fondamento del dominio vèneto non era il terrore, ma una nòbile amicizia dei pòpoli, – e che le guerre dei conduttieri, prima della discesa di Carlo VIII, non èrano di giostre pompose, ma di fiere battaglie.
XXX.
I Duchi di Milano non avèvano un potere nato coi pòpoli e intessuto alla legge e alla tradizione; èrano privati; posti per forza e per arte disopra agli eguali. Quindi nelle case ghibelline uno sdegno di quella grandezza frodata; e nelle case guelfe la fede indelèbile ch'era un diritto tolto alla chiesa e al commune. La chiesa e l'imperio fùrono sempre i due divisi principj, all'uno o all'altro dei quali corrèvano le menti, bisognose d'afferrare un filo di ragione e di stabilità tra le volùbili fortune dei conduttieri. I Visconti, in mezzo agli uòmini d'arme e alle fortezze, dovèvano ancora acquistarsi il tìtolo ora di Vicarj imperiali, ora di Vicarj pontificj. Gian Galeazzo, egli che voleva morir coronato, pagò centomila scudi d'oro il nome di duca. Quando il re Sigismondo scese senz'armi a cìngere la corona d'Italia, l'astro dei Visconti impallidì; gli eredi dei fèudi ghibellini accorrèvano al suono del nome imperiale. Indarno il Petrarca già da lungo tempo aveva detto ch'era un nome vano e un ìdolo; intorno a quell'ìdolo e nel suo nome essi ritornàvano eguali, eguali per un giorno, ai loro armati signori. – Non poteva Filippo Visconti mostrarsi fra il tumulto di quegli omaggi; parer sùddito; non più prìncipe, ma gentiluomo di prìncipe. E si rinserrava tenebroso e torvo nel suo castello di Porta Giovia, ad aspettare che quella pompa di teatro, quella fedeltà di sediziosi trapassasse; e rimanesse la sola terrìbile realtà della spada e della scure nella sua mano. Ma le famiglie riportàvano nelle interne case rinovata la memoria d'obedire alla forza e non al diritto; e l'inusitata pompa la improntava indelebilmente nelle ànime dei loro figli. – Tutte dunque le nostre istorie, così sotto i Cèsari come sotto i Duchi, e le due calamitose decadenze che seguìrono, sono prove solenni che tra la forza e il diritto s'interpone un insuperàbile abisso.
XXXI.
Alla morte di Filippo, alcune famiglie vòllero creare d'improviso una repùblica sìmile alla vèneta; ma èrano senza milizie nazionali, e i conduttieri di Filippo le invòlsero in mille tradimenti. Nè un governo municipale d'una sola città poteva trar seco le altre; e Venezia, che pur lo doveva, troppo tardi prese a strìngerle in lega. Tuttavìa per più di due anni si sostenne qualche sembianza di stato popolare; non senza qualche prova di virtù. Vigèvano, una delle più industri città del ducato, fece una valorosa resistenza a Francesco Sforza; si vìdero le donne prèndere sulle mura le armi dei caduti, combàttere anch'esse; uno stuolo d'assalitori, nel discèndere per le ruine entro la città, scivolò sul pendìo del terreno lùbrico di sangue, e stramazzò alla rinfusa; parve quello un prodigio; parve che un'arcana mano li fermasse; s'arretràrono tutti esterrefatti. Bastò quel respiro a salvar la città, ch'ebbe il tempo d'arrèndersi, e scansare gli orrori del saccheggio. – Francesco Sforza entrò in Milano dopo l'assedio come Enrico IV in Parigi; i suoi soldati, càrichi di pane, si lasciàvano depredare dalle turbe famèliche. Il primo pensiero del nuovo regnante fu di ristaurare il castello, smantellato dai republicani; si vide che gli Sforza non volèvano regnare sugli ànimi e cogli ànimi; e il savio cittadino Giorgio Piatto predisse le sventure che poi sopravènnero. Sforza ebbe pace dai Vèneti, perchè Costantinòpoli presa allora dai Turchi (an. 1454) chiamò altrove i loro pensieri. Francesco si mostrò sagace, non aspettando che la rivale casa di Francia s'ingerisse del suo Stato, ma prese l'ùnica via di sicura difesa, ponendo egli le mani nelle cose di Francia; e mandò suo figlio a soccòrrere Luigi XI, stretto dalla ribelle lega del ben pùblico. La facilità con cui le milizie italiane abbattèvano le fortezze, fece stupore a quei pòpoli, e palesò tutto il vantaggio che l'inoltrata civiltà degli Italiani avrebbe dato loro in lontane guerre! Il re ne diede grazie al duca con solenne ambasciata; non secondò le ragioni della casa d'Orléans sull'eredità dei Visconti; e pose Sforza in possesso di Gènova e di Savona; onde lo Stato Milanese ebbe di nuovo il nùmero di quìndici città, fra le quali Parma e Piacenza, e quelle ora piemontesi di Novara, Vigèvano, Valenza, Alessandria, Tortona e Bobbio. Ma il vecchio Sforza tosto morì; suo figlio, fedele ai pensieri paterni, difese la Savoja contro Carlo il Temerario; ma poco di poi fu pugnalato nella famosa congiura di Lampugnano, Olgiato e Visconti. Barbaramente pomposo, quando intraprese colla sua sposa un viaggio a Firenze, con accompagnamento di cinquanta superbi corsieri, e d'una folla d'uòmini d'arme, e di cortigiani ornati di collane d'oro e di velluti, con duecento muli da càrico, due mila cavalli e cinquecento coppie di cani, rimase umiliato dalla modesta e delicata eleganza fiorentina. – Poco dopo la sua morte, gli Svìzzeri, discesi nelle valli del Ticino, tentàrono penetrare nelle Tre Pievi del Lario; ma gli abitanti li còlsero fra quelle strette e li respìnsero. Il governo Sforzesco volle snidarli allora anche dalla Leventina, il cui pòpolo era secoloro in alleanza. Il conte Torello con quìndici mila soldati e molte artiglierìe s'inoltrò nelle valli; incontrò i Leventini, comandati dal capitano Stanga di Giornico, che lentamente ritraèndosi, lo condusse in un piano, inondato ad arte colle aque del Ticino. Era tardo dicembre; la notte rìgida converse la valle in un campo di gelo; all'alba i Leventini, correndo sul ghiaccio colle scarpe ferrate, assalìrono gli uòmini d'arme, che non potendo reggersi in piede, cadèvano d'ogni parte alla rinfusa sui loro cavalli, e sotto una frana di sassi, che i montanari dirupàvano dalle imminenti balze. Ma il prode Stanga, càrico di ferite, al ritorno cadde moribondo sulla porta della paterna sua casa.
XXXII.
Il ducato era salito a miràbile floridezza colle arti della lana, della seta, dei metalli, e sopratutto delle armature; oltre a' suoi mercanti e banchieri, stabiliti in Francia e in Germania, possedeva il porto di Gènova e si giovava di quello di Venezia; l'Amèrica si scopriva a quei giorni, il Capo di Buona Speranza non era ancora girato; e la linea dei nostri laghi e del Reno era la gran via del commercio dall'Oriente alle Fiandre, ove facèvano scala tutti i pòpoli del settentrione. – Nel condurre entro la fossa della città i marmi del Verbano, discesi pel Ticino e pel Naviglio, il triviale ripiego d'una chiusa per superare il soverchio pendio delle aque aveva a poco a poco fatto trovare la miràbile invenzione delle conche; per tal modo il Lario per l'Adda, e il Verbano pel Ticino, si riunìvano sotto le mura della città. – Nell'architettura civile s'introduceva allora la varia e signorile maniera bramantesca, che può dirsi propria di quel sècolo e del nostro paese, e sola forse fra tutte le varietà di quell'arte si mostra pieghèvole in tutto al moderno costume. Fioriva la pittura con Gaudenzio Ferrari, coi Luini, con tutta la scuola di Leonardo, che dipingeva allora la sua Cena, e architettava la cùpola delle Grazie. Le famiglie dei Piatti, dei Calchi, dei Grassi fondàvano scuole di lèttere e di scienze dove l'insegnamento del càlcolo e della geometrìa diveniva un sussidio alla potenza industriale. D'ogni parte fiorivano le lèttere italiane e latine; e nelle nostre chiese si vèdono i sepolcri degli èsuli greci, che diffondèvano colla loro lingua la varietà e libertà dell'antica filosofia.
XXXIII.
Ma gli Sforzeschi, già pericolanti per l'usurpata eredità dei Visconti, accrèbbero il pericolo colle discordie, vòllero spogliarsi anche fra loro; e tràssero sopra il loro capo e sopra la divisa Italia la più spaventosa tempesta. L'Italia era piena di forze e d'ingegni; per tutto ciò che nella milizia di mare e di terra è arte, superava di lunga mano tutte le nazioni; ma ogni cosa era instàbile e arbitraria; ogni prìncipe aveva disegni suoi; ogni capitano, che avesse una bandiera di soldati, non viveva senza speranze di conseguire coll'arte o colla forza un principato. La rete d'una polìtica inestricàbile inviluppò mani e piedi alla nazione, che fu da inetti nemici barbaramente spogliata e insanguinata. Lo Stato sforzesco era una raunanza di municipj senza nodo di consenso; anche le menti migliori pensàvano alla propria città, nessuna alle altre, nessuna allo Stato. E sempre risurgeva la fatale difficultà d'un governo, che, non avendo radice nelle tradizioni e nelle opinioni, non nutriva fiducia nei sùdditi; li amava più divisi che unànimi; più inermi e dappoco, che guerrieri e risoluti; riponeva sempre il sommo della speranza nelle castella e negli uòmini comprati. E gli Svìzzeri, comprati da Ludovico il Moro, a Novara lo vendèttero a' suoi nemici. In pochi anni tutte le città vènnero saccheggiate e contaminate ad una ad una. Lodi in trent'anni circa fu presa quìndici volte: fu saccheggiata da Svìzzeri, da Spagnoli; fu campo di battaglia tra Spagnoli e Vèneti. Le famiglie seminude fuggivano a Crema. Durante la lega di Cambray, i Cremaschi, disperando della fortuna di Venezia, accettàrono presidio francese: ma vènnero disarmati e depredati; si cacciàrono dalla città tutti gli uòmini dai 15 ai 60 anni. Cittadini e contadini la riprèsero allora valorosamente ai Francesi; assediati di nuovo dagli Svìzzeri, li sorprèsero e tagliàrono a pezzi a Ombriano. Ma la guerra aveva desolato le campagne, e dissipati i capitali; e la peste in così angusto territorio divorò 16,000 persone. Le donne, i fanciulli, le monache stesse fuggivano d'ogni parte a Lodi; non si può dire in quale delle due città si vivesse peggio. Il più lungo strazio fu in Milano, ove, dopo una pestilenza che aveva distrutto cinquantamila abitanti, gli Spagnoli imperversàvano rubando, uccidendo, estorcendo denaro colle catene e coi tormenti, prendendo in pegno le donne, costringèndole a portar terra alle fortificazioni, spogliando ignudi la notte quanti incontràvano per le vie, scalando le finestre, e trucidando chi gridasse o resistesse. Le nazioni che fècero sì indegno scempio d'un pòpolo che non le aveva offese, e che colle arti, colle lèttere, colla scoperta d'un nuovo mondo le onorava e beneficava, non hanno veramente a rispòndere di quegli eccessi ora troppo lontani e sommersi tra le memorie del passato; ma dovrèbbero almeno vergognarsi di vituperarne le vìttime e di commendarne gli autori.
XXXIV.
Il ducato non mancava di forze militari; aveva tesori d'industria, tesori di crèdito; ancora le vie di Parigi e di Londra pòrtano il nome de' banchieri lombardi; lombardo in Francia suonava banchiere; e chi aveva denaro aveva soldati. Non era il pòpolo di Francia che combatteva le battaglie de' suoi re. Quando Francesco discese in Italia, aveva 22 mila fanti tedeschi, e poche centinaja di gendarmi francesi; e ancora in quel corpo non francese, l'anima, la mente era italiana; era Trivulzio, l'implacàbile nemico della fortuna sforzesca. Trivulzio deluse gli Svìzzeri che avèvano chiuse le alpi, finse d'avviarsi per le consuete vie; ne divisò altre nuove e inaccesse; scavò le rupi come Annibale; trasse i cannoni a braccia come Napoleone; come falco che piomba dalle nubi, sorprese Pròspero Colonna seduto ne' quartieri di Villafranca; con una corsa senza battaglie mise il re di Francia in Milano. Fu l'esèrcito vèneto che minacciando gli Svìzzeri alle spalle, li costrinse a svèllere le bandiere dal campo di Meregnano. Fu Pròspero Colonna che alla volta sua piombò sopra Milano, quando Lautrec dormiva; e gli Spagnoli che saccheggiàrono Como, èrano suoi soldati. Ma gli Stati d'Italia non avèvano un principio civile, il quale potesse unire questi prodi sotto un'insegna, che non fosse quella dell'odio domèstico o della privata fortuna; v'era una tradizione di diffidenza e di perversità nei consigli delle corti. Poco prima della prigionìa del Moro, seimila ghibellini si armàrono in odio al Trivulzio, lo cacciàrono di Milano; ma Ludovico non badò a quel valore; mercantava in quel momento medèsimo gli Svìzzeri che dovèvano tradirlo. Il cancellier Morone cacciò un'altra volta Trivulzio colle forze dei cittadini; poi li condusse alla presa d'Asti e d'Alessandria; poi colla voce del frate Andrèa Barbato li accese di nuovo alle armi sulla piazza di S. Marco; li condusse sui prati della Bicocca ad affrontare gli Svìzzeri, e rimandarli pesti e sanguinosi alle loro montagne. I giòvani seguìrono un'altra volta il loro duca, e cacciàrono i Francesi d'Abbiategrasso; ma tra le spoglie dei caduti raccòlsero il germe d'una pestilenza che divorò cinquantamila cittadini. Un altro dei nostri, il Mèdici di Meregnano, consumava indarno il suo valore a fondarsi un principato sopra una rupe del Lario; si vendeva agli Spagnoli, ministro d'orrìbile esterminio a Siena. Il Morone, il Trivulzio, il Meregnano, e altri uòmini di siffatto vigore, che vìssero o prima o poi, rimàsero sconnessi e inùtili frammenti d'una màchina poderosa, che in pugno a un vero prìncipe, e animata da tanta opulenza e da tanto crèdito, poteva scuòtere l'Europa ben più che le poche turbe collettizie del re Francesco.
XXXV.
La più funesta e sanguinosa sventura fu quella di Brescia. La giornata di Ghiara d'Adda aveva distrutto le forze terrestri de' Vèneti, i quali con accorgimento profondo sciòlsero dal giuramento le città suggette; nè vòllero insanguinarle colla difesa, certi che la preda avrebbe diviso i vincitori, e la licenza militare avrebbe offeso i pòpoli, e assicurato il riacquisto. E per verità il volùbile Giulio II si volse tosto contra i Francesi; Pàdova e Vicenza li cacciàrono. Un Martinengo tentò lo stesso in Brescia, ma vi perdè la vita; la Francia prese in ostaggio i primarj cittadini, e introdusse in città nuove genti, che acquartierate nelle case insultàvano al domèstico onore. La città fremeva; nove cavalieri, Rosa, Paitone, Rozzone, Valgoglio, Fenarolo, Lana, Gandino, Lantana e Martinengo, su la pietra d'un altare giuràrono di mèttere i beni e la vita a redimer Brescia alla legge vèneta. Il conte Avogadro faceva altro simil patto con Venezia; le case di Brescia si empìrono d'armati; al prefisso giorno il generale vèneto passò l'Adige, giunse presso sera a Montechiaro; ma fu visto. Pochi momenti dopo, l'annuncio era in Brescia; fra il silenzio della notte fatale i Francesi scaricàrono d'improviso tutte le loro artiglierìe; e armati e rumorosi còrsero tutta la città; i Vèneti, giunti sotto le mura, le vìdero piene di nemici. All'alba i nomi di trenta cavalieri bresciani fùrono gridati ribelli; – la morte, a chi li ricettasse; – i loro beni e il grado di capitano di Francia, a chi li scoprisse. Fenarolo, trovato entro un sepolcro in una chiesa, si pugnalò; recato alla rocca, si mise le mani nella ferita e si uccise; un Avogadro, un Ducco, un Riva fùrono tratti al patìbolo. Ma l'altro Avogadro, che aveva armato gli uòmini di Val-Trumpia, raccolse i fuggitivi, che duràrono tutti nel propòsito. Gritti e Baglioni ricondùssero sotto Brescia l'esèrcito vèneto; Avogadro vi trasse diecimila montanari; si diede nelle trombe e nei tamburi da tutte le parti ad un tempo; Martinengo trovò modo d'arrampicarsi entro le mura; ruppe una porta; le altre, al grido di San Marco, fùrono prese dai cittadini. Ma Gritti, venuto a tutta corsa e senza artiglierìe, non volle assalire immantinente il castello; e perchè i montanari ne mormoràvano, ne sviò settemila a espugnare le fortezze del contado, e soccorrer Bèrgamo che combatteva. – Era l'esèrcito francese a Bologna, capitanato dal giòvine prìncipe reale, Gastone di Foix, che poco di poi morì sul campo di Ravenna. Egli si mosse immantinente; attraversò il Mantovano, senza dimandar licenza a quel prìncipe; sorprese strada facendo Baglioni e lo disfece; sorprese altre genti vènete stanziate a Castanèdolo; giunse a Brescia, che il castello si teneva ancora; il cavalier Baiardo circondò il monasterio di S. Floriano difeso da mille Trumplini, che non s'arrèsero, e morìrono tutti. Gastone, al giovedì grasso, discese dal castello in città con dòdici mila uòmini, comandati dai primi cavalieri di Franda. Cadeva la neve; battèvano a martello tutte le campane della città; dopo due ore di calda battaglia, i cittadini èrano ancora fermi ai serragli delle strade, quando alcuni mercenarj dei Vèneti dièdero indietro; i Francesi incalzàndoli si spìnsero lungo il bastione fino ad una porta murata; la sfondàrono; tràssero dentro altre genti; i cavalleggeri albanesi, che si vìdero il nemico alle spalle, abbandonàrono il posto, rùppero un'altra porta, e si dispèrsero nella campagna. La gente d'arme del cavalier d'Allegre entrò a squadroni per la porta abbandonata; s'incontrò in Ludovico Porcellaga, che, tutto solo, non però retrocesse; anzi spronato il cavallo, gettò di sella il D'Allegre; ma rimase oppresso dalla turba. Sopragiunse a furia suo fratello Lorenzo Porcellaga; Gastone di Foix, che lo vide grande della persona e valoroso combatter solo contra tutti, si tolse il guanto, si levò la visiera, vietò a' suoi di ferirlo; ma egli combattendo a morte, cadde sul moribondo fratello. – Alla notte Gastone si ricordò dei due prodi, venne a raccòglierli; li accompagnò co' suoi cavalieri al Duomo, ove fùrono deposti; fu visto piàngere sui cadàveri sanguinosi.
L'esèrcito vincitore, invadendo tutte le piazze, spingeva qua e là le turbe indarno combattenti; scannava alla rinfusa nelle strade e nelle chiese i sacerdoti, i vecchj, le donne cogli infanti in collo; gli uccisi d'ambo i sessi fùrono diecisette mila. Per sette giorni il crudel Gastone abbandonò le robe e i corpi d'un pòpolo fedele e infelice a una soldatesca ubriaca; saccheggiato fino i cenci dei poverelli al Monte di Pietà; saccheggiato il luogo degli appestati; le meretrici dell'esèrcito stanziate nei monasterj; per molti giorni file di carri onusti d'ogni maniera di spoglie uscìrono dalla città. Avogadro fu decapitato alla presenza di Gastone, che lo volle squartato, confitte le mìsere membra a quattro porte della città, e il teschio su la Torre del Pòpolo. – Poco di poi gli Spagnoli entràvano in Brescia; la quale ebbe tant'ànimo ancora che tentò di cacciarli, e riunirsi ai Vèneti. Gli Spagnoli la dièdero ai Francesi; e i Francesi, tre anni dopo averla inutilmente straziata, la rèsero ai Vèneti; ai quali, benchè piena d'armi e di spìriti generosi, rimase fedele per poco meno di tre sècoli (an. 1787).
XXXVI.
Fra tante sventure, Màntova sola era un'ìsola di pace e di sicurezza. Fin dai tempi della lega lombarda (an. 1188) Pitentino aveva costrutto la diga di Porto, sollevando le aque del lago a difesa e salubrità; e aveva aperto colla chiusa di Govèrnolo un fàcile accesso alle navi del Po: Màntova, pìccola Venezia, resisteva per due mesi ad Ezzelino, che si vendicò estirpando le vigne e uccidendo i contadini. Stava alla difesa il visconte Sordello di Gòito, quegli che da giovinetto, appresa in Provenza l'arte del trovatore, spargeva per l'Italia versi d'amore, e bersagliava d'ardite sirventi i prìncipi neghittosi; nè l'amore della bella Cunizza sorella del crudele Ezzelino lo faceva infedele alla sua città. Il suo senno vi calmava l'ire cittadine; sventava i tradimenti; insegnava ai Mantovani a chiùdere in serraglio la campagna a ponente della città, onde inondarla a piacimento, e costrìngere i nemici a troppo vasta linea d'assedio. Màntova fu dunque un asilo, ove molti cercàvano sicurtà, màssime dopo che Pinamonte Bonacolsi, capitano del pòpolo, prese ad abbellirla. Ma quando Passerino, fàttosi oppressore de' suoi guelfi, ebbe rinovata la tragedia d'Ugolino, facendo morir di fame, nella torre di Castellaro, Francesco Pico e i suoi figli, i signori di Gonzaga, entrati in città coi Veronesi travestiti, uccisero il tiranno, divènnero capitani del pòpolo. I Visconti non pòsero mai piede in Màntova; l'assalìrono sempre indarno, anche quando, con otto mesi di lavoro, tentàrono sviare il Mincio, e disarmare delle aque la città. I Gonzaga, prodi conduttieri, prestando il braccio ora ai Visconti medèsimi, ora ai Vèneti, ai Fiorentini, ai Francesi, agli Spagnoli, dièdero perizia d'armi ai loro seguaci, e sembiante di potenza militare al piccolo Stato, posto così a traverso al Mincio e al Po. Francesco, l'amico di Carmagnola, ebbe il tìtolo di marchese di Màntova. Federico, che difese Pavìa contro il re Francesco, ebbe il Monferrato in dote di Margherita Paleòloga, e il tìtolo di duca; Ludovico divenne in Francia duca di Névers, combattè cogli Inglesi, respinse da Parigi il prode Coligny; Vincenzo combattè sul Danubio coi Turchi.
Era la sicura Màntova piena d'industria e di commercj; vantava splèndidi ingegni, fra cui basti menzionare Pomponacio, che primo fra i moderni propose i più sublimi dubj sulla necessità e la libertà. Il Mantegna e Giulio Romano èrano chiamati a dipìngere le basìliche del pòpolo e le ville dei duchi; vi si era diffuso un amore d'eleganza e di voluttà, che agli altri Italiani, agitati da continui perìcoli, pareva quella una terra di sirene. E così la stirpe guerriera dei Gonzaga si estinse nella mollezza. – Venne di Francia Carlo di Rhétel, discendente dei Névers; ma l'imperio non volle in un Francese un principato ch'era fèudo dell'imperio; scoppiò la guerra; la città non più agguerrita, desolata dalle fazioni e dai contagj, appena le mancàrono i soccorsi vèneti, si arrese; ma non si ricomprò da un atroce saccheggio, che straziò i tesori delle arti e sperperò il commercio. Andàrono fugitivi i magistrati, sospesi i sacri riti; i pochi avanzi del pòpolo non vàlsero a sgombrare le macerie, piene di cadàveri insepolti. Dopo d'allora i signori di Màntova, piuttosto che prìncipi, furono eleganti e lascivi privati. Nel 1707 Màntova fu presa di nuovo, e abbattute le insegne ducali, diede giuramento all'imperio. Per la prima volta in ottocento anni, una città così vicina a Milano venne compresa sotto una medèsima signorìa; nè più ne venne disgiunta.
XXXVII.
Le grandi calamità che desolarono il nostro paese nella prima metà del sècolo XVI èrano tutte esterne e materiali; non ferìvano il principio della sua vita, perchè non troncàvano le tradizioni d'industria e d'intelligenza, conservate dagli studj letterarj, dalle relazioni mercantili, dalla lìbera concorrenza, dall'inviolàbile diritto consolare, dalla potenza del crèdito. Quindi la ricchezza esàusta risurgeva sempre, le menti èrano piene di vigore e d'alacrità, le arti belle e gli eleganti costumi fiorivano tra i saccheggi e le pesti. – La decadenza intima e vera cominciò colla seconda metà del sècolo, quando, estinta la stirpe sforzesca, si fu rassodato il dominio spagnolo. Il gentiluomo castigliano nella lunga lutta cogli industri Mori e coi trafficanti Israeliti aveva preso odio e disprezzo ai mestieri e alle mercature, come arti di caste infedeli e impure. La insurrezione dei Communeros, e più tardi quella dei Paesi Bassi, avèvano inimicata ai municipj la corte; e la sua profonda e dissimulata ostilità operò lentamente, arrestando e logorando nelle interne sue rote l'azienda d'uno Stato ch'era altamente industriale. – Già gli Sforza, per assicurarsi un soglio vacillante, avèvano restituite alcune esenzioni ecclesiàstiche, infrante dalla rìgida mano dei Visconti; e avevano aggravati di tasse i cittadini. Quando il re Luigi XII si trovò signore di Milano, volle conciliare le famiglie potenti, tenute in troppo stretta disciplina dai duchi. E per verità doveva regnare da paese lontano, e aver pure qualche stàbile fondamento di dominio; e capo d'un regno per eccellenza feudale, forse non sapeva in qual modo si regnasse altrimenti. Instituì dunque un Senato ch'era, al modo degli antichi parlamenti francesi, un tribunale supremo, con diritto di registrare le leggi, ossia di limitare i decreti del re, difesa lontana del principe contro l'importunità e l'arbitrio dei favoriti. Gli Spagnoli, trovata quella istituzione, la promòssero, la rassodàrono, la rèsero inamovìbile, la pòsero sopra tutte le leggi (etiam contra statuta et constitutiones), le commìsero il giudizio delle càuse feudali; e quindi il destino della nobiltà; – l'appello di tutte le cause civili e criminali e l'ùnica giurisdizione in tutte le càuse gravi; e quindi la sicurezza dei cittadini; – il riparto delle imposte; e quindi tutto l'òrdine delle sussistenze, dei salarj, del tornaconto, dell'industria nazionale; – il sindacato di tutta l'amministrazione; e quindi l'obedienza dei magistrati; – la direzione degli studj; e quindi l'intelligenza e l'opinione.
XXXVIII.
Il Senato invase in breve tutte le minori giurisdizioni. Permise ai trafficanti di deviare dal foro mercantile, e con ciò solo estirpò la fede pùblica, atterrò la potenza della cambiale e del contratto, tutto l'edificio del crèdito. Sottopose le arti a tasse ineguali, e coll'èstimo del mercimonio insinuò il cavillo fiscale in tutte le vene dell'industria; poi, per temperarlo, ricorse all'uso e all'abuso dei privilegi, e conturbò tutto l'òrdine dei guadagni e della speculazione. Quando vide sùrgere gigante la miseria pùblica, e assidua la carestìa, punì di morte l'esportazione dei grani; avvilì l'agricultura; e fece primo pensiero e arte suprema di governo il fornir di pane estimato e pesato la plebe della città. – Le famiglie, che all'uso antico d'Italia continuàvano anche nel colmo delle ricchezze un decoroso e nòbile commercio, umiliate al confronto del più squàllido capitano spagnolo, imparàrono a sprezzare la solerzia dei loro antichi, e s'invogliàrono di purificare il sangue coll'ozio. Per esser decurione della città; per sedere nel magistrato di provisione a regolare l'annona, le strade e le osterìe; per èssere appena esente da soprusi e insulti, non bastò più l'antica nobiltà municipale; fu forza ridivenir nòbile all'uso castigliano, far voto d'inerzia perpetua. Le fanciulle fùrono condannate fin dalla nàscita a irrevocàbili voti, per provedere all'orgoglio dei primogèniti. Cento chiostri si dilatàrono per la città, vuota di famiglie e d'officine. L'òrdine degli Umiliati, che colle ingenti sue ricchezze continuava le vetuste tradizioni di patronato mercantile, fu estirpato; e i suoi capitali si spèsero in costruzioni suntuose, a gloria de' suoi nemici, e in dotazioni d'òrdini nuovi che si credevano più adatti ai nuovi tempi.
Gli immensi capitali che si giràvano a Lione, a Parigi, ad Anversa, a Londra, a Colonia, vènnero gradualmente ritirati; e s'investìrono in terre titolari, in ostentazioni signorili, in elemòsine depravatrici della plebe laboriosa. I pòveri artèfici, abbandonati dal capitale, perìrono nelle pestilenze, nelle carestìe, nel diuturno avvilimento; molte arti già famose si obliàrono; molte fùrono trasferite a Zurigo, a Ginevra, a Lione, a Parigi; così le nazioni nuove s'inalzàvano a misura del nostro decadimento. Dalla sola Milano si espatriàrono ventiquattro mila operaj; di settanta fàbriche di pannilani, rimàsero cinque; il fisco senatorio sentendo mancarsi il terreno, pesava tanto più avidamente sugli avanzi sempre più miseràbili dell'industria moribonda. Di duecentomila abitanti di Milano sparìrono 140 mila, e in proporzione si spopolàrono le altre città; e i supèrstiti vissero cenciosi, servili, abjetti, lenti, pieni di stolti terrori. I più animosi si pòsero in clientela dei grandi, si fècero ministri di violenze, di vendette, di puntigli insegnati alla novella gioventù dai vuoti e oziosi Castigliani. Ne scaturìrono le genìe dei bravi; e servìvano alle passioni delle stesse famiglie prepotenti, che nelle leggi e nelle gride minacciàvano loro un teatrale esterminio. Bande di scellerati signoreggiàvano le campagne; spargèvano a luce aperta il sangue nelle stupefatte città; tenèvano sacrìleghe gozzoviglie nei sacri asili; insultàvano nelle chiese alle esequie degli uccisi. Talora la giustizia vergognante e inferocita prorompeva in furori di crudeltà; insanguinava le strade di supplicj studiati e crudeli; il patìbolo era di tempo in tempo uno spettàcolo quotidiano; ma questi sforzi deliri e convulsi non riaprivano le sviate fonti dell'òrdine e della giustizia. Uòmini zelanti avèvano voluto, col ministerio delle nuove congregazioni, rigenerare le famiglie al senno e al costume (an. 1545-1566); e il frutto che dopo due generazioni se ne mieteva, è descritto, e forse troppo parcamente descritto, nei Promessi Sposi e nella Colonna Infame. Ben v'èrano gli uòmini che isolàndosi dalla commune corruttela e stoltezza, si collegàvano cogli studj al senno antico o al progresso straniero. Ma non potèvano ròmpere il nodo che l'interesse dei pochi aveva stretto coll'ignoranza dei molti. Pur tratto tratto ponèvano mano a rappresentanze ed ambascerìe; le quali non èbbero quasi altro effetto che di conservare ai pòsteri qualche documento di buon volere, di senno e di virile eloquenza. Tali fùrono Fabrizio Bossi e Cèsare Visconti (1630).
Se il ducato di Milano fosse stato l'imperio romano, quello era il principio d'una terza barbarie. Ma l'antico ducato era una mediocre provincia; e aveva già lasciato cader d'ogni parte le antiche sue membra; Venezia teneva Brescia, Bèrgamo e Crema; i Grigioni, Bormio, la Val-Tellina e Chiavenna; gli Svìzzeri esercitàvano una venale giurisdizione sopra le valli del Ticino; la Val-Sesia e la Lumellina, e più tardi Alessandria, Tortona, Voghera fùrono aggregate al Piemonte; Gènova non portava più sui mari l'insegna ducale; Pontrèmoli fu venduta alla Toscana; Parma e Piacenza èrano patrimonio dei Farnesi. Ma per quanto una polìtica acciecata facesse, per chiùdere le frontiere, troncare i vicendèvoli commercj, ristrìngere il campo dell'industria e fare del pòvero Stato un ricòvero di miseria, l'Olanda, l'Inghilterra, la Francia e la Germania avèvano raccolto la nostra eredità; ci stàvano intorno piene e traboccanti di vita e di progresso. – La nostra patria doveva risùrgere.
XXXIX.
Al principio del sècolo XVIII era miràbile il fermento che si vedeva nelle nazioni. La Russia si era desta dal sonno dei sècoli; la Prussia era un regno; la stirpe britànnica surgeva a inaspettata potenza, fondava un imperio nelle Indie, e un altro e più glorioso in Amèrica. Il ducato di Milano si era finalmente distaccato dal cadàvere spagnolo, e ricongiunto all'Europa vivente. I dominj austriaci, varj di lingua, e dissociati di civiltà, cominciàrono ad èssere uno Stato, e possedere un principio d'amministrazione e d'unità. Ma se lo spìrito del sècolo e l'ànimo della Regnante additàvano le grandi vie del ben pùblico e della prosperità, gli esperimenti èrano ardui. Nelle provincie germàniche, slave e ungàriche rara la popolazione, rare le città, poche tracce o nessuna d'incivilimento più antico, isolata la posizione su le frontiere di nazioni bàrbare. In Fiandra v'èrano città lavoratrici e ubertose campagne, e vicinanza di nazioni progressive; ma lo spirito dei pòpoli era provinciale, tenace, diffidente. La Lombardia, che già sentiva l'àura del tempo che veniva, e nella sua miseria era pur sempre una terra di promissione, e aveva un pòpolo di mente aperta e d'ànimo caldo e sensitivo, parve ai zelatori del bene come uno di quei campi eletti, in cui l'agricultore fa prova di qualche novella semente. È un fatto ignoto all'Europa, ma è pur vero: mentre la Francia s'inebriava indarno dei nuovi pensieri, e annunciava all'Europa un'era nuova, che poi non riesciva a còmpiere se non attraverso al più sanguinoso sovvertimento, l'ùmile Milano cominciava un quarto stadio di progresso, confidata a un consesso di magistrati, ch'èrano al tempo stesso una scuola di pensatori. Pompèo Neri, Rinaldo Carli, Cesare Beccarìa, Pietro Verri non sono nomi egualmente noti all'Europa, ma tutti egualmente sacri nella memoria dei cittadini. La filosofia era stata legislatrice nei giureconsulti romani; ma fu quella la prima volta che sedeva amministratrice di finanze e d'annona e d'aziende communali; e quell'ùnica volta degnamente corrispose a una nòbile fiducia. Tutte quelle riforme che Turgot abbracciava nelle sue visioni di ben pùblico, e che indarno si affaticò a conseguire fra l'ignoranza dei pòpoli e l'astuzia dei privilegiati, si tròvano registrate nei libri delle nostre leggi, nei decreti dei nostri governanti, nel fatto della pùblica e privata prosperità.
XL.
S'intraprese il censo di tutti i beni, dietro un principio che poche nazioni finora hanno compreso. Si estimò in una moneta ideale, chiamata scudo, il valor comparativo d'ogni proprietà. Gli ulteriori aumenti di valore che l'industria del proprietario venisse operando, non dovèvano più considerarsi nell'imposta; la quale era sempre a ripàrtirsi sulla cifra invariàbile dello scudato. Ora, la famiglia che dùplica il frutto de' suoi beni, pagando tuttavia la stessa proporzione d'imposte, alleggerisce d'una metà il peso, in paragone alla famiglia inoperosa, che paga lo stesso càrico, e ricava tuttora il minor frutto. Questo premio universale e perpetuo, concesso all'industria, stimolò le famiglie a continui miglioramenti. Tornò più lucroso raddoppiare colle fatiche e coi risparmj l'ubertà d'un campo, che posseder due campi, e coltivarli debolmente. Quindi il continuo interesse ad aumentare il pregio dei beni fece sì che col corso del tempo e coll'assidua cura il piccolo podere pareggiò in frutto il più grande; finchè a poco a poco tutto il paese si rese capace d'alimentare due famiglie su quello spazio che in altri paesi ne alimenta una sola. Qual sapienza e fecondità in questo principio, al paragone di quelle bàrbare tasse che presso culte nazioni si commisùrano ai frutti della terra e agli affitti delle case, epperò rièscono vere multe proporzionali, inflitte all'attività del possessore!
Il censo eliminò per sua natura tutte quelle immunità, per le quali sotto il regime spagnolo un terzo dei beni, come posseduto dal clero, non partecipava ai pùblici càrichi, e li faceva pesare in misura insopportàbile sulle altre proprietà. – Il censo divenne fondamento anche al regime communale; i communi nostri divènnero tanti pìccoli Stati minorenni, che, sotto la tutela dei magistrati, decrètano òpere pùbliche, e ne lèvano sopra sè medèsimi l'imposta. Non si vìdero più quelle stentate prestazioni d'òpere, di bestiami, di materiali, ch'èrano spavento dei contadini, e strumento d'oppressione e di corruttela. Si preparò un miràbile sviluppo di strade, con un principio di manutenzione che interessò il costruttore alla màssima solidità e semplicità di lavoro. Ma non è questo il luogo d'annoverare tutte le riforme che s'introdùssero da quei filòsofi: il riparto territoriale, il riscatto delle regalìe, l'abolizione dei fermieri, la tutela dei beni ecclesiàstici, la riforma delle monete.
Dalla metà del sècolo in poi si attivò un'immensa divisione e suddivisione di beni; il numero dei possidenti e degli agiati crebbe nella proporzione stessa in cui crèbbero i frutti. Si cominciò a sciògliere i fedecommessi, che unìvano nelle famiglie la noncurante opulenza dei primogèniti con la povertà, l'umiliazione, la forzata carriera dei cadetti e delle figlie. Si abolìrono le mani morte; si rimìsero nella lìbera contrattazione i loro sterminati beni; si alienàrono i pàscoli communali; si riordinàrono le amministrazioni de' municipj; si rivocò l'educazione pùblica a mani dòcili e animate dallo spìrito del sècolo e del governo; si abolirono i vìncoli del commercio, la schiavitù dei grani, quasi tutte le mete dei commestìbili, e i regolamenti che inceppàvano le arti. La subitanea apparizione delle novelle merci inglesi e francesi scosse il nostro torpore, fomentato dalle proibizioni spagnole, e risuscitò per noi la vita industriale. Si apèrsero strade; si sopprèssero barriere e pedaggi; si ridùssero a tre o quattro ore le distanze tra città e città, che prima si varcàvano a forza di buoi e a misura di giornate. Si abolìrono le preture feudali, in cui per conto di privati si mercava la giustizia; si abolì un Senato, sul quale pesava la memoria di supplizj iniqui e crudeli; si abolìrono gli asili che i ladroni godèvano sui sacrati dei tempj, e dietro le colonnette dei palazzi signorili; non si vìdero più assassini nelle chiese; le sezioni anatòmiche fecero sparire l'aqua tofana; si abolì la tortura, che puniva nell'innocente i delitti dell'ignoto; spàrvero le fruste, le tenaglie infocate, le orrìbili rote, l'inquisizione; in luogo di sotterranei fetenti e di scelerate galere, si fondàrono laboriose case di correzione. Fin dal 1766, sei anni prima che si aprisse il càrcere di Gand, si era applicato il principio della segregazione dei prigionieri; un giorno di cella scontava due giorni di càrcere; si era dunque scoperto che la cella segregante non era strumento di lieve correzione, qual èrasi creduto finallora, ma una pena poderosa, applicàbile ai più gravi delitti, e capace di far più terrore che la morte. Ma qual meraviglia che questi sagaci pensieri nascèssero prima che altrove in quel paese dove Beccarìa non solo era scrittore, non solo porgeva pùblico insegnamento di scienze sociali, ma sedeva autorèvole nei consigli dello Stato?
I bastioni solitarj e paurosi, ove si seppellivano i giustiziati, divènnero ombrosi passeggi; si tolse il lezzo alle strade; e l'òrrida abitazione dei cadàveri si rimosse dalle chiese; si sgombràrono dagli accessi dei santuarj i mendicanti, ostentatori d'ùlceri e di mutilazioni; a poco a poco non si videro più nelle città piedi nudi o àbiti cenciosi. Si apèrsero teatri, ove le famiglie, inselvatichite da sette generazioni, imparàrono a conòscersi, e gustàrono le dolcezze del viver civile, della mùsica, della poesìa. Il genio musicale rispetta e ambisce il giudizio del nostro pòpolo; un solo carnevale in uno dei minori nostri teatri diede al diletto dell'Europa la Sonnàmbula e l'Anna Bolena. Regnò la tolleranza di tutti i culti; e si aperse òspite soggiorno agli stranieri che apportàvano esempj di capacità e d'intraprendenza. S'introdùssero le scienze vive nella morta Università; si fondàrono academie di belle arti; rifiorì l'architettura, l'ornato riprese greca eleganza; s'inalzàrono osservatorj astronòmici; si costrusse la carta fondamentale del paese; si apèrsero nuove biblioteche; le madri tòlsero ai cuochi ed agli staffieri la prima educazione dei figli. Soave rifece tutti i libri elementari; Parini, Mascheroni, Arici ricondùssero l'eleganza letteraria, indirizzàndola ad alti fini scientìfici e morali; Beccarìa lesse economìa polìtica; surse a poco a poco quella costellazione di nomi splèndidi alle scienze e alle arti, Volta, Piazzi, Oriani, Appiani, cogli altri che la continuàrono fino ai viventi. Gli allievi di tanto senno si spàrsero in tutte le provincie, e propagàrono in tutte le classi quel fàusto movimento di cose e di idèe che ci attornia d'ogni parte, e ci arride all'imaginazione.
XLI.
Abbiamo accennato a principio in quale stato la natura desse ai primi nostri progenitori questa terra che abitiamo: al basso, una vicenda d'aque stagnanti e di dorsi arenosi; all'alto, un labirinto di valli intercette da monti inòspiti e di laghi. Abbiamo detto quali pòpoli ci fùrono maestri, o almeno fratelli di cultura: i Lìguri, gli Umbri, i Pelasghi, gli Etruschi, i Romani: e quali ne fùrono inciampo su la via della civiltà, la quale tre volte s'arrestò e decadde: nell'era cèltica, nella bizantina, nell'ispànica. Nessuna istoria offre una più frequente alternativa di beni e di mali, e una più manifesta prova di ciò ch'è veramente giovèvole, o veramente avverso all'umana felicità. Il nostro incivilimento tre volte tornò uno sfrondato tronco; e ogni volta nel rinverdire apparve più rigoglioso e fiorito.
Noi possiamo mostrare agli stranieri la nostra pianura tutta smossa e quasi rifatta dalle nostre mani; sicchè il botànico si lagna dell'agricultura, che trafigurò ogni vestigio della vegetazione primitiva. Abbiamo preso le aque dagli alvei profondi dei fiumi e dagli avvallamenti palustri, e le abbiamo diffuse sulle àride lande. La metà della nostra pianura, più di quattro mila chilòmetri, è dotata d'irrigazione; e vi si dirama per canali artefatti un volume d'aqua che si valuta a più di trenta milioni di metri cùbici ogni giorno. Una parte del piano, per arte ch'è tutta nostra, verdeggia anche nel verno, quando all'intorno ogni cosa è neve e gelo. Le terre più uliginose sono mutate in risaje; onde, sotto la stessa latitùdine della Vandèa, della Svìzzera, della Tàuride, abbiamo stabilito una coltivazione indiana.
Le aque sotterranee, tratte per arte alla luce del sole, e condutte sui sottoposti piani, poi raccolte di nuovo e diffuse sovra campi più bassi, scòrrono a diversi livelli con calcolate velocità, s'incòntrano, si sorpàssano a ponte-canale, si sottopàssano a sifone, s'intrècciano in mille modi. Nello spazio di soli duecento passi, presso Genivolta, la strada da Bèrgamo a Cremona incontra trèdici aquedutti, e li accavalca coi Trèdici Ponti. – Alla condutta di queste aque presiede un principio di diritto, tutto proprio del nostro paese, pel quale tutte le terre sono tenute a prestarsi questo vicendèvole passaggio, senza intervento di prìncipe, o decreto d'espropriazione. Non è questo un vìncolo che infranga il sacro diritto di proprietà; ma un'ùtile aggiunta al diritto, per rèndere più fruttìfera ogni proprietà senza eccezione.
Gli ùltimi scoli di tutte codeste aque sono muniti ai loro sbocchi di chiuse, che arrèstano il rigorgo dei tùrgidi fiumi. – Un canale attraversa per mezzo tutta la provincia Cremonese dall'Ollio al Po; tutti gli aquedutti che còrrono a fecondare la parte inferiore, lo attravèrsano con ponti di pietra, lasciàndovi traboccare le aque che per avventura eccèdano la prefissa misura; e se avviene che diuturne pioggie rèndano superflua l'irrigazione, si chiùdono con porte gli aquedutti, e le loro aque precipitate nel sottoposto scavo si devìano tutte nell'Ollio o nel Po. – La provincia Mantovana è una terra conquistata sulle paludi; i suoi canali di scolo sòmmano a 754 mila metri; le stesse aque che accèrchiano la città, sono una palude trasformata per arte in lago navigàbile.
Le linee d'interna navigazione, percorse in parte da vaporiere, sòmmano a 1200 chilòmetri; e ripartite sulla superficie ragguàgliano per ogni chilòmetro 56 metri, mentre il Belgio ne ha solo in ragione di 48, e la Francia di 27, e non tutti d'aque perenni. Un paese al tutto mediterraneo come il nostro s'avvicina per questo aspetto all'Olanda. I nostri canali, navigàbili ad un tempo e irrigatorj, sono costrutti sopra un principio speciale; non sono una serie di tronchi orizontali come i canali oltremontani di mera navigazione, ma sono veri fiumi, prima inclinati fortemente, poi progressivamente moderati, per accògliere di tronco in tronco le diseguali masse d'aqua, che l'irrigazione vien successivamente emungendo.
Una volta impresso il moto, quest'òrdine di cose si continuò uniforme attraverso alle più varie vicissitùdini dei tempi. Ogni anno segnò sempre per noi qualche nuovo grado di prosperità; ogni anno più vasta la rete stradale; ogni anno più folta la piantagione dei gelsi, prima riservata ai colli, poi distesa in veri boschi sui piani dell'Ollio e dell'Adda, e salita fino a mille metri d'altezza nelle valli alpine, produttrice d'un'annua raccolta di cento milioni di franchi, in un territorio che corrisponde alla 26.a parte della Francia. Sempre più diffuse, ma più accurate e quindi meno insalubri le irrigazioni; si mùtano in buone case i tugurj dei contadini; pènetra in tutte le communi rurali il principio dell'istruzione; tolta cogli asili dell'infanzia l'abjetta ferocia e la rozzezza ai figli della plebe; gli studj delle lèttere e delle arti accommunati al sesso gentile; e colle solenni mostre diffuso l'amor delle belle arti nel pòpolo, e un àbito d'eleganza negli ùtili mestieri.
XLII.
Su la nostra pianura tutti gli abitati si collègano con buone strade, che ragguàgliano in circa un chilòmetro di lunghezza per ogni chilòmetro di superficie. La rete stradale involge ormài tutte le colline, sino all'altitùdine d'ottocento metri; trafora con gallerìe le rupi verticali che interròmpono le riviere dei laghi; s'insinua nelle valli alpine, raggiunge i sommi gioghi; difende contro le vallanghe i più alti passi carrozzàbili che sìano sul globo. La via del Sempione, che fu il modello di tutte, è òpera de' nostri ingegneri, che condùssero anche quelle della Spluga e dello Stelvio. Ingegneri nativi di quell'antica parte del nostro territorio che aggregossi alla Svìzzera, tracciàrono le vie del Gottardo e del Bernardino. I nostri imprenditori sono sparsi per le terre dei Grigioni, dei Tirolesi, degli Illirj, dei Boemi, dei Galiziani, insegnando loro a protèndere attraverso ai monti i vìncoli d'una crescente civiltà. Le nostre òpere stradali pòrtano tratto tratto i segnali d'una magnificenza romana; il ponte che congiunge le due rive del Ticino, a Buffalora, si stende per trecento e più metri con ùndici arcate di granito. – Le strade ferrate non ci sono ignote; una linea è compiuta da quattro anni; due sono cominciate; altre sono studiate e discusse.
L'uomo con tutte queste òpere d'aque e di strade ha preso possesso di tutte le terre coltivàbili; e ad ogni condizione di terreno adattò un òrdine proprio di coltivazione, un più ampio o più minuto riparto nella possidenza, un proprio tenore di contratti.
XLIII.
È assai malagèvole pòrgere una succinta idèa della nostra agricultura nelle diverse provincie, per la strana sua varietà. Mentre in una parte d'un territorio il riso nuota nelle acque, un'altra non può abbeverare il bestiame se non di vecchie aque piovane o colaticce, o tratte a forza di braccia da pozzi profondi fino a cento metri. Un distretto è continuo prato, verde anche nel verno, folto d'armenti, ridondante di latticinj; un altro raduna a stento poco latte caprino, coltivando piuttosto a giardini che a campi l'olivo e il limone, la più elegante di tutte le agriculture. Nei monti si coltiva la cànapa, ed è quasi ignoto il lino; intorno a Crema e Cremona il lino è primaria derrata campestre, e la cànapa è negletta. La pianura pavese si allarga in ampie risaje, poco cura il gelso; e la pianura cremonese ne ha le più folte e robuste piantagioni. Il vino è la speranza dell'agricultura in ambo le opposte estremità del paese, nella boreale e alpestre Val-Tellina, e nelle australi pianure di Canneto, di Casalmaggiore, e dell'Oltrepò. L'agricultura bresciana solca profondamente a forza di bovi un terreno tenace; la lodigiana sfiora i campi con un lieve aratro tratto da sollèciti cavalli, per non sommòvere le pòvere ghiare, sopra le quali il lavoro dei sècoli ha disteso uno strato artificiale.
XLIV.
Le circostanze naturali che vògliono questa varietà nel modo di coltivar le terre, la vògliono anche nel modo di possederle. Nella pianura irrigua un podere che non avesse certa ampiezza non si potrebbe coltivare con profitto, perchè richiede complicate rotazioni, culture moltèplici, difficili giri d'aque, e una famiglia intelligente che ne governi la complicata azienda; quindi ogni podere forma un considerèvole patrimonio. La famiglia che lo possiede è già troppo facoltosa per appagarsi di quella vita rurale e solitaria, in luoghi non ameni; dimora dunque in città; villeggia sugli aprichi colli e sui laghi; e sovente conosce appena per nome il latifondio che la nutre in quell'ozio. La coltivazione trapassa alle mani d'un fittuario, il quale per condurre debitamente l'azienda debb'esser pure capìtalista; e ve ne ha taluni più ricchi dei proprietarj, e talvolta possessori essi d'altre terre, confidate ad altri coltivatori. Vivendo nel mezzo d'ogni abondanza domèstica, circondati di numerosi famigli e cavalli, fòrmano quasi un òrdine feudale in mezzo a un pòpolo di giornalieri, che non conòscono ulteriori padroni. Qui surge un òrdine sociale affatto particolare. Un distretto che abbia una ventina di communi e misuri un centinajo di chilòmetri, conta in ogni commune quattro o cinque di queste famiglie, che spesso vìvono in casali isolati, a guisa degli antichi Celti. Sono sparsi fra mezzo a loro alcuni curati, qualche mèdico, qualche speziale, il commissario, il pretore che amministra la giustizia e le tutele famigliari. Questa è l'intelligenza del distretto; tutto il rimanente è nùmero e braccia. Ogni coltivatore vende grani, e compra bestiami, e òccupa fabri e falegnami; ma il commercio e l'industria non vanno oltre; appena qualche bottega serve al rùstico apparato del contadino. Si direbbe che questo è l'antico modello su cui si formò l'agricultura britànnica. Ecco gli uòmini che sotto le mura di Pavìa e appiè del castello di Binasco andàvano senz'armi ad affrontar Bonaparte vincitore di Montenotte e di Lodi.
XLV.
Se dal fondo della pianura saliamo ai monti, troviamo un ordine sociale infinitamente diverso. Le rìpide pendici, ridutte in faticose gradinate, sostenute con muri di sasso, su le quali talora il colono porta a spalle la poca terra che basta a fermare il piede d'una vite, appena danno la stretta mercede della manuale fatica. Se il coltivatore dividesse gli scarsi frutti con un padrone, appena potrebbe vìvere. La terra non ha quasi valore, se non come spazio su cui si esèrcita l'òpera dell'uomo, e officina quasi del coltivatore; e il paesano è quasi sempre padrone della sua gleba; o almeno livellario perpetuo; con altri patti le vigne e gli oliveti ritornerèbbero ben presto selva e dirupo. Mentre una parte della famiglia vi suda, e alleva all'amore del suolo nativo la pòvera prole; un'altra parte scende al piano ad esercitarvi qualche mestiere; o si sparge trafficando oltremonte, e riporta alla famiglia i risparmj, che le danno la forza di continuare la sua lutta colla natura e colla povertà. Un distretto di questa fatta conta tante migliaja di proprietarj quante sono le famiglie; ma la ricchezza non viene dal suolo, e vi s'investe come frutto delle arti o del tràffico. Laonde si vede una singolar mistura di costumi rusticali e d'esperienza mondana, l'amore del lucro e l'ospitale cordialità, la facilità di saper vìvere in terra straniera, e l'inestinguìbile affetto di paese, che presto o tardi fa pensare al ritorno. – In alcuni monti la possidenza privata è ancora un'eccezione; il commune possiede vastamente i pàscoli e le selve e le aque e le miniere; nè basta sempre l'esser nato da gente nata in paese; ma bisogna appartenere ai patrizj del commune, agli originarj. Senza avvedersi, essi consèrvano ancora una communanza, la quale rimonta alle genti cèltiche; appena ha fatto luogo qua e là al possesso romano; e non mai sofferse vera signorìa feudale, ma onorò solo negli antichi conti e capitani il nome del prìncipe e l'autorità delle leggi. Alcune di queste communanze, pochi anni or sono, tenèvano ampie valli; la Leventina, lunga più di trenta miglia, era un solo commune; e si suddivise prima in otto e poscia in venti; il distretto di Bormio era un solo commune, e ancora conserva indivisa fra i nuovi communi molta parte dell'antica proprietà. In molti luoghi il commune pìccolo si distingue dal commune grande, o diremo la moderna parochia dal primitivo clano. Questo regime appare più puro ed assoluto in quelle valli che si aggregàrono alle leghe dei Grigioni, e sopratutto nella Mesolcina, perchè sfuggìrono alle riforme dei governi amministrativi.
Alcune delle estreme valli sono troppo alpestri per l'agricultura; la neve le ingombra nove mesi dell'anno, ma le trova deserte e silenziose. Chiusi i pòveri casolari, il pastore discende per le valli coll'armento; gli uòmini appiedi; le donne sui cavalli, cogli infanti nelle ceste come le tribù dell'oriente. A brevi giornate di cammino la carovana si arresta dove il contadino del piano l'aspetta; le vacche alpine stànziano qualche giorno a brucare gli esàusti prati; poi, inseguite dalle brine, pàssano a più bassi campi, fino ai prati perenni. Quando la natura si riapre, la famiglia ritorna al suo viaggio, rivede fioriti i campi che lasciò bruni e squàllidi; risale lungo i tortuosi torrenti, trova i pochi che rimàsero nella valle a diradare le selve, e sudare alle fucine; e si sparge sulle alpi, che così chiama ancora quei pàscoli dove la primitiva communanza non conosce altra disegualità che il nùmero degli armenti.
XLVI.
Fra questi estremi, sono le belle colline coltivate come il monte, ubertose come il piano. Quivi una contadinanza, la quale non possiede la sua terra, eppure non emigra, può tributare al padrone il frumento, divider seco il vino e i bòzzoli, e serbar tanto per sè da vìvere colla famigliola, e allevarla nel sèmplice tenore de' suoi padri. Quivi un commune è disseminato in venti, in trenta, in quaranta casali di vario nome, che la chiesa, posta sul poggio più ameno, raccoglie in un commune sentimento di luogo. Lìberi di coltivare la terra a loro talento, purchè non si defràudi dal pattuito frutto il proprietario, essi le sono affezionati come se fosse loro proprietà. Se il padrone si muta, il colono subisce la legge del nuovo; e talvolta una famiglia dura da tempo immemoràbile sullo stesso terreno. Tutto l'anno è un continuo lavoro; le viti, il gelso, il frumento, il granoturco, i bachi, le vacche, la vangatura e la messe, il bosco e l'orto danno una perenne vicenda di cure, che desta l'intendimento, la previdenza e la frugalità. Lavorando sempre in mezzo alla famiglia, senza comandare nè obedire, il contadino pur si collega al lontano commercio pel prezzo de' suoi bòzzoli, e pel lavoro che la seta porge alle sue donne. Nei siti meno lieti e più rìpidi, dove il cittadino non ama investire capitali, l'agricultore è spesso il padrone del suo terreno; e rappresenta quello stato sociale ch'era così sparso negli aborìgeni, quando fùrono i sècoli della maggior forza d'Italia e del più puro costume.
Questi aspetti della vita rusticale nel piano, nel monte e nel colle, si spiègano talvolta in modo aperto e risoluto; ma trapàssano per lo più dall'uno all'altro, con varia tessitura, che il commercio e l'industria rèndono più complicata. Questa varietà palesa quanto l'agricultura sia antica fra noi, ed in quanti particolari modi abbia sciolto i singoli problemi che le varietà naturali del paese avèvano proposto.
XLVII.
Per effetto di tuttociò, la pianura lombarda è la più popolosa regione d'Europa. Essa conta per ogni chilòmetro di superficie 176 ànime, mentre la pianura bèlgica ne ragguaglia solo 143. E se si comprende nel còmputo anche la parte alpina, ancora si hanno 119 abitanti, dove la Francia ne conta solo 64, e nella sua parte meridionale, che è più meridionale della Lombardia, soli 50. La popolazione specifica nelle Isole Britànniche e nell'Olanda giunge solo a due terzi della nostra; nella Germania alla metà; nel Portogallo e nella Danimarca a un terzo; nella Spagna a un quarto; nella Grecia a un ottavo; nella Russia a un dècimo. – Il nostro pòpolo adunque per effetto di principj amministrativi al tutto suoi, come quelli del censo perpetuo, delle sovrimposte communali, e della servitù vicendèvole d'aquedutto, fecondò in tal modo la sua terra, che sovra lo spazio dove la Francia nutre una famiglia, ne nutre all'incirca due, pur pagando a proporzione di superficie la stessa somma d'imposte. – Le nostre communi rurali hanno maggior nùmero di scuole; e il tràffico e l'industria s'intreccia più intimamente a tutti gli òrdini d'agricultura e di rotazione, sicchè non abbiamo turbe d'industrianti, che non tèngano qualche ferma radice nel terreno della patria. Il ferro, la seta, il cotone, il lino, le pelli, il zùccaro sono oggetti di grandiosa manifattura. Il lavoro del ferro, in ragione all'ampiezza del paese, porge tra Como, Bèrgamo e Brescia una cifra non mediocre, otto milioni di franchi; Milano e Como còntano più d'otto mila telaj di seta, e novanta mila fusi di cotone; la sola Olona ànima 424 rote motrici.
XLVIII.
Il pòvero riceve una più generosa parte di soccorsi che altrove. Nel 1840 si contavàno 72 ospitali; in un triennio s'aggiùnsero altri 6; altri 7 si stanno edificando; e sono aperti a tutti, senza patronato, senza favore, alla sola condizione dell'infermità e del bisogno. Il patrimonio stàbile di questi ospitali ha un valore venale di duecento milioni. Il solo ospitale di Milano ricetta nel corso d'un anno 24 mila infermi; Parigi, che ha una popolazione più che quàdrupla, ne ricetta ne' suoi ospitali solo il triplo. Londra ne ricetta quanto Milano; epperò, a proporzione di pòpolo, là si soccorre un infermo, dove qui se ne soccòrrono dieci. Il pòvero è sovvenuto di mèdici, di medicine e di chirurghi anche nelle sue case, non solo nella città, ma nelle più remote campagne. La metà incirca dei mèdici e dei chirurghi, e tre quarti delle levatrici, hanno stipendio dai communi, a sollievo delle famiglie pòvere. Il nùmero dei mèdici è in ragguaglio di uno sopra 13 chilòmetri quadri di paese, mentre nel Belgio ogni mèdico ha un doppio campo di vigilanza. Questo esèrcito sanitario di mèdici, di chirurghi, di speziali, di veterinarj, di levatrici, somma a poco meno di cinque mila persone. – In pari misura il paese è provisto d'ingegneri, i quali nella sola città di Milano ammontano a circa 450, mentre il corpo d'aque e strade in tutta la vastità della Francia ne conta solo 568; il che agèvola ogni òpera d'aque e di strade. Il nùmero grande delle classi istrutte, poste in assiduo contatto colla popolazione, esèrcita una benèfica influenza a rimòvere i pregiudizj, e insinuare un retto senso d'utilità.
Gli abitanti delle città sono quattrocentomila; e molti òppidi e borghi di sei, di otto, di diecimila abitanti, benchè non àbbiano nome di città, còntano numerose famiglie civili; la possidenza è diffusa in tutte le classi; onde, ogni cosa considerata, è forse questo il paese di Europa che offre il maggior nùmero di famiglie civili in proporzione all'inculta plebe.
XLIX.
I fasti delle nostre scienze e lèttere non sono oscuri; comìnciano con Catullo, con Virgilio, con Plinio il giòvine; la lingua latina tramonta col nostro Boezio; ma presto gli studj risùrgono con Lanfranco pavese, con Sordello mantovano, con Albertano ed Arnaldo da Brescia; nella giurisprudenza e nella filosofia risplende Alciato, Pomponacio, Beccarìa; nelle matemàtiche e nelle fisiche, Cardano, Tartalia, che primo sottopose a càlcolo le artiglierìe, Cavalieri, scopritore d'una scienza, Piazzi scopritore d'un pianeta, e Volta che trovò la maggiore e più feconda delle scientifiche scoperte. – Virgilio e Volta sono due nomi noti a tutti i pòpoli civili, e danno a questa angusta provincia uno splendore, che non ha la vasta Spagna e la vastissima Russia.
Il nostro dialetto, nei cordiali e schietti suoni del quale si palesa tanta parte della nostra ìndole, più sincera che insinuante, porta impresse le vestigia della nostra istoria, le orìgini cèltiche si manifèstano indelebilmente nei suoni; le romane nel dizionario; qualche lieve solco, lasciato dall'infeconda età longobàrdica, a gran pena si discerne, mentre vi giàciono inesplorate ancora le tracce di qualche cosa che fu più antico e più nativo dei Romani e forse dei Celti. I confini entro cui si parla questo linguaggio e gli altri affini suoi, rappresèntano tuttora la geografia dei sècoli romani; documento istòrico che attende ancora chi ne sappia trar lume ad ardue induzioni. Questo dialetto, inosservato all'Europa, ma parlato da più d'un milione di pòpolo, ha due sècoli di letteratura. Uòmini d'ingegno e di studj e d'alto affare si finsero plebe, affilàrono coll'acerbità popolare l'ottusa verità. Maggi, Tanzi, Balestrieri lo scrìssero non conoscèndone ancora la potenza satirica; Parini e Bossi vi apportàrono l'elegante àbito delle lèttere e delle arti; e Carlo Porta, poeta d'altìssimo ingegno, alla naturalezza del dipinto fiammingo congiunse la forza còmica di Molière, il frizzo di Giovenale, l'efficacia contemporanea di Béranger. Nella Fugitiva di Grossi il dialetto toccò gli affetti; e si conservò negli officj troppo necessarj della sàtira civile in Rajberti.
L.
Lo straniero vede chi noi siamo. I nostri padri fùrono più prodi che fortunati; e noi possiamo dire che la nostra generazione fu sìmile alle trapassate. Vìvono ancora fra noi le reliquie di quegli esèrciti che, improvisati da Napoleone, militàrono sotto le mura di Gerona e di Valenza, sui campi sanguinosi d'Austerlitz e di Raab, che dopo aver combattuto a Malo-Jaroslavetz conservàrono su la Beresina una disciplina e una alacrità superiori ai disastri; e in guerra che tornava a gloria d'altra nazione poco lodata per gratitùdine, sostènnero, fin dopo la caduta del loro capo, tutti i doveri della fedeltà militare.
Noi abbiamo recato il nostro tributo alle lèttere, alle arti, alla filosofia, alle matemàtiche, all'idràulica, all'agricultura, all'elettrologìa; l'Enèide di Virgilio e il Giorno del Parini, il Duomo e la Certosa, il libro dei Delitti e delle Pene e i primi càlcoli della balìstica, tutta l'arte dei canali navigàbili, i prati perenni, la pila voltiana. Noi, senza dirci migliori degli altri pòpoli, possiamo règgere al paragone di qual altro sìasi più illustre per intelligenza, o più ammirato per virtù; e aspettiamo che un'altra nazione ci mostri, se può, in pari spazio di terra le vestigia di maggiori e più perseveranti fatiche. È una scortese e sleale asserzione quella che attribuisce ogni cosa fra noi al favore della natura e all'amenità del cielo; e se il nostro paese è ubertoso e bello, e nella regione dei laghi forse il più bello di tutti, possiamo dire eziandìo che nessun pòpolo svolse con tanta perseveranza d'arte i doni che gli confidò la cortese natura.