LA TEOCRAZIA TRA MAX WEBER E MARTIN BUBER

 

Premessa

 

Che cos’è la teocrazia

 

Che cos’è la teocrazia per Martin Buber

 

Pensiero dialogico per Martin Buber

 

Utopia e Regno di Dio secondo Martin Buber

 

Il compito dell’educatore e la pienezza di ogni ora mortale di appello e responsabilità, in Martin Buber

 

Buber e la tradizione del chassidismo

 

Su Buber e Jaspers. Ipotesi per un confronto

 

Il problema teologico

 

Buber filosofo politico

 

Introduzione

 

L’utopia tra profezia e apocalittica

 

Socialismo utopistico e marxismo

 

Comunità e federazione

 

Società e Stato

 

Religione  e politica

 

Regno di Dio e storia

 

Conclusione

 

Che cos’è la teocrazia per Max Weber

 

Il Beruf e la razionalizzazione del lavoro

 

Il concetto di Beruf

 

Beruf e la politica

 

Beruf e professione

 

La leadership carismatica: religione e politica

 

Il potere carismatico

 

Il carisma come dono

 

Il carisma come riconoscimento

 

La situazione carismatica

 

La comunità emozionale

 

Le trasformazioni del potere carismatico

 

Il leader politico

 

Confronto tra i due pensatori

 

Bibliografia

 

 

 

Che cos’è la teocrazia?

 

Regime politico caratterizzato da un tipo di potere la cui legittimazione e investitura ha natura religiosa. Una prima forma di teocrazia, più frequente nell’antichità, è quel regime politico, in cui il potere viene designato e legittimato da una casta sacerdotale. Ne sono esempi tipici gli antichi regni di Giuda, di Babilonia e d’Egitto. Nel Medio Evo teocratico era il Sacro Romano Impero, in cui il monarca era incoronato dal papa. Una seconda forma di teocrazia (o regime cesaro-papistico) è quel regime in cui il monarca secolare, proclamandosi direttamente investito da Dio, assume e esercita anche il potere religioso. Ne sono esempi il Celeste Impero cinese, il Principato romano, il Callifato arabo, l’Impero del Mikado giapponese, l’Impero zarista russo. Qualche autore restringe il termine alla connotazione di questo secondo regime, che si è comunque dimostrato più duraturo nella storia. In esso le questioni religiose sono avocate allo Stato costituendo un particolare settore dell’amministrazione che pone al tempo stesso a disposizione del potere spirituale i mezzi di coercizione tipici dello Stato.

 

Che cos’è la teocrazia per Martin Buber?

 

Sia l’interpretazione della storia, sia la vicenda della coscienza ebraica sono viste da Buber alla luce di una concezione <<dialogica>>: come dialogo tra Dio e il popolo eletto da un lato, dell’uomo con gli altri uomini, la natura e le essenze spirituali dall’altro. La relazione personale libera e feconda si esprime secondo Buber nel rapporto io-tu, mentre il rapporto io-esso esprime la relazione in autentica e manipolatoria dell’oggetto; è solo il rapporto io-tu che consente all’uomo autentico di prendere coscienza della propria soggettività. La stessa visione <<dialogica>> è un embrione nelle opere giovanili impreniate sul tema del chassidismo inteso come dialogo tra cielo e terra, che solo consente una fede autentica vissuta nella santificazione di ogni giornata. Buber, che accetta la via cristiana come possibile via di redenzione, ebbe notevole influsso sul pensiero cristiano.

Nella religione biblica, Buber rintraccia tre fondamentali principi-base, che egli pone a fondamento del proprio pensiero filosofico: la tendenza all’unità – l’ideale messianico – l’azione nel mondo come unica via all’attuazione del messianesimo. Con il rispondere a queste tre fondamentali esigenze dello spirito, l’uomo potrà attuare la religione come etica, ed agire per Dio nel mondo.

Secondo il pensiero di Buber, il rapporto diremo verticale, dell’uomo con Dio non deve togliere validità ai rapporti orizzontali mediante i quali egli è legato al suo mondo e attraverso i quali soltanto può trovare il valore positivo del proprio essere. L’uomo che si raccoglie nella propria unità di “persona” può aprirsi all’altro per il raggiungimento della più vasta unità del “corpo politico” e questo per la <<unità tra tutti i popoli, tra l’umanità e tutto ciò che vive, e l’unità tra Dio e il mondo>>.

Il pensiero di Buber ha un duplice aspetto: <<E’ un pronunciamento religioso per lo meno quanto un’analisi conoscitiva>>, come lo definisce il noto teologo protestante Paul Tillich. Questi due aspetti sono inscindibili nella realtà del suo pensiero, tanto essi sono intimamente compenetrati. Tutte le sue opere, infatti, sono permeate da una persuasione di fede che si esprime in termini altamente poetici. Si sprigiona dalle sue pagine una potente religiosità dotata di una profonda forza di convinzione, e la lettura diviene un vero colloquio da “singolo” a “singolo” tra il lettore e lo scrivente, affratellati dalla ricerca dell’<<autocomprensione esistenziale>>.

Nel suo senso originario, <<teocrazia>> significa <<potere di Dio>>, nel senso della lettera di Paolo: <<non est potestas, nisi a Deo>>. Questa teoria dell’origine divina del potere non contrasta con la teoria della sovranità popolare. In altro senso, teocrazia significa predominio del potere spirituale (papa) sul potere temporale (imperatore).

 

Pensiero dialogico per Martin Buber

Piuttosto che di pensiero dialogico per Buber è opportuno parlare di pensiero relazione, compiendo però già in questo modo una sorta di contradictio perché della relazione non si dà e non può darsi una filosofia o un pensiero se non riflesso e quindi già oltre la relazione. Questa semplicemente è o non è, ma il fatto che ci sia o no, marca la differenza tra due atteggiamenti e in qualche modo tra due ontologie. Il principio è la relazione, a partire da questa affermazione è possibile ridefinire la soggettività e la intersoggettività ed è, di fatto, ciò che Buber realizza. Ich und Du pubblicato nel 1923 inizia così: <<Il mondo ha due volti per l’uomo, in conformità al suo duplice modo di essere.

Duplice è il modo di essere dell’uomo, in conformità al dualismo delle parole-base, che egli può pronunciare.

Le parole-base non sono singole parole, ma coppie di parole.

Una parola base è la coppia Io-Tu.

Un’altra parola base è la coppia Io-Esso; senza mutare questa parola-base, si può sostituire a Esso anche Lui o Lei.

Con ciò anche l’Io dell’uomo ha due volti.

Poiché l’Io della parola-base Io-Tu non è lo stesso Io della parola-base Io-Esso.

Le parole-base non asseriscono qualcosa che stia fuori di esse, ma una volta pronunciate danno vita a un esistente.

Le parole-base non si possono pronunciare separate dall’essere.

Quando si pronuncia il Tu, con esso si pronuncia anche l’Io della coppia Io-Tu.

Quando si pronuncia l’Esso, si pronuncia anche l’Io della coppia Io-Esso.

La parola-base Io-Tu può essere pronunciata soltanto unitamente alla totalità dell’essere.

La parola-base Io-Esso non può mai essere pronunciata unitamente alla totalità dell’essere.

Non v’è un Io un sé, ma solo l’Io della coppia Io-Tu e l’Io della coppia Io-Esso.

Quando l’uomo dice “Io”, intende uno di questi due. Quell’Io che egli intende è presente quando parla. Anche quando l’uomo dice Tu o Esso, è l’Io dell’una o dell’altra parola-base che è presente.

Essere Io e dire “Io” sono una stessa cosa. La stessa cosa è dire “Io” e dire una delle due parole-base.

Chi pronuncia una parola-base, “entra” nella parola e vi sta>>.

L’Io si dice solo in connessione con il tu o con l’esso, ciò significa che non si dà io isolato se non come astrazione falsificante la sua realtà. Alla sua duplice dicibilità corrisponde un diverso atteggiamento che implica una sorta di qualificazione ontologica.

Partendo dalla parola base (Grund-Wort) Io-Esso. E’ l’ambito del conoscibile, dello sperimentale, della scienza e prima ancora è l’ambito dove l’io si scopre soggetto dell’esperienza. L’esperienza a sua volta si manifesta produttivamente come costruttrice dell’oggettività del mondo. L’oggettivazione è una sorta di produzione di unità in vista dell’utilizzazione da parte di un soggetto. Le pagine che Buber dedica all’Es in questa prospettiva, sono state anticipatrici soprattutto nella direzione di questa concessione conoscere-utilizzare, cioè scienza-tecnologia.

Io-Tu: <<L’Io della parola-base Io-Tu è diverso della parola-base Io-Esso.

L’Io della parola-base Io-Esso appare come una individualità e acquista coscienza di sé come soggetto (dello sperimentare e dell’utilizzare).

L’Io della parola-base Io-Tu appare come persona e acquista coscienza di sé come soggettività (senza un genitivo dipendente).

L’individualità appare in quanto si distingue da altre individualità.

La persona appare in quanto entra in relazione con altre persone.

Questa è la forma spirituale della indipendenza naturale, quella è il legame naturalizzato.

Lo scopo dell’autoseparazione è sperimentare e utilizzare, e lo scopo di questi è la “vita”, cioè la produzione di quel continuo morire che è la vita dell’uomo.

Lo scopo della relazione è la sua stessa essenza, ovvero il contatto con il Tu; poiché attraverso il contatto ogni Tu coglie un alito del Tu, cioè della vita eterna.

Chi sta nella relazione partecipa a una realtà, cioè a un essere, che non è puramente in lui né puramente fuori di lui. Tutta la realtà è un agire cui io partecipo senza potermi adattare ad essa.

Dove non v’è partecipazione non v’è nemmeno realtà. Dove v’è egoismo non v’è realtà. La partecipazione è tanto più completa quanto più immediato è il contatto del Tu.

E’ la partecipazione alla realtà che fa l’Io reale; ed esso è tanto più reale quanto più completa è la <<partecipazione>>. Dalla pagina buberiana possiamo desumere che la parola-base io-tu indica una <<realizzazione>> dell’io come persona che si trova immediatamente inserito nel mistero-evento della relazione. Dire tu significa entrare nella relazione e permanervi. Non però nella linea dell’esperienza oggettivante, bensì del contatto immediato. Buber parla esplicitamente di oltrepassamento di qualsiasi mediazione e medialità. Inoltre la relazione è per sua essenza esclusiva cioè totale. L’evento dialogico ha come condizione della sua possibilità, come criterio la totale, illimitata presenza del partner. Questa presenza illimitata è la sua esclusività. E’ questo il senso dell’affermazione di Buber <<Chi dice tu non ha qualcosa (come oggetto), non ha nulla. Ma sta nella relazione>>, cioè oltrepassa l’ambito esperienziale e si colloca in quella dimensione personale della reciprocità che è lo Zwischen, il tra (<<la categoria originaria della realtà umana>>). Solo in questo contesto sorge il dialogo, perché solo in questo ambito dire diventa dialogare. E’ questo un punto molto importante su cui conviene fermarsi anche per la valenza di alternativa antropologica che assume in Buber. Molto opportunamente Anzenbacher nota: <<Il tra non è una costruzione ausiliaria, bensì veramente luogo e supporto della relazione. Io e Tu si incontrano, accorgendosi l’uno dell’altro, in una sfera che è del tutto diversa da quella del proprio ambito privato. Questa sfera come tutta la realtà dialogica, non è una continuità, ma è costituita da ogni nuovo incontro umano>>. In questo spazio dell’incontro si esercita la reciprocità e la mutualità, si realizza il dialogo nella comunicazione partecipante, ma in pari tempo è il luogo dove lo spirito che è parola (Wort) diviene risposta (Antwort) e assunzione di responsabilità (Verantwortung) sia della situazione dialogica sempre inedita, sia della realizzazione del Tu. Nella relazione dialogica i due partners sono persone che realizzandosi come tali realizzano la relazione e viceversa. Non siamo di fronte a un circolo vizioso, piuttosto si deve parlare di dinamicità. Tutte le analisi compiute della parola-base, della realtà, dell’esperienza, della relazione conducono Buber come abbiamo visto a porre una distinzione tra individuo e persona che si ripresenterà in Il problema dell’uomo come provocazione al nostro tempo diviso tra individualismo e massificazione. La nozione di persona implicante quella di relazione dialogica può costituire oggi il << sentiero dell’utopia>>, o anche, come dice Buber, la risposta a una chiamata della storia.

Per Buber il compimento/inveramento della relazione si realizza nel Tu eterno, punto di convergenza di tutte le possibili relazioni. Scrive egli introducendo la III parte di Ich und Du: <<Le linee delle relazioni, prolungate, si intersecano nell’eterno Tu.

Ogni singolo Tu è un canale d’osservazione verso il Tu eterno. Attraverso ogni singolo Tu proviene ad esse la pienezza e la non pienezza delle relazioni. Il Tu innato si realizza in ogni relazione senza attuarsi completamente in nessuna. Si attua completamente solo nella relazione immediata con il Tu, che per la propria natura non può divenire Esso>>.

 

Utopia e Regno di Dio secondo Martin Buber

L’utopia descrive qualcosa di desiderabile, che non è ancora presente, non è in alcun topos. Mentre l’escatologia religiosa attende la realizzazione di un tempo perfetto, è allo spazio perfetto che si rivolge l’utopia, ad un topos che non è ancora, ma che sarà la verità di domani. E mentre l’escatologia attende un Messia sovraumano, l’utopia, questa immagine del non-presente, verrà realizzata dall’uomo nella storia: <<Escatologia significa compimento della creazione, utopica esplicazione delle possibilità di un ordinamento “giusto” latenti nella convivenza umana. Più importante è un’altra differenza. Per l’escatologia – anche se nella sua forma elementare, profetica, assegna all’uomo una rilevante parte attiva nell’avvento della redenzione – l’atto decisivo viene dall’alto; per l’utopia tutto è soggetto alla cosciente volontà umana, tanto che si potrebbe addirittura definirla come un’immagine della società in cui non vi sono altri fattori all’infuori della consapevole volontà dell’uomo>>.

L’utopia nasce dallo spodestamento del messianismo escatologico. Ora una distinzione costante negli scritti di Buber definisce due tipi di messianismo: il primo è quello dei profeti di Israele, i quali rimproverano gli uomini che hanno tradito la volontà di Dio e li richiamano alla conversione interiore ed alla decisione per Dio; il secondo è l’ascesa apocalittica, originariamente iraniana, che accentua la redenzione cosmica e minimizza la realtà e la volontà redentiva dell’uomo. Questa dicotomia costituisce una costante del pensiero di Buber. Entrambe le esperienze, quella profetica e quella apocalittica, sono messianiche e si fondano sulla fede nel Dio signore della storia.

Ma il mondo in cui esse annunciano l’intervento divino è diverso. Il messaggio dei profeti si radica nella originarietà e imprescindibilità del dialogo tra uomo e Dio. Il profeta non è in alcun modo l’indovino – è colui che rimprovera l’uomo che ha rotto la relazione con Dio e lo incita a ripristinare questa relazione, a divenire il partner dialogico di Dio nella storia.

Questa prospettiva profetica, propria di tutta la storia di Israele, muta radicalmente nell’età ellenistica, soprattutto per opera del Deuteroisaia, nel quale per la prima volta un profeta annuncia il compimento dell’espiazione attraverso la sofferenza del popolo. Il IV libro di Esdra e l’Apocalisse di Giovanni accentueranno questa tendenza deterministica: <<Tutto qui è predeterminato, ogni decisione umana è una lotta apparente. Il futuro non è qualcosa che possa accadere; esso è, per così dire, già presente, sin dall’inizio, nel cielo. Perciò esso può essere “disgelato” al profeta escatologico e da questi agli altri uomini>>. L’apocalittica descrive con accenti drammatici un dramma cosmico, che tocca l’uomo, ma non riguarda l’uomo, <<per il quale non sussiste nessuna possibilità di mutare il destino storico>>. La storia annunciata dall’apocalisse non è storia, in quanto ogni evento futuro è già compiuto sin dall’inizio e ogni azione dell’uomo è superflua.

Ora i due messianismi non sono soltanto due fatti storici, ma anche due vie di salvezza proprie di ogni epoca storica. La tipologia profetiamo-apocalissi non vale solo per la storia di Israele, ma anche per l’epoca nostra. Possiamo, dunque, applicare questa storia al socialismo.

Infatti, nella misura in cui è la secolarizzazione dell’escatologia, anche il socialismo assume ora l’uno ora l’altro dei messianismi: mentre il socialismo di Marx, figlio della dialettica hegeliana, descrive <<scientificamente>> la fatale apocalissi dell’umanità, il socialismo utopistico laicizza la speranza dei profeti e si appella alla volontà redentrice degli uomini.

La critica del marxismo al socialismo utopistico è radicata nell’apocalittica atea: il socialismo di Fourier e Proudhon sarebbe <<utopistico>>, in quanto privo di quelle garanzie, che solo le divinità atee della modernità, ossia la Scienza e la Storia, possono dare. E v’è di più: Marx rifiuta il socialismo utopistico in quanto <<volontaristico>>, ossi in quanto nega ogni provvidenzialismo storicistico e si appella alla decisione dell’uomo. In tal senso, la critica marxiana dell’utopismo si ritorce come un boomerang nei confronti di chi la getta, in quanto disvela il fatalismo storico di Marx, la sua pretesa, non dissimile da ogni altra apocalissi, di concludere la storia con un evento catastrofico, certo distruttivo e sanguinoso, ma anche salutare ed inevitabile, dato che deriva dalla necessità storica come ultimo atto palingenetico, che modifica la struttura socio-economica e, di conseguenza, produce l’uomo nuovo. L’utopia apocalittica di Marx si rivela qui tanto più utopistica dell’utopia profetica degli utopisti.

L’analisi buberiana dei socialisti utopisti (Saint-Simon, Fourier, Proudhon, Kropotikin) non è certo esemplare per completezza e rigorosità. Ciò che più importa al Nostro non è la ricognizione storica, ma l’insegnamento per il presente che si può trarre da un esperienza passata. Ora il contrasto tra apocalittica marxiana e profetiamo socialista consente di intuire da un lato il radicale antiumanesimo di Marx, dall’altro la validità propositiva dei socialisti. E’ possibile schematizzare in quattro punti fondamentali questo contrasto tra antiumanesimo e umanesimo profetico:

·        Mentre il marxismo privilegia il mutamento delle strutture, così come l’apocalittica descriveva un evento cosmico, il socialismo privilegia la metafisica interiore, così come i profeti parlavano al cuore dell’uomo, ogni vero mutamento non può che essere primariamente interiore: l’uomo nuovo marxiano è post-rivoluzionario (ciò conservatore), quello socialista è pre-rivoluzionario (cioè autenticamente rivoluzionario);

·        Il marxismo vuole produrre la libertà dalla necessità: il processo storico, che conduce al <<Regno>>, non dipende dalla volontà degli uomini, ma la produce; l’esito apocalittico delle contraddizioni del capitalismo non è una possibilità, ma una fatalità storica, per i socialisti utopisti la nuova società umana è una produzione della libertà e della moralità umana; il motore del rinnovamento è la libera associazionismo, secondo quello che Proudhon, nel suo impegno di <<défatalistion>>, chiamava <<principe féderatif>>: <<tutti associati e tutti liberi>>;

·        Il centralismo e la dittatura, che tutti i regimi marxisti hanno realizzato in forme mai prima conosciute, sia pure con la speciosa giustificazione del loro carattere meramente provvisorio, non sono errori o incidenti della storia della salvezza, ma derivano con logica necessità dai presupposti apocalittici del marxismo: <<in fondo Marx è sempre stato centralista>>; il periodo tra la rivoluzione e la <<parousia>> deve essere <<contraddistinto da un centralismo integrale, intollerante di qualsiasi aspetto e iniziativa particolare>>; non è così l’utopismo socialista, che fonda il superamento dell’ingiustizia sociale sul duplice rifiuto dell’individualismo atomistico e del collettivismo massificante; l’ossatura della società non è data né dai singoli né dallo Stato, ma dalla <<associazione volontaria>>, dato che la vera società è composta di tante società;

·        Il vero socialismo non è internazionale, ma nazionale; Buber, come è ovvio, rifiuta il nazionalismo, ma non può accettare il progetto internazionale del Manifesto marxiano; e ciò in quanto l’uomo, in quanto ente dialogico e relazionale, vive in una tradizione; e la tradizione altro non è che la forma della associazione.

Né Buber si limita a indicare le differenze tra Marx e il socialismo utopistico. La sua indagine discopre con realistica acutezza l’esito leninista del marxismo, che è di totale e insuperabile centralismo, in quanto <<lo stato ha inghiottito la società>>. Nel leninismo e, coerentemente, nello stalinismo le speciose espressioni <<dittatura del proletariato>> e <<centralismo democratico>> non riescono a celare la realtà delle cose ed il loro immodificabile principio ispiratore: <<la concezione di un centro assoluto della dottrina e dell’azione, da cui derivano le uniche tesi valide e gli unici ordini determinanti, di una dittatura di questo centro coperto dalla “dittatura del proletariato”>>; in altre parole, la tendenza a perpetuare la politica rivoluzionaria accentratrice a spese delle esigenze decentratici di una collettività socialista in formazione>>.

Le quattro divergenze tra profetiamo socialista ed apocalissi comunista vengono definite da Buber con l’occhio e il cuore volti al modello esemplare dell’amico trucidato, martire consapevole del socialismo religioso: Gustav Landauer, ucciso dai soldati <<bianchi>> durante i moti di Monaco del maggio 1919. In questo geniale pensatore israelita, la linea antimarxiana del socialismo utopistico si concretizza in una sociologia realistica ed in un progetto etico-religioso. Socialismo, per Landauer, non è una scoperta della modernità, ma la categoria perenne dell’associazionismo; esso non è il frutto di un’epoca storica, ma una possibilità costante della spiritualità: <<Il socialismo è possibile e impossibile in tutti i tempi; è possibile se ci sono gli uomini giusti che lo vogliono o, meglio, che lo fanno; ed è impossibile se gli uomini non lo vogliono o, per così dire, si limitano a volerlo, ma non sono in grado di farlo>>.

Il socialismo religioso non rifiuta lo Stato. Lo Stato è uno status, ossia un insieme di relazioni che gli uomini istituiscono – esso non va abolito, ma sostituito da nuovi rapporti, non burocratici, tra gli uomini. Ciò che Landauer propone, dunque, non è una rivoluzione (apocalittica), ma una rigenerazione (profetica). Basterebbe pensare alla rivoluzione francese, il cui esito furono fanatismo e terrore, dispotismo e atomizzazione. La rigenerazione è una rivoluzione personale-sociale, non politica – essa consiste nel riproporre il tessuto dei gruppi autonomi associativi, che caratterizzò altre epoche storiche, come la <<società di società>> del Medioevo cristiano, questo <<insieme di autonomie che si compenetravano a vicenda>>.

E ciò non è possibile senza religione, dato che solo la religione indica, con la sua saggezza metastorica, quali siano i limiti invalicabili dell’attività politica. Non è un caso che siano proprio state le ideologie atee a produrre la concentrazione totalitaria: l’era del capitalismo ha destrutturato la società e la rivoluzione francese l’ha atomizzata. Né sono serviti i succedanei della socialità perduta, come i sindacati e i partiti, a riproporre una autentica relazione comunitaria, dato che questi rimangono entità burocratiche, estranee al vero spirito della Gemeinschaft. Buber accoglie la distinzione del Toennies fra la socialità autentica, pre-moderna, della <<comunità>> e la convivenza in autentica, astratta e calcolatrice, della <<società>>.

La speranza di Buber è che, dopo al distruzione del socialismo a Mosca, esso possa nuovamente sorgere a Gerusalemme, nei villaggi comunitari della Palestina, e di lì a esportare questo modello <<utopistico-profetico>> nel mondo. Il socialismo, di cui Buber traccia il disegno, non è in alcun modo un partito politico o un sistema statuale – esso è un progetto non-politico, nella misura in cui supera e orienta la politica, fornendole quel <<centro>> di cui essa, per sé, è priva. Tale centro è la <<trasparenza verso il divino>> - un divino che non distacca dal mondo degli uomini, ma collega i viventi in un sociale dialogico aperto, se è vero, come è vero per Buber, che <<die wahre Gottesliebe fangt mit der Menschenliebe>>.

E come la religione è comunità, così le strutture autentiche del sociale sono comunitarie – associazioni, federazioni, cooperative: <<L’essenziale è che il processo di formazione comunitaria continui nel rapporto fra le comunità. Solo una comunità di comunità potrà fregiarsi di un simile nome>>.

Duplice, dunque, il ruolo della religione per la costituzione della comunità: un ruolo negativo, che consiste nel porre in crisi ogni pretesa compiutezza delle realizzazioni societarie nella storia; e un ruolo positivo, che induce a cementare sul triplice mistero della creazione-rivelazione-redenzione una società dialogica, fondata sul triplice rapporto io-Tu-Tu. Al ruolo critico-negativo Buber ha dedicato due importanti saggi: uno dedicato alla definizione della <<linea di demarcazione>> tra morale e politica; l’altro al difficile rapporto tra società e Stato. Il valore della politica: realizzare, per quanto possibile, il regno di Dio tra gli uomini; il limite della politica: riconoscere che si tratta sempre di una realizzazione imperfetta e parziale.

Buber si oppone ad ogni machiavellismo come ad ogni ragion di Stato o Realpolitik. La politica non è solo un conflitto di forze; essa non è mossa solo dalla ricerca dell’utilità o del dominio. E la pretesa di Karl Schmitt, di racchiudere il politico nella cornice conflittuale <<amico-nemico>>, è per Buber inaccettabile.

La limitazione della politica si può esprimere con la nota frase evangelica: <<Non si può servire Dio e Mammona>> (Mt 6, 24; Lc 16, 13). La frase è generica, e proprio in ciò consiste la sua validità. La <<linea di demarcazione>> non è fissata una volta per sempre, essa deve sempre di nuovo essere inventata dalla libera decisione dell’uomo. La scelta tra l’interesse del gruppo e la legge morale universale non è necessariamente una disgiunzione – talvolta è possibile far convergere politica e morale: <<Credo che sia possibile servire insieme Dio e il gruppo, al quale uno appartiene, quando si è coraggiosamente impegnati a servire di Dio anche nel gruppo, quanto si può. Questo “quanto più si può” significa, nel linguaggio della verità vissuta, non “o-o”, ma “quanto più è possibile”. Se l’organizzazione politica dell’esistenza non tocca la mia totalità, né la mia immediatezza, essa può pretendere che io le sia in ogni momento tanto conforme, quanto, in caso di conflitto interno, la mia responsabilità crede di poter fare. In ogni momento – che non significa “una volta per tutte”: in ogni situazione, che richieda una decisione, la linea di demarcazione tra servizio e servizio va disegnata di nuovo, non necessariamente con la paura, ma necessariamente con quell’intimo tremore dell’anima, che precede ogni genuina decisione>>.

E anche tra società e Stato c’è una linea di demarcazione, che deve impedire alla società di servirsi dello Stato per fini di utilità di parte ed allo Stato di occupare la società annullandone il pluralismo conoscitivo. Buber non cede mai all’utopia anarchica di una estinzione dello Stato e ritiene, anzi, che lo Stato e la politica siano realtà perpetuamente necessarie per la vita associata. Ma la finalità dello Stato è la realizzazione di condizioni giuste e libere, che consentano alle molte società la realizzazione armonica e collaborativa delle loro finalità proprie. Lo Stato non è mai, per sé, morale – è strumento della morale, quando accetta la linea di demarcazione, che lo trattiene al di qua del terreno minato dello <<stato etico>>.

La libertà e la giustizia sono più largamente possibili nelle società pluralistiche, dove coesistono molte famiglie, associazioni, gruppi, circoli, cooperative, enti locali. Lo Stato è un principio regolativi, ma solo la società, che è primaria e più creativa, genera la vitalità del tessuto sociale. Compito dello Stato è di armonizzare le forze sociali e di difenderle dai pericoli esterni – quando eccede questi compiti, diviene uno Stato <<cattivo>>, in quanto trasforma l’amministrazione in governo.

Ne deriva, ovviamente, che lo strumento più idoneo per consentire alle forze sociali di attuare i loro compiti, è il decentramento. Vige la regola: <<più società, meno stato – più stato, meno società>>. Il ruolo dello Stato, dunque, è ministeriale: << La società (scrive Buber) non può dominare i conflitti tra i diversi gruppi, essa non ha il potere di unire i gruppi fra loro divergenti e contendenti, può sviluppare ciò che è comune, ma non può imporlo. Solo lo Stato ne è capace. I mezzi, di cui si e si serve, non sono più per loro natura sociali, ma specificamente politici. Ma tutti i mezzi di cui lo Stato dispone, come le coercizioni o la propaganda, sarebbero insufficienti, in uno Stato che non fosse dominato da un gruppo sociale relativamente indipendente dalle divisioni sociali, per controllare le sfere di conflitto, altrimenti il fondamentale elemento politico sarebbe una generale instabilità. Il fatto che ogni popolo si sente minacciato dagli altri popoli, attribuisce allo Stato il suo decisivo potere unificante; esso si fonda sull’istinto di autoconservazione della società stessa; la crisi latente esterna lo rende idoneo a superare, quando sia richiesto, la crisi interna. Pensiamo ad uno Stato permanente di vera, positiva e creativa pace tra i popoli – la supremazia del principio politico sul sociale sarebbe sostanzialmente tolta>>.

La religione, dunque, costituisce il limite critico della attività politica – e ciò implica per Buber il rifiuto di ogni stato religioso, di ogni identità di potere religioso e potere politico. Nella sua grande storia della religione israelitica, Buber nota come già Gedeone rifiuti il regno, in quanto <<il vostro re è il Signore>>.

Solo Jahve è il melek di Israele.

Non deve, allora, stupire che l’appoggio costante dato da Buber alla causa del sionismo sia stato costantemente cauto e critico. Buber volle il ritorno in Palestina, dato che non c’è popolo, né nazione, senza una terra; ma si sforzò di mostrare che l’idea nazionale di Israele era diversa da tutte le altre, in quanto l’elezione di Israele non è un suo privilegio, ma il compito di un annuncio di salvezza che riguarda l’intera umanità.

Il sionismo non è un progetto politico ma una concezione del mondo; Israele è una nazione, ma il suo messaggio è umanamente universale; la Palestina è uno Stato, ma in esso devono vivere, anzi con-vivere, non solo gli ebrei, ma anche gli arabi – è noto quanto impegno Buber abbia profuso, attraverso le associazioni Berit Shalom e Ichud, per la nascita di uno stato binazionale in Palestina. L’utopismo, anzi la sconfessione reale di questa proposta buberiana, non ne elimina la validità profetica.

Il regno di Dio è più ampio di ogni sua realizzazione storica, in quanto ogni realizzazione è sempre parziale e soggetta al pericolo della eccedenza della politica sulla religione. Per questo il regno di Dio c’è sempre e non c’è mai. Mentre l’apocalittica, con una parola scritta sin dall’inizio dei tempi, annuncia <<il plasma chimerico di un mondo paradisiaco e del suo ritorno>>, il profetiamo, con la sua parola parlata, invita al mutamento interiore, nel quale soltanto il regno di Dio è possibile. Ma la conversione del cuore non deve rimanere qualcosa di intimo, che non si traduce in relazione e comunità: <<Ciò che importa, per l’umanesimo biblico, è una trasformazione concreta di tutta la nostra vita – e non soltanto della nostra vita interiore. Questa trasformazione concreta può scaturire soltanto da una rinascita delle originarie forze normative, che separano giusto e ingiusto, vero e falso ed alle quali la vita si sottomette>>.

Nel solco dell’esperienza chassidica, Buber legge il regno di Dio nella quotidianità – e dove mai sarebbe possibile trovare il Dio senza nome, se non nella vita degli uomini? Nessun misticismo della distanza e dell’annullamento sfiora l’esperienza dialogica del Nostro, nel quale il mondo è il luogo tra l’uomo e Dio, il luogo nel quale Dio si rivela, il luogo nel quale il Regno è possibile.

Dio è un Essere, ma un Tu; non è una Causa prima, ma un Partner; non è il Tutt-Altro, ma un Dio-con-noi. E Dio non si rivela nella solitaria fuga del solo al solo o nell’angosciato isolamento del Singolo, ma nella socialità del contatto diretto tra gli uomini. E’ il trionfo della religiosità di Francesco, che supera la sfera di Benedetto e <<stringe alleanza con tutte le creature>>.

Il messianismo biblico non giustifica alcuna apocalissi, ma soltanto la presenzializzazione del regno di Dio nella decisione e nel dialogo. Esso è un messianismo della continuità: <<Solo dalla redenzione del quotidiano sorge la quotidianità della redenzione>>. Ne deriva l’inevitabile rifiuto della dottrina cristiana della salvezza. Il sincretismo di Buber, sempre portato a privilegiare l’et-et sull’aut-aut, cerca di assimilare ogni esperienza o ideologia. Il suo pensiero è <<debole>> ed ermaneutico, in quanto la fenomenologia del <<verstehen>> deve sempre precedere ogni pretesa dell’<<urteilen>>. L’ammirazione di Buber per Gesù è sterminata: <<Sin da giovane ho sempre sentito Gesù come il mio fratello maggiore>>. Ma Gesù è anche Cristo? Così pretesero i discepoli, ma Gesù non accettò mai questo epiteto. Gesù non era cristiano, ma un maestro israelita, un profeta del regno di Dio, che non volle mai essere Dio. Tutto il bagaglio teologico della divinità di Cristo, del sacrificio vicario e della resurrezione, afferma Buber insieme con Schweitzer, Dibelius e Bultmann, non appartiene a Gesù, ma a Paolo e a Giovanni, questi continuatori dell’apocalittica giudaico-ellenistica, sostanzialmente gnostica. Il salto tra la concezione ebraica e quella cristiana non si situa tra il Vecchio e il Nuovo Testamento, ma nel passaggio che dai sinottici porta alle Lettere di Paolo ed al Vangelo di Giovanni, con le loro affermazioni <<blasfeme>> dell’Incarnazione e della Resurrezione – due categorie del tutto estranee a Gesù, come a tutto l’umanesimo biblico. La pistis cristiana e l’emuna ebraica percorrono strade diverse e divergenti, che nessuna illusione ecumenica può fare convergere, neppure ad Assisi: <<La fede dell’ebraismo e la fede del cristianesimo sono essenzialmente diverse>>.

Anche questa breve riflessione sulle indagini buberiane intorno all’Utopia consente di cogliere tanto la validità quanto il limite dello studioso ebraico. In senso proprio, Buber fu meno filosofo che antropologo. Tutti i suoi scritti cercano di rispondere alle fondamentali domande antropologiche: chi è l’uomo e quale è il suo destino. Nell’epoca in cui l’uomo sembra avere dimenticato ogni fede religiosa e in cui Dio sembra essersi eclissato, Buber richiama alla imprescindibilità di un incontro: quanto più l’uomo cerca se stesso, tanto più si trova il suo Dio e, in Lui, la natura e l’altro. Dio costituisce il fondamento della identità di ciascuno e del dialogico rapporto fra gli uomini. Spesso, tuttavia, tale rapporto fra i molti tu e col Tu dei tu decade al livello grigio ed impersonale della massificazione anonima: il Tu diventa Esso, la comunicazione diviene chiacchiera e la comunità burocratica ed estrinseca. La forma più evidente di tale ossificazione della comunità è il <<messianismo secolarizzato>> del marxismo. Ad esso Buber non contrappone l’individualismo atomistico del mondo moderno, né una sintesi di individualismo e collettivismo, ma la priorità dello Zwischen, dell’uomo-con-l’uomo, dato che l’uomo, e l’uomo soltanto, è quell’ente, la cui esistenza sarebbe impossibile senza la comunità e il dialogo.

Dire antropologia e dire sociologia è la stessa cosa, in quanto <<l’Io-Tu esiste solo nel mondo dell’uomo, e, ancor più, l’Io esiste solo mediante la relazione col Tu>>.

Buber non volle essere filosofo-metafisico, proprio per una maggiore fedeltà a quell’ebraismo, che consente certo una genuina esperienza religiosa, ma vieta una riflessione filosofica compiuta. Tuttavia, questo mancato inserimento delle sue indagini in una più ampia concezione filosofica del mondo, mentre fa del suo pensiero una delle più autentiche testimonianze della morte dell’uomo nel pensiero contemporaneo, suscita una sofferta nostalgia di recupero di quel legame coscienziale uomo-mondo-altro-Dio, che la <<perdita del centro>> della modernità ha reso difficile e raro – un legame che trova il suo fondamento nel mito edenico-creazionistico dell’ebraismo ed il suo compimento nel <<primato dell’amore>> annunziato dal Cristo. Buber fenomenologo della religione non ha voluto estendere il suo discorso al rapporto tra religione e filosofia; per farlo pienamente avrebbe dovuto superare il suo ebraismo e divenire, con Agostino, Tommaso, Bonaventura, testimone del Dio vivente e, insieme, filosofo dell’Essere (dato che il Dio di Abramo, Isacco e Giacobbe non è diverso dall’Essere intuito dai greci, anche se diverse sono le vie di accesso alle due esperienze). Ma il pensiero di Buber si svolge in un epoca ben diversa da quella organica della civiltà cristiana, nell’epoca del Dio assente e dell’attesa delusa del suo ritorno – ed è molto che Buber, in questa nostra epoca tanto povera da non riconoscere neppure la sua povertà, abbia descritto l’inevitabile contemporaneità di una perdita (la morte di Dio nel secolo scorso, la morte dell’uomo oggi) e la necessaria contemporaneità di un incontro: quello in cui l’uomo trova se stesso e il prossimo in lumine dei, in quanto Dio stesso non si è limitato a parlare per mezzo dei profeti, ma si è incarnato ed è morto perché gli uomini possano, nuovamente, essere fratelli.

 

Il compito dell’educatore e la pienezza di ogni ora mortale di appello e responsabilità, in Martin Buber

L’evento di tutti i giorni, nel suo manifestarsi nella vita quotidiana infatti, assumeva, per Buber, la dimensione dell’eterno, ed egli scriveva: <<Lo spirito, nella sua originale realtà, non è nient’altro che quello che capita; più precisamente quello che non è aspettato ed improvvisamente capita>>. In <<Dialogo>> egli racconta di essersi convertito alla <<religione dell’evento di tutti i giorni>>, in seguito ad una dolorosa esperienza: <<Non accadde altro che questo – egli ci racconta - . Un giorno ricevetti, dopo una mattinata di entusiasmi religiosi, la visita di un giovane sconosciuto, senza esservi presente con tutta l’anima. Non tralasciai di andargli incontro con gentilezza; lo trattai come tutti i suoi coetanei che in quell’ora del giorno, usavano venirmi a ricercare come un oracolo al quale si può rivolgere la parola. Conversai con lui attentamente e francamente, trascurai soltanto di intuire le sue domande inespresse. Conobbi il contenuto sostanziale di queste domande non molto tempo dopo, da un suo amico; egli stesso non viveva gia più. Seppi allora che non era venuto da me per caso, ma mandato dal destino. Non era venuto per una semplice conversazione, ma per una decisione e proprio da me, proprio in quell’ora. Che cosa attendiamo se, pur essendo disperati, ci rechiamo da una persona? Sicuramente, vi vogliamo scorgere una presenza, attraverso la quale ci venga detto che, nonostante tutto, esiste il senso delle cose. Da allora ho abbandonato quella “religiosità” che è soltanto eccezionale, distacco, estasi… Non conosco altra pienezza fuori di quella delle ore mortali ricche di appello e di responsabilità>>.

Il reale fondamento del compito dell’educativo è, in ogni caso, l’impegno responsabile da parte dell’educatore. Un impegno volto a cogliere ed accettare l’appello imprevedibile e multiforme che via via gli si presenta nella realtà della creatura che gli vive di fronte.

Perciò, convinzione di Buber sembra essere che non sia possibile costruire una scienza sistematica dell’educazione. La vera educazione è <<imitatio Dei>>, ma in quanto Dio ci si presenti come <<verità>> e non come <<sistema>>.

Dice, Buber, nei Racconti assidici: <<Soltanto in tempi di declino di un mondo spirituale, essere Maestri nel più alto senso è una professione… in tempi di fioritura spirituale, proprio come possono fare gli operai specializzati con il loro, ed imparavano ogni genere di cose utili e pratiche nella sua presenza, attraverso la sua volontà o senza di essa>>. Buber sembra provar nostalgia per questo mondo scomparso, in cui l’educazione e l’insegnamento si attuavano nella convivenza e nella collaborazione, attraverso la presenza del maestro ed il suo esempio, ed egli, in un certo senso, ne traduce l’archetipo in termini moderni, per una generazione alienata.

Fondamentale è <<la presenza>> del Maestro, perché egli, al di là della sua attività di insegnante, possa svolgere il reale compito di educatore.

Immenso è questo compito che forgerà l’umanità futura, e, tuttavia, la prima nozione che deve essere appresa riguarda i limiti del proprio incarico, attraverso la coscienza dei quali se ne imparerà l’essenza.

L’educando è una potenzialità cui l’educatore deve rivolgersi con l’intento di aiutarne la realizzazione, ma è anche una realtà già costituita nella sua attualità di vita.

In ogni istante il mondo si arricchisce di molteplici aspetti mai visti prima. <<In ogni ora – scrive Buber – quello che non è mai stato invade quello che è>>. Questa realtà è il bambino.

Egli porta in sé e con sé l’eredità di tutto un passato dell’umanità che lo ha preceduto, ma porta anche nel mondo l’impronta della sua unicità.

L’educatore, perciò, non deve illudersi di poter forgiare la personalità dell’allievo ma deve, bensì, formarne il carattere. Deve aiutare colui che gli sta davanti ad attuare le proprie potenzialità rimanendo sempre fedele a se stesso e consequenziale, nel seguito delle proprie azioni, a ciò che egli è già nella sua attualità di oggi. Buber entra, perciò, in polemica con Kerschensteiner, il quale, pure, tende all’educazione del <<carattere>>, ma pensa di attuarla attraverso una organizzazione di autocontrollo, per mezzo dell’accumulazione di <<massime>>. Non è possibile – obietta Buber – predicare in astratto e suggerire massime di comportamento, poiché il giovane che si accorge che si vuole agire sul suo intimo sviluppo ed indirizzarlo dall’esterno, si chiude immediatamente, diffidente e ostile, e respinge da sé ogni palese influsso. Ma, nemmeno, l’educatore deve cercare di agire sull’allievo in maniera non palese e indiretta, perché <<ne risulterebbe sminuita quella linearità che è la sua forza>>. E non è neppure possibile, come suggerisce Dewey, formare il carattere attraverso la promozione del formarsi di <<buone abitudini>>. Esse rimarrebbero sempre estranee al nucleo della personalità.

Non ci si deve, inoltre, proporre un modello cui adeguare la potenziale, unica e irrepetibile realtà che ci sta di fronte.

Non dobbiamo voler formare <<il cittadino o il gentlman o l’eroe>>.

Dobbiamo, bensì, aiutare l’educando ad attivare se stesso nel pieno raggiungimento della propria unità e coerenza spirituale, perché egli possa aprirsi al dialogo con il divino, attraverso l’incontro con gli altri uomini e con il mondo, nel travaglio umano della propria quotidiana esperienza.

L’unica via è il dialogo reale che si instaurerà tra l’educatore e l’educando e che sarà assolutamente <<inclusivo>>, in quanto l’educatore sperimenterà il rapporto anche dalla parte dell’allievo.

<<Inclusione>>, infatti, è, per Buber, <<l’estensione della propria concretezza, l’adempimento della attuale situazione di vita, la completa presenza della realtà alla quale si partecipa>>. L’inclusione sarà, allora, in questo caso, unilaterale, poiché l’allievo non può sperimentare l’educare dell’educatore.

Quanto al maestro, egli sarà uno tra i molteplici e multiformi elementi determinanti la formazione del carattere dell’educando, ma ne sarà l’unico fattore cosciente. Egli non può e non deve frapporsi tra il suo allievo ed il mondo che lo circonda e lo investe da ogni parte ed in mille modi diversi, con la sua irruzione di vita; ma deve, con il suo esempio, divenire per l’educando il metro di misura alla cui stregua egli possa giudicare la realtà di cui fa parte. Il punto di riferimento <<che non inganna>> deve, a sua volta, essere <<una persona>> reale, cosciente di sé, aperta al dialogo.

Se l’allievo si rende conto della serietà di interessamento responsabile del maestro e lo sente come una presenza reale, fedele e costante, gli donerà spontaneamente la sua fiducia, confiderà in lui. E sarà la confidenza la via per l’instaurarsi del rapporto educativo.

Fino a che l’educando non potrà risolvere da solo i propri problemi, in piena coscienza e responsabilità, la <<presenza>> del maestro sarà il punto di appoggio che gli darà forza, la persona del maestro il punto di riferimento per la sua comprensione del mondo. Bisogna che l’educatore faccia attenzione a tutto ciò che può distogliere l’allievo dall’ottenere un reale rapporto con il mondo.

Se egli avrà <<le antenne fini>>, non gli sarà impossibile <<sentire>> che cosa venga accettato e che cosa venga respinto dall’allievo; che cosa si può offrirgli, che cosa non ancora e che cosa non più.

Non educazione <<costrittiva>> quindi, che potrebbe generare soltanto mortificazione o ribellione. Educazione alla libertà che deve, tuttavia, considerare la libertà non come punto d’arrivo, ma di passaggio per il raggiungimento della piena coscienza delle proprie responsabilità. <<La libertà senza assunzione di responsabilità – scrive infatti Buber – è una patetica farsa>>.

Sarà compito del maestro anche il creare la comunione ed il rapporto nell’ambito scolastico della classe.

 

Buber e la tradizione del chassidismo

In Ich und Du, Buber aveva sostenuto che l’uomo fa realmente esperienza di Dio solo dialogando con lui, ilDu, il Tu divino. Dio non è un Esso, un Ciò, ma un Tu. Il dialogo è fra Dio che si rivela e si nasconde e l’uomo che lo cerca: un dialogo molto ebraico, perché ebraicamente si parla con Dio, piuttosto che di Dio.

In Eclissi di Dio, alla celebre formula nicciana della <<morte di Dio>> Buber contrappone, per l’appunto, l’affermazione che Dio non è morto, ma si è eclissato. Se Dio è scomparso dall’orizzonte dell’uomo moderno, ciò è accaduto perché si è cominciato a concepirlo come un impersonale Esso, e quindi, potenzialmente, come un oggetto che la mente dell’uomo osserva distaccata, definisce, comprende, che in definitiva essa stessa pone, crea. Il processo che rende non più sperimentabile per l’uomo l’incontro con Dio è dunque, in definitiva, una cosa sola con lo sviluppo della filosofia moderna, per la quale l’uomo stesso, fin dal <<cogito>> di Cartasio, è concepito insieme come soggetto e oggetto di se medesimo: un oggetto che viene osservato come tale dal pensiero che lo pensa. <<Il soggetto, che sempre apparve annesso all’essere, per prestargli il servigio della contemplazione, dichiara di aver generato e di generare esso stesso l’essere. Finchè tutto ciò che ci sta di fronte e s’impadronisce di noi viene sciolto nella fluttuante soggettività. Già il prossimo passo conduce allo stadio a noi noto che si considera l’ultimo e se compiace: lo spirito umano dice di essere il signore delle sue opere e annichila concettualmente l’assolutezza e l’assoluto>>. E’ questo presuntuoso Io umano che, secondo Buber, si è interposto fra noi e Dio facendolo scomparire alla nostra vista, impedendoci di farne l’esperienza. Ma al di là del nostro errore, che lo ricopre rendendocelo incomunicabile, Dio continua a splendere perfettamente intatto.

Sempre nell’Eclissi di Dio, Buber incalza con critiche penetranti specialmente Jung, frugando in un’ambiguità nella quale Dio, ridotto a un impersonale Esso posto da un Io umano che si considera onnipotente, finisce per essere soltanto un contenuto psicologico, nulla cioè di reale al di fuori dell’uomo che lo sente e lo pensa. Ma con queste critiche Buber incalza, insieme a Jung, tutta la cultura e il costume moderni, che anche in molte forme dell’attuale, diffuso movimento di <<ritorno del sacro>>, intendono il divino come ciò che di più profondo e misterioso c’è in noi, e non come l’Altro, un Tu che realmente, personalmente esiste e ci sta di fronte, e con il quale è perciò possibile comunicare veramente, dialogare.

Ebbene questa concezione di Dio che il vecchio Buber sostiene nell’Eclissi di Dio è lontana da quella che molti anni prima aveva sostenuto nelle Confessioni estatiche. Là, il Dio dei mistici, nella lettura che Buber ne fa, è proprio quel Dio ambiguamente inteso come realtà psicologica che poi, invece, rimprovererà a Jung e alla modernità in genere. L’estatico infatti, scriveva allora, non esce dalla propria interiorità, ma <<attribuisce a Dio quel che egli pensa, sente e sogna di Dio>>: <<La rappresentazione elementare è quella di una unione con Dio>>, ma si tratta, appunto, soltanto di una <<rappresentazione elementare>>. Per questa via, l’uomo non attua, in definitiva, nessun vero rapporto con Dio, non dialoga con lui: <<Ascoltiamo attentamente ciò che è dentro di noi – e non sappiamo di quale mare stiamo udendo il mormorio>>.

Si potrebbe pensare che le tesi giovanili di Buber siano diverse da quelle sostenute nei tardi anni della sua vita per una naturale evoluzione del suo pensiero, e che vadano perciò messe tra parentesi come posizioni successivamente superate e abbandonate.

Buber, rispondendo a una replica di Jung, scrive proprio nell’Eclissi di Dio qualcosa che sembra ambiguamente riavvicinarlo alle giovani posizioni di Confessioni estatiche: <<La mia fede nella rivelazione – non legata a nessuna “ortodossia” – non significa credere che asserzioni riguardanti Dio giungano già pronte dal cielo alla terra; bensì che la sostanza umana viene fusa dal fuoco spirituale che la invade, e solo allora da essa prorompe la parola, l’asserzione che per il senso e per la forma è umana, comprensione e lingua umana, e pure testimonia del suo suscitatore e della sua volontà. Noi ci riveliamo – e non possiamo asserirlo che come una rivelazione>>. Specialmente nelle ultime parole di questo brano sembra cogliere un’implicazione di tipo kantiano: come non si dà possibilità di legge morale senza postulare l’esistenza di Dio, così, senza postularla, non si dà parola rivelativi.

Ma si tratta pur sempre di un nostro postulato, che noi dobbiamo porre, o riteniamo di dover porre, perché il nostro discorso abbia senso.

Le critiche che Gershom Scholem, il massimo studioso contemporaneo dell’ebraismo, ha mosso a Buber, e in particolare alla sua interpretazione del chassidismo, confermano quanto siano venuti dicendo. <<La terminologia di Buber – scrive – è certamente cambiata in modo decisivo. Ma i contenuti che trasmette non sono cambiati>>.

Scholem definisce la <<filosofia del dialogo>> buberiana <<esistenziale e soggettiva>>, quindi, in definitiva, ancora psicologica. Sostiene che l’accentuazione che Buber fa del Tu divino, come interlocutore di un dialogo con il singolo, porta lontano dai contenuti della tradizione ebraica, la quale consiste in <<un insegnamento di ciò che si deve fare>> : <<La sua [di Buber] filosofia esige dall’uomo che scelga un orientamento, che prenda una decisione, ma non dice mai quale dev’essere questa direzione, quale dev’essere la decisione. Buber dice anche espressamente che questo orientamento e questa decisione non possono essere formulati che nel mondo dell’Esso, nel quale si oggettiva e muore il mondo vivente dell’Io e del Tu. Ma nel mondo della relazione vivente niente può essere formulato e non c’è posto per dei comandamenti>>. Riferendosi all’insistenza buberiana sul vissuto immediato e quotidiano, che Buber esemplificò soprattutto nell’esperienza dei chassidìm, e nel quale fece consistere il loro <<messaggio>>, Scholem afferma che, al contrario, <<la mistica chassidica non va in direzione di questo mondo qui>>, della <<vita così com’è>>, ma che anzi nei confronti di questa realtà <<contiene un elemento di distruzione>>, ha <<un potere distruttore>>, che è quello dell’immemorabile animo messianico-apocalittica ebraica. Scholem afferma e dimostra, inoltre, che l’insistenza sul carattere dialogico e quindi narrativo dell’esperienza chassidica è formulata da Buber in termini troppo unilaterali, senza tener conto adeguatamente del rapporto del chassidismo con la mistica classica del Kabbalà e quindi ignorando che alle sue origini il chassidismo si è espresso soprattutto – anziché nei suoi mirabili e spesso folgoranti racconti – in testi di carattere speculativo kabbalistico e in libri di preghiere.

Quando Martin Buber muore, quasi novantenne, a Gerusalemme, malgrado le sue posizioni nettamente critiche nei confronti dello Stato d’Israele godeva da parecchi anni di una grande popolarità e di un grande prestigio. Eppure Scuolem ci parla della <<mancanza pressoché totale d’influsso di Buber nel mondo ebraico, che contrasta stranamente con il suo riconoscimento da parte dei non-ebrei>> : <<Lui, il filosofo del dialogo, non è mai pervenuto a stabilire un dialogo con il suo proprio popolo>>. Si può fare un confronto, lontano poco meno di duemila anni, con un altro autore ebreo, Filone, l’alessandrino che tentò di interpretare la propria fede e la propria tradizione in modo da farla rientrare nelle categorie del dominante pensiero greco e di renderla così comprensibile e apprezzabile per gli altri popoli: divenne un maestro per i Padri della Chiesa, ma non ebbe, si può dire, nessun seguito fra gli ebrei. Così Buber è un uomo che tenta di tradurre il senso della propria radice ebraica reinterpretandola in base alla cultura tedesca e accademica che era diventata la sua. Quel che ne risulta, per il chassidismo in particolare come più in generale per l’ebraismo, è una versione occidentalizzata, che attrae i lettori occidentali, ma al prezzo discostarsi non poco, malgrado le intenzioni, del dato reale. Buber in definitiva, dice Scholem, utilizza elementi del chassidismo scelti fra altri perché ritenuti idonei a comprovare la sua <<filosofia del dialogo>> e il valore fondante la comunità da lui attribuito al narrare (Scholem parla della <<immensa soggettività>> buberiana): <<La messa in rilievo, all’interno del chassidismo, di aspetti che, secondo lui, esprimono il suo messaggio al mondo e nello stesso tempo il suo significato ebraico più profondo, risulta in gran parte di concetti che egli stesso ha forgiato. Il suo contributo personale all’interpretazione dell’ebraismo è consistito molto esattamente in questa produzione di concetti, e la sua analisi giunge a manifestare ciò che nel chassidismo rimane problematico e fa questione>>.

Scuolem scopre anzi in Buber – al quale riconosce il merito di aver portato alla ribalta dell’alta cultura il chassidismo fino ad allora ignorato o respinto – alcuni atteggiamenti di fondo non compatibili o difficilmente compatibili con la tradizione ebraica. Anzittutto – dice – per Buber la rivelazione non è un fatto storico ma, per così dire, <<naturale>>, e <<ciò che [in essa] l’uomo riceve in sé non è un “contenuto” ma una “presenza che è una forma”. Non riceve una pienezza di senso, ma piuttosto la garanzia che c’è un senso, “l’indicibile conferma del senso”. La rivelazione è così il puro incontro di cui nulla può essere espresso, formulato, definito>>. Di qui deriva, secondo Scholem, l’avversione, del giovane Buber per la Legge e la tradizione alachica, e nello stesso tempo la sua lontananza di fondo dall’autentico orizzonte messianico, che è storico, e la sua <<avversione dichiarata per l’apocalittica>>. E’ appunto l’antistoricità che consente a Buber di identificare l’esperienza chassidica a quella dell’antico uomo biblico, senza percepirne le differenze. Buber insomma <<prende partito per l’informulabile>>, l’a-storico, e proprio questo misura la sua lontananza dal centro motore del pensiero ebraico.

Se c’è una cosa che rivela l’intima ebraicità di Martin Buber, proprio contraddicendo l’ottimismo della sua visione <<naturalmente>> dialogica, direi che è la sua morte. Buber muore infatti profondamente deluso dalla realtà dello Stato ebraico, dal sionismo che aveva animato le sue speranze, della condizione dell’ebraismo nel mondo, sentendosi in profondità, malgrado gli onori, solo e incompreso. Muore, dice Scholem, avendo visto fallire ogni possibilità di dialogo, muore in <<una profonda rassegnazione, una reale confusione, al bordo della disperazione>>. Attraverso la consapevolezza di questa morte possiamo risalire all’autentica ebraicità di Martin Buber: quella ebraicità che riconosce l’orrore del mondo e aspetta la novità assoluta del miracolo di Dio, o che, come in Kafka, precipita nell’abisso dell’impossibilità della speranza, dell’impossibilità del senso, proprio perché malgrado tutto continua a confrontarsi con il bisogno della speranza e del senso.

 

Su Buber e Jaspers. Ipotesi per un confronto 

<<La verità non è un contenuto e le parole non sono in grado di riassumerla, essa è perciò più soggettiva di ogni possibile soggettività, ma questa estrema soggettività, diversa dalla soggettività del soggetto idealistico, è l’accesso unico a ciò che è più oggettivo di ogni possibile oggettività, e ciò che nessun soggetto potrà mai contenere, a ciò che è totalmente altro>>. Tale convinzione, secondo Lèvinas, è uno degli esiti più interessanti della filosofia di Buber.

<<Ma il tentativo di Buber si collega a tutto un movimento del pensiero contemporaneo. La storia della teoria della conoscenza nella filosofia contemporanea è la storia della scomparsa del problema soggetto-oggetto. Il soggetto chiuso in sé e, metafisicamente, origine di sé e del mondo si rivela come un’astrazione. La consistenza dell’io si risolve in relazioni>>.

In questa prospettiva la filosofia di Buber, pur nell’originalità delle sue matrici culturali, appare contigua ad alcune tendenze peculiari della filosofia del Novecento: una contiguità che, se per Lèvinas è in certo modo un atto di accusa, rende legittima nello stesso tempo una lettura di Buber in relazione alla filosofia umanistico-occidentale.

Infatti la ricerca di un soggetto non identificabile nella soggettività assoluta e, insieme, il tentativo di proporre un approccio all’alterità non rinchiuso in schemi oggettivistici, quasi come si trattasse di un obiettivo comune, fanno incontrare pensatori e prospettive filosofiche tra loro anche assai diversi: Buber, Husserl, Heidegger, Bergson, ma anche Jaspers, Marcel, Mounier.

In questo contesto può risultare significativo un confronto tra la filosofia del dialogo di Martin Buber e la filosofia dell’esistenza di Karl Jaspers: un confronto volto a mettere in luce, attraverso l’enucleazione delle singolari convergenze e delle difformità sostanziali tra Buber e Jaspers, la centralità delle <<relazione>> nella vita stessa dell’uomo e nel pensiero contemporaneo.

In La situazione spirituale del tempo Jaspers mette in risalto la rottura della spontanea unità tra uomo e mondo come prodotto tipico dell’età moderna affermando: <<oggi la superbia della concettualizzazione universalizzante e l’arroganza del credersi signori del mondo e di ritenere di poterlo organizzare, piegandolo alla propria volontà come il vero e il migliore dei mondi, si capovologono di fronte a tutti i limiti che si manifestano in una conoscenza opprimente d’impotenza>>.

L’individualità scompare dissolta nella uniformizzazione delle funzioni: l’impotenza di cui parla Jaspers è l’impotenza dell’individuo condizionato dalla tecnica, dalla razionalizzazione dell’agire, dalla meccanizzazione, nella loro interazione infinitamente complicata.

In Il problema dell’uomo, Buber, riprendendo riflessioni precedenti parla di <<decomposizione progressiva delle vecchie forme organiche di coesistenza tra gli uomini>>, di <<mutazione sociale>> a proposito della famiglia, delle associazioni di lavoro, delle comunità di villaggio e di città e sottolinea il manifestarsi, con sempre maggiore intensità, della <<solitudine umana>>, dell’isolamento e nello stesso tempo del <<di stanziamento>> dell’uomo dalla sua opera: un di stanziamento che è prodotto dalla tecnica.

La questione della crisi assume così rilievo epocale: l’uomo contemporaneo si sente senza dimora. <<Ci furono epoche – afferma Jaspers – nelle quali l’uomo sentiva il proprio mondo come permanente. In confronto a siffatte epoche l’uomo d’oggi, che ha cognizione di sé soltanto in una situazione storicamente determinata dell’esser-uomo, è separato dalla propria radice. E’ come se egli non riuscisse più a trattenere l’essere>>. Anche per Buber il nostro tempo è il tempo del viandante, di colui che non ha un tetto sicuro. <<Io distinguo – egli scrive – nella storia del pensiero umano le epoche in cui l’uomo possiede una sua dimora dalle epoche in cui egli ne è senza. Nelle prime, l’uomo abita nel mondo come se abitasse in una casa, nelle altre, egli è come se vivesse in aperta campagna e non possedesse neppure i quattro picchetti per innalzare una tenda>>.

Tuttavia, per Buber come per Jaspers, è proprio una situazione di questo tipo, un tempo così problematico, che può essere occasione di riscoperta delle radici dell’uomo, possibilità di un discorso sull’uomo. Né Buber né Jaspers propongono in questa fase soluzioni facili ed immediate o elaborano precisi progetti di trasformazione della realtà sociale: la loro risposta è di ordine filosofico, è la <<risposta>> di Ich und Du o di Philosophie. Si tratta di una proposta nella prospettiva del singolo e dei singoli in rapporto tra loro. La filosofia è, per Jaspers, <<l’unica possibilità che si apre a quanti sanno di non avere certezze>>, è un modo consapevole di vivere nel tempo prima e più ancora che una forma di sapere come insieme precostituito di nozioni. La filosofia è per Jaspers filosofia dell’esistenza, legata all’esistenza stessa e alla ricerca che essa continuamente compie nel tempo. In questa direzione anche Buber afferma: <<io non ho una dottrina. Io indico qualcosa. Indico la realtà, indico qualcosa nella realtà che non è stato visto o lo è stato troppo poco. Io prendo per mano colui che mi ascolta e lo porto alla finestra. Apro e indico fuori. Non ho una dottrina ma porto avanti un colloquio>>.

Siamo in presenza sia in Buber che in Jaspers di un modo <<indiretto>> di intendere la ricerca della verità, un modo che richiama il discorso kierkegaardiano sulla soggettività <<della verità>>, sul passaggio da una verità solo pensata ad una verità vissuta. Tuttavia rispetto a Kierkegaard vi è un’integrazione sostanziale: il cammino personale di ricerca della verità diventa cammino con l’altro, è destinato ad un suo pieno compimento solo attraverso il dialogo (Buber), la comunicazione (Jaspers). Ed è qui il nodo del possibile confronto tra la filosofia di Buber e quella di Jaspers: il richiamo e insieme la distanza da Kierkegaard costituiscono un forte elemento comune tra i due pensatori, l’accentuarsi di tale distanza in Buber, per ciò che concerne il rapporto con l’altro, determina invece i motivi di differenziazione tra Jaspers e Buber.

Per Jaspers come per Buber l’esistenza si raealizza dunque solo con l’altro, l’esser-se-stesso diviene tale nella relazione. E’ qui la comune presa di distanza da Kierkegaard. Il rapporto con l’altro diviene lo spazio etico per eccellenza, lo spazio della realizzazione della propria personalità. <<La scelta di me si accompagna alla scelta dell’altro>> : <<ogni vita effettiva è incontro>>.

La stessa filosofia deve sintonizzarsi sul rapporto con l’altro, è <<funzione>> della comunicazione e del dialogo: la verità porta con sé il segno della relazionalità propria di ogni esperienza umana. Per Buber come per Jaspers l’insistenza di Kierkegaard sul singolo misconosce il ruolo della reciprocità. Così accade anche in Heidegger: <<l’esistenza di Heidegger – afferma Buber – è un’esistenza fonologica>>, il suo pensiero è, per Jaspers, <<weltlos>> e <<kommunikationlos>>.

All’interno di questa comune sottolineatura dell’importanza della relazione va considerata la peculiarità dei relativi modi di intendere il rapporto con l’altro – e quindi la maggiore distanza da Kierkegaard che caratterizza a tale proposito il pensiero di Buber rispetto a Jaspers. In Buber, come in Jaspers, la relazione risulta assolutamente costitutiva per quello che riguarda la formazione del sé personale degli uomini in comunicazione.

Ma in Jaspers il ruolo del singolo è, kierkegaardianamente, più marcato: l’esser-se-stesso è condizione indispensabile della relazione. <<La comunicazione – afferma Jaspers – si realizza di volta in volta tra due che, pur vincolandosi tra di loro, devono continuare a restare due>>. Una differenza sostanziale tra Buber e Jaspers sussiste anche relativamente all’<<ampiezza>> e alla pienezza della relazione. Per Buber vi sono tre modalità proprie del dialogo. <<La prima è la vita con la natura. Ivi la relazione oscilla nel buio e al di sotto del livello linguistico. La seconda è la vita con l’uomo. Ivi la relazione è manifesta e pronunciata. La terza è la vita con le entità spirituali. Ivi la relazione è annebbiata, ma si fa manifesta; non fa uso del discorso, eppure gli dà forma>>.

Accanto a queste tre modalità vi è una quarta forma di relazione, che in certo senso, include le altre: la relazione con la trascendenza. << In ogni sfera, in ogni processo a noi presente del divenire, noi guardiamo al margine dell’eterno Tu; ogni volta ne cogliamo un soffio; in ogni Tu leggiamo l’eterno, diversamente per ciascuna sfera>>.

Per Jaspers, invece, la vera comunicazione è solo di carattere esistenziale, cioè fra le esistenze, fra un se stesso e un altro se stesso. Tale comunicazione si distingue dall’ingenuo e aproblematico esserci dell’uomo nella comunità (privo di autocoscienza e coscienza degli altri), dal modo solo concettualmente consapevole di vivere in società (che è comunque un modo impersonale), dalla semplice comunanza di idee. Queste ultime sono forme di comunicazione di ordine semplicemente psicologico o sociologico o culturale, la comunicazione esistenziale invece è prima di tutto un modo d’essere non rilevabile empiricamente e non rispondente a criteri meccanici o a procedimenti prestabiliti. La comunicazione esistenziale è <<assolutamente storica>> e <<dall’esterno non è riconoscibile>>. In essa il se stesso perviene alla certezza di sé esistendo per l’altro se stesso <<in un rapporto di reciproca creazione>>. La comunicazione esistenziale non può essere fattore unilaterale, ma si stabilisce solo se l’altro viene incontro a me come io vado incontro a lui. L’altro è fattore decisivo della mia crescita morale ed esistenziale: <<io non posso diventare me stesso se l’altro non vuole essere se stesso; non posso essere libero se l’altro non lo è; non posso essere certo di me se non lo è l’altro>>.

Trova così conferma in Jaspers, all’interno della relazione, accanto alla centralità dell’altro, il ruolo imprescindibile dell’esser-se- stesso. La realizzazione di un’autentica comunicazione esistenziale, di un vero rapporto di reciprocità è inoltre elemento fondamentale di stimolo per compiere il salto dall’esserci all’esistenza, dalla realtà dell’uomo nell’insieme delle sue modalità e dei suoi bisogni di ordine strettamente sensibile alla realtà di una vita capace di libertà, di decisione, di autenticità. Ogni forma di perdita della comunicazione esistenziale infatti è una perdita di autenticità dell’essere perché l’autenticità non è nell’empiricità dell’esserci, né nella generalità della coscienza <<in generale>> ma nell’<<esser-l’uno-con-l’altro>>.

In questo senso la comunicazione esistenziale è l’elemento di conquista dell’esistenza stessa all’interno del processo della sua realizzazione, non è realtà data ma frutto di un cammino che assume le forme di comunicazione proprie dell’esserci ma è destinato a superarle nell’unicità dell’incontro.

Anche in Buber, attraverso la distinzione tra la coppia Io-Tu e la coppia Io-Esso, vi è la messa in luce della presenza di un livello di relazione simile, in un certo modo, alla comunicazione nell’esserci secondo Jaspers. Risulta inoltre possibile un collegamento ulteriore fra la tematica buberiana del superamento della relazione Io-Esso e la dinamica del rapporto appena delineato tra l’esserci e l’esistenza in Jaspers. L’Io-Tu è per Buber la relazione immediata, l’assoluta unità. Nell’Io-Tu, il Tu è <<innato>> nel senso del rapporto fra il bambino e la madre o fra primitivo e la natura.

L’Io-Esso indica invece la successiva presa di distanza, il rendersi conto della separazione, della disponibilità e della utilizzabilità del mondo. Il trapasso dal mondo del Tu, inteso nella sua dimensione originaria, nella realtà dell’Esso, risulta necessario. <<Senza l’Esso – afferma il pensatore ebraico – l’uomo non può vivere, cioè senza organizzazione sociale politica ed economica l’uomo rimane affidato al mero istinto. <<La parola base Io-Esso non è del demonio, come non lo è la materia>>.

Il carattere originario della relazione Io-Tu non trova riscontro in Jaspers, la cui riflessione sull’esistenza e sulla comunicazione muove da una situazione già data di scissione fra il soggetto e l’oggetto. Simile invece, nei due pensatori, appare il passaggio ulteriore dal livello oggettivo-strumentale della relazione alla pienezza di autenticità del rapporto (dall’Io-Esso nuovamente all’Io-Tu, dall’esserci all’esistenza). Per Buber come per Jaspers, pur essendo necessario passare attraverso il rapporto con l’Esso, con l’esserci, <<non è dell’uomo accontentarsene>>. <<E’ demoniaco – afferma Buber – che la materia si attribuisca la qualità dell’Essente>> : per Buber infatti dall’Io-Esso bisogna ritornare ad una nuova e matura relazione dialogica fra l’Io e il Tu perché altrimenti l’Esso è destinato a schiacciare l’Io, cioè rischia di minacciare la sua sfera di autonomia e di libertà.

Tuttavia mentre il passaggio dall’Io-Tu originario all’Io-Esso è necessario, il passaggio ulteriore dall’Io-Esso alla nuova relazione Io-Tu è solo possibile. Così è, in fondo, anche per Jaspers: la comunicazione esistenziale è situata nell’orizzonte della possibilità, le forme oggettivanti di comunicazione nell’ordine della necessità.

La possibile realizzazione di una relazione autentica, sia in Buber che in Jaspers, passa attraverso il rispetto di alcune essenziali condizioni del dialogo e della comunicazione. Il dialogo e la comunicazione non sono un fatto astratto e isolato ma innervano nella complessiva dinamica esistenziale interagendo naturalmente con i fattori stessi della formazione della personalità e del suo sviluppo morale. E’ per questo che Jaspers e Buber dedicano ampio spazio alla delineazione di una fenomenologia della relazione rivelando in questa direzione singolari anologie.

Il dialogo e la comunicazione appaiono sia in Buber che in Jaspers frutto della volontà assoluta di rivelare se stesso all’altro correndo il rischio della piena sincerità e si mostrano come risultato della capacità di accettare l’unicità e la diversità dell’altro, l’imprevedibilità di ciò che dall’altro proviene. Per Buber infatti <<ogni relazione nel mondo è esclusiva>>. Così è anche per Jaspers: <<la comunicazione esistenziale esiste tra due se stessi che sono solo questi e non rappresentanti di due generici, e perciò sostituibili, se stessi>>.

Nel rapporto tra persone che sono se stesse vige la piena sincerità, la consapevolezza dell’insostituibilità dell’altro singolo e il rispetto per il dono dell’altro se stesso e della diversità.

La sincerità, la non-pianificabilità e l’esclusività della relazione, come radicale apertura all’imprevedibile novità dell’altro attraverso la quale divento me stesso, pongono con chiarezza l’esigenza della solitudine e del silenzio che appaiono ulteriori indispensabili condizioni di un’autentica relazione. A proposito della solitudine Jaspers afferma: <<non posso giungere a me stesso senza entrare in comunicazione con l’altro e non posso entrare in comunicazione con l’altro senza essere solo>>. Il silenzio inoltre è, per Jaspers, <<il momento di tacere nella continuità del processo comunicativo>>. Buber, dal canto suo, parla di <<solitudine come luogo della purificazione, necessario anche a chi è legato alla relazione>> e di silenzio comunicativo come <<colloquio che non ha bisogno di parole e nemmeno di un gesto>>. Il silenzio autentico non va inteso allora come assenza di comunicazione, ma anzi, in certi casi, come la sua vera condizione e la solitudine non è l’isolamento d’ordine sociologico ma lo stadio avanzato dell’esser-io per poter dall’origine più propria di se stessi entrare nel dialogo e nella comunicazione, manifestarmi all’altro e con l’altro. La solitudine, in Buber e specie in Jaspers, ha un carattere fortemente personalizzato perché punta l’attenzione sui valori legati all’autocostruzione esistenziale, all’identità soggettiva, alla solidità della vita interiore. La solitudine favorisce quell’accoglienza di sé che è premessa per l’ascolto e la recettività dell’altro. Esso è infatti anche il luogo in cui il desiderio dell’apertura all’altro viene coltivato e sempre rinnovato. La solitudine non si comprende al di fuori di un rapporto con gli altri di cui esso è a sua volta garante. Essa è l’esito di un tirocinio che il semplice isolamento tende ad evitare in quanto l’isolamento è sterile ripiegamento su se stessi e negazione della possibilità di apertura agli altri, considerata come alterazione di se stessi.

La dinamica solitudine-silenzio-dialogo-comunicazione, nella sua determinante centralità per l’uomo, diventa lo spazio della possibilità: l’amore è la più alta forma di relazionalità, è la massima possibilità d’incontro con un'altra persona. L’amore è unico, personale, sincero e fedele, esprime fiducia e apertura. L’amore non è però un fatto statico, ma è per Jaspers <<lotta amorosa>>, per Buber <<avvicendarsi di situazioni potenziali e attuali>>. L’amore cioè è caratterizzato da un dinamismo problematizzante ed esigente; è partecipazione che si chiarisce compiendosi. <<L’amore è, ad un tempo, esser-se-stesso e donazione di se stesso>>. <<L’amore è responsabilità di un Io per un Tu>>. Responsabilità è <<rispondere>>,lasciarsi interpellare dall’altro, è rendere conto <<davanti>> all’altro percorrendo così, nello stesso tempo, la strada del divenir se stessi.

La responsabilità in quanto autentica modalità di relazione e significativa dinamica di ordine etico-esistenziale può costituire l’ulteriore terreno di confronto fra Buber e Jaspers. In entrambi i pensatori la responsabilità implica una vita intensa come impegno attivo – impegno per l’altro – e accettazione sempre rinnovata di un dono che mi supera e mi trascende – il dono dell’altro.

Questo dinamismo intrinseco alla responsabilità, come reazione con l’altro, si mostra quale paradigma dello stesso rapporto fra il soggetto e la trascendenza, fra l’Io e l’Altro per eccellenza, il Tu assoluto. <<Responsabilità – afferma infatti Buber – presuppone un essere primario che mi rivolge la parola da una regione indipendente rispetto alla mia persona, e al quale io debbo rispondere. Egli mi chiede qualcosa che mi ha affidato e che a me spetta custodire>>. <<Io sono responsabile di me – afferma a sua volta Jaspers – perché voglio essere me stesso, della cui originarietà sono certo; inoltre per quanto mi concerne, io sono, solo se sono a me donato perché questo voler-se-stesso ha bisogno di qualcosa che sopraggiunge. Come non ci sono senza mondo, così non sono me stesso senza trascendenza>>. La sperimentazione della propria autonomia personale e del mistero della propria interiorità è anche il punto in cui colgo la <<dipendenza>> e l’origine del mio essere. Più l’uomo diventa responsabile e responsabile di sé, più si scopre cosciente della trascendenza e la coscienza della trascendenza, il rapporto con un essere primario diviene fonte della libertà personale, misura del proprio essere e della propria vicenda storica.

Si realizza così per Buber che in Jaspers un’unità tra impegno personale e rapporto con la trascendenza, tra <<vita etica>> e <<vita religiosa>> per usare l’espressione kikegaardiana. Buber e Jaspers, tuttavia, sia pur mantenendo il <<dislivello>> tra esistenza e trascendenza, riescono in certo senso a riconciliare ciò che in Kierkegaard appare caratterizzato in senso conflittuale. Il rapporto con la trascendenza infatti, in entrambi i pensatori, non mortifica l’umano ma gli apre orizzonti rinnovati. Sostanziale appare invece la differenza nel modo stesso di intendere la trascendenza da parte di Buber e di Jaspers e questo orienta diversamente le due stesse prospettive filosofiche. Buber, a questo riguardo, è più vicino a Kierkegaard rispetto a Jaspers. Il Dio di Buber è il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe, il Dio della rivelazione.

La trascendenza jaspersiana non è invece contenutisticamente identificabile con il Dio della religione positiva, né è oggetto di fede nel senso di una fede religiosa. In Jaspers siamo in presenza di un fede filosofica, di una fede di ordine razionale. La fede filosofica è continua apertura, problematizzazione assoluta, antidogmatismo. <<Essa non può raggiungere la quiete fissandosi in un punto, da deve assumere il rischio di un’apertura radicale. Non può appellarsi a sé come all’infallibile, non è obbligata ad assumere le forme del pensiero e della fondazione>>. La fede filosofica apre così all’uomo l’orizzonte della trascendenza ma questo orizzonte non si lascia circoscrivere.

E’ un orizzonte sempre ulteriore eppure nello stesso tempo si pone comunque come punto di riferimento dell’esistenza umana in ricerca. Si tratta di una trascendenza che <<non si presenta all’esistenza nella sua inseità, perché non esiste alcuna identità tra esistenza e trascendenza, ma si rende presente come cifra e quindi non come oggetto determinato ma, per così dire, attraversando trasversalmente tutta l’oggettività>>. La cifra non è né soggetto, né oggetto, ma la presenza dell’essere per il soggetto. La verità di una cifra, se riconosciuta e accolta come tale, illumina le decisioni portanti dell’esistenza.

Mentre in Jaspers la fede filosofica apre sicuramente possibilità nuove di rapporto tra l’esistenza e trascendenza, ma non nel senso di una relazione con la trascendenza simile alla comunicazione esistenziale che è invece possibile solo fra le esistenze, fra due sé personali che si confermano reciprocamente, in Buber la fede è effettivo dialogo tra la persona divina e le persone umane, un dialogo riproposto ad ogni uomo dalla creazione in poi. La creazione infatti è il primo atto dialogico di Dio a cui l’uomo è chiamato a rispondere. <<La responsabilità – afferma Buber – è il cordone ombelicale che ci lega alla creazione>> : l’uomo è costituito da Dio nella sua libertà affinché possa rispondere. Alla creazione segue la rivelazione per la quale Dio sceglie il popolo di Israele come interlocutore  privilegiato e la sempre attuale promessa della redenzione, come momento messianico, momento di pienezza del dialogo.

Il tema della responsabilità, la responsabilità per l’altro uomo e di fronte all’altro uomo, la responsabilità di fronte alla trascendenza in Jaspers o al Dio biblico in Buber, svela così ancora più chiaramente la centralità della dimensione relazionale. Questa dimensione già messa in luce nei due pensatori attraverso i temi del dialogo e della comunicazione dà un senso nuovo alla filosofia del Novecento: l’orizzonte del soggetto è sempre più l’orizzonte aperto del rapporto con l’altro, l’orizzonte della pluralità e della diversità.

 

Il problema teologico

L’esistenza dell’uomo si caratterizza strutturalmente come un farsi, un diventare che è insieme rapporto, relazione autentica.

Per Buber questa fondazione ultima è costituita dal rapporto con Dio che, come tutti i rapporti autentici, è un rapporto Io-Tu, e non un “rapporto di possesso e uso, cioè di tipo magico, ma definito dalle categorie della presenza, del destino e della libertà.

Il pensiero teologico in Buber non costituisce una teologia, nel senso di un resoconto sull’essere di Dio; pur tuttavia l’intera opera buberiana, nei ritmi solenni di Io e Tu oppure nelle analisi esegetiche de La fede dei profeti, è attraversata dal pensiero e dal riferimento a Dio.

Per Buber la teologia, come la filosofia, “deriva da un atteggiamento umano in cui Dio viene trasformato in un oggetto di pensiero, in una cosa”. Tuttavia Dio non può essere coalizzato, trasformato e ridotto ad un Esso, una mera rappresentazione del pensiero avente lo scopo della conoscenza. Intorno a Dio, l’unica cosa che Buber può dire è che egli è il Tu eterno, colui che non deve essere de-finito o de-scritto, ma che può essere solo avvicinato per mezzo della obbedienza consacrata e del rischio della fede: “Le linee delle relazioni, nei loro prolungamenti, si intersecano nel Tu eterno”. Con l’espressione Tu assoluto o Tu eterno Buber indica Dio nel linguaggio della filosofia della relazione: egli è convinto che il pronome Tu “sia l’unico modo adeguato per parlare di Dio, perché Egli si rivela appunto all’uomo nella relazione”. In questo senso “Ogni singolo tu è una breccia aperta sul Tu eterno”.

Buber riconosce che della parola Dio si è molto abusato perché, certo, “di tutte le parole umane è la più sovraccarica”; tuttavia chi dice la parola Dio e intende realmente il Tu, dice il vero tu della sua vita. Il problema teologico si situa dunque in Buber nel punto di orizzonte della direzione fondamentale, che interpella l’uomo e che l’uomo chiama “quando scompare ogni illusione e ogni inganno, nell’oscurità piena di solitudine”.

L’accesso alla relazione con Dio tuttavia non va circoscritta al possedimento, che denota il mondo dell’Esso, ma si caratterizza nella “completa accettazione del presente”, come quando, incontrando un uomo per strada, “conosciamo solo il nostro tratto di strada, non il suo; del suo, infatti, veniamo a conoscenza solo nell’incontro”.

Questa relazione con Dio, sottolinea Buber, non va confusa con la relazione mistica: non si tratta di “rinunciare all’io, ma al falso istinto di autoaffermazione”; la distanza dalla mistica si caratterizza in primo luogo nel “rifiuto della acesci dal mondo per incontrare Dio e, in secondo luogo, nel rifiuto dell’annullamento dell’io in Dio”. Più precisamente Buber tematizza le coordinate della relazione Io-Tu eterno rilevando che “entrare nella pura relazione non significa distogliere lo sguardo da ogni cosa, ma vederla nel tu; non significa rinnegare il mondo, ma collocarlo nel suo fondamento.

E’ alla presenza di Dio colui che vede il mondo in lui. Non si trova Dio restando nel restando nel mondo e non si trova Dio allontanandosene. Chi, con l’intero suo essere va verso il Tu e gli porta ogni essere del mondo, trova colui che non si può cercare”.

Risulta così pertinente quanto rileva H. Kohn secondo cui “le contrapposizioni che così a lungo hanno occupato la teologia e la filosofia perdono il loro significato. Dio abita il mondo ma non è nel mondo, egli è piuttosto il luogo del mondo”. Il Dio di cui parla Buber è il “totalmente presente” e tuttavia “non si può inferire dalla natura come suo artefice o dalla storia come suo rettore” poiché Dio “può solo essere legittimamente appellato, ma non detto”. C’è in questa presenza, sostiene Buber, la differenza costitutiva fra la preghiera, “che pone di fronte al Volto” e la magia che “opera senza entrare nella relazione”.

La relazione autentica supera anche la “dottrina dell’inabissarsi”, dell’essere-una-cosa-sola nella quale viene intesa come unità estatica ciò che invece, a parere di Buber, è la “estasiante dinamica della relazione”.

Parimenti Buber critica in questa prospettiva la “dottrina dell’annientamento”, per la quale “il tutto e l’io sono una cosa sola e quindi nessun dire tu è in grado di garantire una realtà ultima”.

In sintesi, nel rapporto con Dio Buber cerca sempre di “non lasciare da parte la persona reale”, perché “chi si limita a vivere interiormente il proprio atteggiamento, per quanto possa essere pieno di pensieri, è senza mondo”.

In queste posizioni si riflettono le radici dell’ebraismo buberiano, in cui il concetto di direzione acquisisce una importanza del tutto particolare, per cui “Chi va veramente verso il mondo, va verso Dio”, dal momento che “Dio ricomprende l’universo ma non è l’universo; ma allo stesso modo Dio ricomprende anche il mio io, senza esserlo”.

L’uomo buberiano, quindi, è veramente stretto in una inquietante (l’agitazione della creatura tra i regni della sicurezza vegetale e dell’azzardo spirituale”), nella quale è sempre potente il “continuum del mondo dell’esso e la fragile apparizione del tu”. E tuttavia in ogni relazione che è possibile contrarre “lanciamo uno sguardo al margine del Tu eterno”; in questo sguardo misterioso sono contenute secondo Buber sia la “reale reciprocità” che la “ pesantezza della vita”. La vita non viene resa più leggera ma viene, viceversa, caricata di senso, cosicché “nulla più può essere senza senso”; senso che non è quello “di un'altra vita, di un aldilà, ma quello di questo nostro mondo, senso che vuole trovare conferma da parte nostra in questa vita e in questo mondo”.

Ritorna in queste affermazioni la densità del messaggio chassidico, che nell’opera Il cammino dell’uomo Buber interpreta anche dal punto di vista esegetico: “La parola della rivelazione è: Io sono presente così come sono presente”. Traspare nella analisi di Buber un velo di critica nei confronti dei culti che cosalizzando Dio diventano “devozione regolamentata” e, viceversa, un richiamo forte alla testimonianza, alla presenza che si fa provocazione qui ed ora; proprio perché il mondo non è qualcosa di disincarnato, “la pura relazione non può essere custodita, può solo essere testimoniata”.

Secondo alcuni studiosi, “troviamo qui alcuni degli elementi più interessanti del filosofare buberiano: il pensiero teologico e quello storico si esprimono anch’essi in maniera dialogica. Dio entra in dialogo con l’umanità attraverso il proprio popolo e inizia così la comunicazione tra il cielo e la terra”. In questo senso, allora, l’uomo è veramente nella relazione con il Tu eterno quando “ secondo le sue forze, rende nuovamente Dio reale nel mondo”.

Questo elemento della testimonianza viene precisato da Buber come il fatto della vita, il dovere dei doveri, in quanto “L’incontro con Dio non capita all’uomo per essersi occupato di Dio, ma per aver testimoniato nel mondo il senso”. E questa testimonianza è piena di fatica e di dolore esistenziale poiché “la storia è un approssimarsi pieno di mistero”. Buber precisa che il quesito fondamentale “non è su Dio, ma sulla nostra relazione con lui. E tuttavia, per poter rispondere, devo parlare di lui”; perciò egli utilizza nei confronti di Dio il concetto di persona o, meglio, di “persona assoluta”.

Questo carattere paradossale della connotazione di Dio, come annota A. Poma, “esprime il modo in cui Dio si rivela liberamente a noi nella relazione e, allo stesso tempo, il fatto che noi, però, non possiamo relativizzare Dio, cioè ridurlo alla sua presenza nella relazione”.

F.S. Pignagnoli evidenzia ulteriormente che in Buber “l’Io può incontrare Dio solo come persona, essendo l’idea di Essere impersonale e de-personalizzante, trasformante l’eterno Tu nel Qualcosa. In tal modo Buber rifiuta ogni deismo fondato sulla metafisica dell’Essere. Di conseguenza in Buber c’è una ontologia della relazione ma non una metafisica”.

Tuttavia è proprio in questo “Tu eterno” che l’uomo può trovare l’amore comprensivo di ogni amore, la relazione che “giustifica ogni relazione”; impregnandoci di Tu, è un orientamento che orienta ad essere per ciascuno, a sua volta, creatori di autentici Tu.

A. Babolin evidenzia in questo la novità del pensiero buberiano, che risiede nella “rigorosa rivendicazione dell’esser colto nella esperienza della persona aperta a svelare il tessuto originario di sé come relazione posta da un Tu assoluto; cossichè l’ontologia dell’essere è l’ontologia della relazione e della alterità personale”.

Il che, secondo Babolin, risolve due questioni fondamentali: l’io come io è fondato da un Tu assoluto e quindi “in tutto il proprio statuto ontologico di relazione è condizionata dalla comunicazione dell’essere proveniente dal Tu assoluto che, comunicando l’essere, pone l’altro in una consistenza in sé, aperta verso il Tu assoluto, sicchè l’atto di sé trova la completa soddisfazione nella apertura dialogica con il Tu assoluto”.

Se da un lato, ammette Buber, di tutte le parole umane quella di Dio è la “più sovraccarica” nella misura in cui si tende a  “possedere Dio”, essa evidenzia in questa prospettiva il grande compito dell’uomo: essere chiamato a vivere con il “Tu sulle labbra”.

Ed è in questa direzione che viene vivificato autenticamente anche il concetto di socialità, che non è più la “somma aritmetica degli individui”, ma il luogo del noi più genuino, poiché “solo gli uomini capaci di dirsi l’un l’altro il Tu in modo autentico possono dire in misura non meno autentica noi”.

In questa prospettiva, allora, il mondo non va considerato in modo distaccato, da santificare o da abbandonare, ma da “conoscere e santificare” : in questo avviene il processo di unificazione che è per Buber “il nucleo stesso della redenzione messianica”. E’ in questa chiave che va letto il lavoro che per quarant’anni occupa Buber nella traduzione della Bibbia dall’ebraico al tedesco. Come nella relazione Io-Tu (in cui l’Io è chiamato al rispetto per l’altro senza imporre i propri schematismi), parimenti di fronte alla vita della Parola anche la lingua tedesca “chiamata a relazionarsi alla parola ebraica, doveva tendere all’abbandono delle proprie strutture lessicali e linguistiche, per piegarsi alle esigenze della lingua altra, l’ebraico, appunto.

Secondo J.A. Soggin “si tratta del lavoro di un genio, che non stabilisce una nuova metodologia”; in questo senso l’opera di Buber mira al rispetto della lingua originaria nel suo movimento verso il tedesco, poiché “è il testo originale che preme” , è la parola ebraica con il suo ritmo che deve risuonare dentro la parola tedesca e non viceversa.

Così Buber si avvicina al patrimoni teologico della tradizione ebraica, i cui problemi esegetici e filologici solo e nella misura in cui “riescono a far emergere la violenza relazionale della Parola, la sua forza d’urto ad opera delle scelte d’amore compiute da JHWH, gli interessano e gli appartengono.

Certo che della rivelazione è possibile solo una “descrizione balbettante” , tuttavia anche in tempi di intromissione che conduce da un lato all’eclissi di Dio e, dall’altro, l’uomo del rapporto Io-Tu alle catacombe” , la “considerazione dell’offuscamento della luce nel mondo può portarci alla fine alla prospettiva di un nuovo incontro”.

Secondo M.A. Beek e J. Sperna Weiland, la traduzione biblica buberiana “induce il lettore ad assimilare, a gustare le parole lentamente, senza ingoiarle, allo stesso modo in cui prima che si inventassero i libri stampati, si lasciava tempo affinché un brano penetrasse nella mente che così diveniva un’unica cosa con la parola stessa”.

Di sé, Buber parlò una volta come di un uomo atipico; in questo senso il suo messaggio così ricco di implicazioni etiche, sociali e profondamente religiose appare in un certo qual modo in-ascolto e in-attuale, affidato al tempo e alla pazienza della espressione biblica che invita a “gettar pure il tuo pane sulla superficie dell’acqua perché, dopo molto tempo, tu lo ritroverai”.

 

Buber e filosofo politico

 

Introduzione

Il dialogo, come lo intende Buber, precede il titolo di universalità del dialogo politico. E’ un dialogo, per così dire, che <<fa entrare nel dialogo>>.

E’ ciò che Platone continuamente cercava: se parlate con me, posso convincervi; ma come posso obbligarvi a entrare nel dialogo? Buber cercava il dialogo che fa entrare nel dialogo. Il punto di partenza è l’<<Io>> che interpella il <<Tu>>, anziché considerarlo come un oggetto o come un nemico. Ciò che pone fine alla violenza e illumina ogni intelligenza, non è la cancellazione giuridica dell’<<Io>> sotto la legge universale e anonimo dello Stato, ma la domanda rivolta a quel <<Tu>> che non può essere colto da nessun concetto.

 

L’utopia tra profezia e apocalittica

Il principale scritto politico di Buber è del 1945, proprio mentre l’Europa viene divisa in due blocchi, uno dei quali dominato dal socialismo cosiddetto <<scientifico>>. Sentieri in Utopia intende mostrare che il socialismo vincente, quello di Marx, è invece quello perdente; e che il preteso socialismo utopistico non solo non è fallito, ma ha ancora molto da insegnare all’umanità. Troviamo ancora, in Sentieri in utopia, una caratteristica precipua di Buber: la ricognizione del passato produce la consapevolezza dell’ora presente al fine di orientare la decisione per il futuro. Non sfugge al Nostro quanto i filosofi della storia hanno definito: che il socialismo altro non è che la secolarizzazione della escatologia ebraico-cristiana. L’utopia descrive qualcosa di desiderabile, che non è ancora presente, non è in alcun topos. Mentre l’escatologia religiosa attende la realizzazione di un tempo perfetto, è allo spazio perfetto che si rivolge l’utopia, ad un topos che non è ancora, ma che sarà la verità di domani. E mentre l’escatologia attende un Messia sovrumano, l’utopia, questa immagine del non-presente, verrà realizzata dall’uomo nella storia: <<Escatologia significa compimento della creazione, utopia esplicazione delle possibilità di un ordinamento “giusto” latenti nella convivenza umana. Più importante è un’altra differenza. Per l’escatologia – anche se nella sua forma elementare, profetica assegna all’uomo una rilevante parte attiva nell’avvento della redenzione – l’atto decisivo viene dall’alto; per l’utopia tutto è soggetto alla cosciente volontà umana, tanto che si potrebbe addirittura definirla come un’immagine della società in cui non vi sono altri fattori all’infuori della consapevole volontà dell’uomo>>.

L’utopia nasce dallo spostamento del messianismo escatologico. Ora una distinzione costante negli scritti del Buber definisce due tipi di messianismo: il primo è quello dei profeti di Israele, i quali rimproverano gli uomini che hanno tradito la volontà di Dio e li richiamano alla conversione interiore e alla decisione per Dio; il secondo è l’attesa apocalittica, originariamente iraniana, che accentua la redenzione cosmica e minimizza la volontà redentiva dell’uomo. Questa dictomia costituisce una costante del pensiero di Buber.

Entrambe le esperienze, quella profetica e quella apocalittica, sono messianiche e si fondano sulla fede nel Dio signore della storia. Ma il modo in cui esse annunciano l’intervento divino è diverso. Il messaggio dei profeti si radica nella originarietà e imprescindibilità del dialogo tra uomo e Dio. Il profeta non è in alcun modo l’indovino – è colui che rimprovera l’uomo che ha rotto la relazione con Dio e lo incita a ripristinare questa relazione, a divenire il partner dialogico di Dio nella storia.

Questa   prospettiva profetica, proprio di tutta la storia di Israele, muta radicalmente nell’età ellenistica, soprattutto per opera del Deuteroisaia, nel quale per la prima volta un profeta annuncia il compimento dell’espiazione attraverso la sofferenza del popolo. Il IV libro di Esdra e l’Apocalisse di Giovanni accentueranno questa tendenza deterministica: dato che ogni evento è già predeterminato, ogni decisione umana è superflua. Il futuro è, in realtà, un passato, anzi un presente già predeciso in excelsis. Il dramma descritto dall’apocalittica con accenti così drammatici tocca l’uomo, ma non riguarda l’uomo, in quanto non dipende dalla sua volontà. Il destino apocalittico non può in alcun modo essere mutato, ma solo atteso; la storia annunciata dall’apocalittica non è storia, in quanto ogni evento futuro è già compiuto sin dall’inizio e ogni azione dell’uomo è come un <<gioco di specchi>>.

 

Socialismo utopistico e marxismo

Ora i due messianismi non sono soltanto due fatti storici, ma anche due vie di salvezza proprie di ogni epoca storica. La tipologia profetiamo-apocalissi non vale solo per la storia di Israele, ma anche per l’epoca nostra. Possiamo, dunque, applicare questo schema alla storia del socialismo. Infatti, nella misura in cui è la secolarizzazione dell’escatologia, anche il socialismo assume ora l’uno ora l’altro dei messianismi: mentre il socialismo di Marx, figlio della dialettica hegeliana, descrive <<scientificamente>> la fatale apocalissi dell’umanità, il socialismo utopistico laicizza la speranza dei profeti e si appella alla volontà redentrice degli uomini.

La critica del marxismo al socialismo utopistico è radicata nell’apocalittica atea: il socialismo di Fourier e di Proudhon sarebbe <<utopistico>>, in quanto privo di quelle garanzie che solo le divinità atee della modernità, ossia la Scienza e la Storia, possono dare. E v’è di più: Marx rifiuta il socialismo utopistico in quanto <<volontaristico>>, ossia in quanto nega ogni provvidenzialismo storicistico e si appella alla decisione dell’uomo. In tal senso, la critica marxiana dell’utopismo si ritorce come un boomerang nei confronti di chi la getta, in quanto disvela il fatalismo storico di Marx, la sua pretesa, non dissimile da ogni altra apocalittica, di concludere la storia con un evento catastrofico, certo distruttivo e sanguinoso, ma anche salutare e inevitabile, dato che deriva dalla necessità storica come ultimo atto palingenetico, che modifica la struttura socio-economica e, di conseguenza, produce l’uomo nuovo. L’utopia apocalittica di Marx si rivela, qui, di tanto più utopistica dell’utopia profetica degli utopisti.

L’analisi buberiana dei socialisti utopistici non è certo esemplare per completezza e rigorosità. Ciò che più importa al Nostro non è la ricognizione storica, ma l’insegnamento per il presente che si può trarre da una esperienza passata. Ora il contrasto tra apocalittica marxiana e profetiamo socialista consente di intuire da un lato il radicale antiumanesimo di Marx, dall’altro la validità propositiva dei socialisti utopisti. E’ possibile schematizzare in quattro punti fondamentali questo contrasto tra antiumanesimo apocalittico e umanesimo profetico:

1.      mentre il marxismo privilegia il mutamento delle strutture, così come l’apocalittica descrive un evento cosmico, il socialismo privilegia la metafisica interiore, così come i profeti parlavano al cuore dell’uomo; ogni vero mutamento non può che essere primariamente interiore: l’uomo nuovo marxiano è post-rivoluzionario (cioè conservatore), quello socialista è pre-rivoluzionario (cioè autenticamente rivoluzionario);

2.      il marxismo vuole produrre la libertà dalla necessità: il processo storico che conduce al <<Regno>> non dipende dalla volontà degli uomini, ma la produce; l’esito apocalittico delle contraddizioni del capitalismo non è una possibilità, ma una fatalità storica; per i socialisti utopisti la  nuova società umana è una produzione della libertà e della moralità umana; il motore del rinnovamento è la libera associazione, secondo quello che Proudhon, nel suo impegno di dèfatalisation, chiamava <<principe fèderatif>>: <<tutti associati e tutti liberi>>;

3.      il centralismo e la dittatura, che tutti i regimi marxisti hanno realizzato in forme mai prima conosciute, sia pure con la speciosa giustificazione del loro carattere meramente provvisorio, non sono errori o incidenti della storia della salvezza, ma derivano con logica necessità dai presupposti apocalittici del marxismo: <<in fondo Marx è sempre stato centralista>>; il periodo tra la rivoluzione e la parousia deve essere <<contraddistinto da un centralismo integrale, intollerante di qualsiasi aspetto e iniziativa particolare>>; non così l’utopismo socialista, che fonda il superamento dell’ingiustizia sociale sul duplice rifiuto dell’individualismo atomistico e del collettivismo massificante; l’ossatura della società non è data né dai singoli né dallo Stato, ma dalla <<associazione volontaria>>, in quanto la vera società è composta di tante società;

4.      il vero socialismo non è internazionale, ma nazionale; Buber, rifiuta il nazionalismo (evidente nel <<socialismo nazionale>> di Hitler), ma non può accettare il progetto internazionale del Manifesto marxiano; e ciò in quanto l’uomo, in quanto ente dialogale e relazionale, vive in una tradizione; e la tradizione altro non è che la forma della associazione.

Né Buber si limita a indicare le differenze tra Marx e il socialismo utopistico. La sua indagine discopre con realistica acutezza l’esito leninista del marxismo, che è di totale e insuperabile centralismo, in quanto <<lo Stato ha inghiottito la società>>. Nel leninismo e, coerentemente, nello stalinismo le speciose espressioni <<dittatura del proletariato>> e <<centralismo democratico non riescono a celare la realtà delle cose e il loro immodificabile principio ispiratore: <<la concezione di un centro assoluto della dottrina e dell’azione, da cui derivano le uniche tesi valide e gli unici ordini determinanti, di una dittatura di questo centro coperto dalla “dittatura del proletariato”; in altre parole, la tendenza a perpetuare la politica rivoluzionaria accentratrice a spese delle esigenze decentratici di una collettività socialista in formazione>>.

 

Comunità e federazione 

Le quattro divergenze tra profetiamo socialista e apocalissi comunista vengono definite da Buber con l’occhio e il cuore volti al modello esemplare dell’amico trucidato, martire consapevole del socialismo religioso: Gusatav Landauer, ucciso dai soldati <<bianchi>> durante i moti di Monaco del maggio 1919. In questo pensatore israelita, la linea antimarxiana del socialismo utopistico si concretizza in una sociologia realistica e in un progetto etico-religioso. Socialismo, per Landauer, non è una scoperta della modernità, ma la categoria perenne dell’associazionalismo; esso non è il frutto di un’epoca storica, ma una possibilità costante della spiritualità: <<Il socialismo è possibile e impossibile in tutti i tempi; è possibile se ci sono gli uomini giusti che lo vogliono o, meglio, che lo fanno; ed è impossibile se gli uomini non lo vogliono o, per così dire, si limitano a volerlo, ma non sono in grado di farlo>>.

Il socialismo religioso non rifiuta lo Stato (evitando così che la distruzione dello Stato dia origine, come in URSS, allo Stato-partito). Lo Stato è uno status, ossia un insieme di relazioni che gli uomini istituiscono – esso non va abolito, ma sostituito da nuovi rapporti, non burocratici, tra gli uomini. Ciò che Landauer propone, dunque, non è una rivoluzione (apocalittica), ma una rigenerazione (profetica). Basterebbe pensare alla Rivoluzione francese, il cui esito furono fanatismo e terrore, dispotismo e atomizzazione. La rigenerazione è una rivoluzione personale-sociale, non politica – essa consiste nel riproporre il tessuto dei gruppi autonomi associativi, che caratterizzò altre epoche storiche, come la <<società di società>> del Medioevo cristiano, questo <<insieme di autonomie che si compenetravano a vicenda>>.

E ciò non è possibile senza religione, dato che solo la religione indica, con la sua saggezza metastorica, quali siano i limiti invalicabili dell’attività politica. Non è un caso che siano state proprio le ideologie atee a produrre la concentrazione totalitaria: l’era del capitalismo ha destrutturato la società e la Rivoluzione francese l’ha atomizzata. Né sono serviti i succedanei della socialità perduta, come i sindacati e i partiti, a riprodurre una autentica relazione comunitaria, dato che questi rimangono entità burocratiche, estranee al vero spirito della Gemeinschaft. Buber accoglie la distinzione del Tonnies fra la socialità autentica, premoderna, della <<comunità>> e la convivenza inutentica, astratta e calcolatrice, della <<società>>.

La speranza di Buber è che, dopo la distruzione del socialismo a Mosca, esso possa nuovamente sorgere a Gerusalemme, nei villaggi comunitari della Palestina, e di lì esportare questo modello <<utopistico-profetico>> nel mondo. Il socialismo, di cui Buber traccia il disegno, non è in alcun modo un partito politico o un sistema statuale – esso è un progetto non politico, nella misura in cui supera e orienta la politica, fornendole quel <<centro>> di cui essa, per sé, è priva. Tale centro è la <<trasparenza verso il divino>> - un divino che non distacca dal mondo degli uomini, ma collega i viventi in un sociale dialogo aperto, se è vero, come è vero per Buber, che <<die wahre Gottesliebe fangt mit der Menschenliebe>>. E come la religione è comunità, così le strutture autentiche del sociale sono comunitarie – associazioni, federazioni, cooperative: <<L’essenziale è che il processo di formazione comunitaria continui nel rapporto fra le comunità. Solo una comunità di comunità potrà fregiarsi di un simile nome>>.

 

Società e Stato

Duplice, dunque, il ruolo della religione per la costituzione della comunità: un ruolo negativo, che consiste nel porre in crisi ogni pretesa compiutezza delle realizzazioni societarie nella storia; e un ruolo positivo che induce a cementare sul triplice mistero della creazione-rivelazione-redenzione una società dialogica, fondata sul triplice rapporto io-tu-Tu. Al ruolo critico-negativo Buber ha dedicato due importanti saggi: uno dedicato alla definizione della <<linea di demarcazione>>; l’altra al difficile rapporto tra società e Stato.

Il valore della politica: realizzare, per quanto possibile, il Regno di Dio tra gli uomini; il limite della politica: riconoscere che si tratta sempre di una realizzazione imperfetta e parziale. Buber si oppone a ogni machiavellismo come a ogni ragion di Stato o Realpolitik. La politica non è solo un conflitto di forze; esso non è mossa solo dalla ricerca dell’utilità o del dominio. E la pretesa di Carl Schmitt, di racchiudere il politico nella cornice conflittuale <<amico-nemico>>, è per Buber inaccettabile.

La limitazione della politica si può esprimere con la nota frase evangelica: <<Non si può servire Dio e Mammona>>. La frase è generica, e proprio in ciò consiste la sua validità. La <<linea di demarcazione>> non è fissata una volta per sempre, essa deve sempre di nuovo essere inventata dalla libera decisione dell’uomo. La scelta tra l’interesse del gruppo e la legge morale universale non è necessariamente una disgiunzione – talvolta è possibile far convergere politica e morale, nel senso che Dio può essere servito anche nella comunità <<quanto più si può>>.

E anche tra società e Stato c’è una linea di demarcazione, che deve impedire alla società di servirsi dello Stato per fini di utilità di parte e allo Stato di occupare la società annullandone il pluralismo conoscitivo. Buber non cede mai all’utopia anarchica di una estinzione dello Stato e ritiene, anzi, che lo Stato e la politica siano realtà perpetuamente necessarie per la vita associata. Ma la finalità dello Stato è di produrre condizioni giuste e libere, che consentono alle molte società la realizzazione armonica e collaborativi delle loro finalità proprie. Lo Stato non è mai, per sé, morale – è strumento della morale, quando accetta la linea di demarcazione, che lo trattiene al di qua del terreno minato dello <<Stato etico>>.

La sintetica e affascinante storia del rapporto Zwischen Gessellshaft und Staat, tracciata da Buber, parte dai greci e, attraverso il Medioevo cristiano, giunge sino al totalitarismo moderno, figlio legittimo di Hobbes, Rousseau e Hegel. Si pensi alla nota massima di Rousseau: <<Il importe, pour avoir bien l’ènoncè de la volontè gènèrale, qu’il n’y ait pas de sociètè partielle dans l’ètat>> - il dispotismo della Rivoluzione francese e i totalitarismi novecenteschi vi sono già contenuti in potenza.

La libertà e la giustizia sono più largamente possibili nelle società pluralistiche, dove coesistono molte famiglie, associazioni, gruppi, circoli, cooperative, enti locali. Lo Stato è un principio regolativo, ma solo la società, che è primaria e più creativa, genera la vitalità del tessuto sociale. Compito dello Stato è di armonizzare le forze sociali e di difenderle dai pericoli esterni – quando eccede questi compiti, diviene uno Stato <<cattivo>>, in quanto trasforma l’amministrazione in governo.

Ne deriva, ovviamente, che lo strumento più idoneo per consentire alle forze sociali di attuare i loro compiti, è il decentramento. Vige la regola: <<più società, meno Stato – più Stato, meno società>>. Il ruolo dello Stato, allora, non è primario, ma secondario, è un ruolo ministeriale. Buber è socialista federalista, non un anarchico. Egli non esclude lo Stato, anzi lo richiede come lo strumento necessario per coordinare le attività dei gruppi associati, per dirimere i loro contrasti e per difenderli dai pericoli esterni. Qualora, per ipotesi altrettanto affascinante quanto irreale, si pervenisse a una situazione, interna ed esterna, di <<pace perpetua>>, allora lo Stato non servirebbe più: <<die Supermatie des politischen uber das soziale Prinzip wurde wesentlich abnehmen>>.

 

Religione e politica

  

        

Q

 

   

 

 

Che cos’è la teocrazia per Max Weber?

“Nel trattare i problemi della storia universale, il figlio della moderna cultura europea formulerà inevitabilmente e a ragione la seguente domanda: per quale concatenazione di circostanze, proprio qui, in terra d’occidente, e soltanto qui, si  sono prodotti dei fenomeni culturali i quali – almeno così ci piace raffigurarceli –  si sono trovati in una direttrice di sviluppo di significato e di validità universali?” queste prime righe delle osservazioni introduttive a “L’etica protestante e lo spirito del capitalismo” rappresentano il “demone” con cui l’uomo occidentale continua a misurarsi: perché la civiltà europea ha sviluppato dei modi di organizzazione politica ed economica che sono diventati modelli di acculturazione? La riflessione e la chiarificazione del senso della modernità, le sue origini e il suo destino è il compito che anche Max Weber attribuisce al proprio lavoro di intellettuale; un compito che nei momenti di autoanalisi, come in “Il lavoro intellettuale come professione”, assume le forme di un esercizio ascetico al quale è sottesa la coerenza nella propria vocazione.

La dichiarazione di essere un borghese con coscienza di classe riflette proprio la responsabilità morale di un membro della borghesia protestante che vede nelle vicende degli uomini della propria classe alcuni degli autori del destino dell’Occidente moderno. La weberiana comprensione della storia alla luce del presente nasce da una rappresentazione che ha abbandonato le teologie laiche e legge invece gli eventi come il coaugularsi delle più disparate scelte di valore individuali. Per Weber nessuna analisi della modernità può prescindere dalla investigazione dei valori, degli atteggiamenti e delle motivazioni dei singoli individui e dei gruppi.

La vita degli uomini è fatta da una serie di scelte attraverso le quali essi optano tra sistemi di valori e attraverso essi danno una direzione di significato (senso) alla propria esistenza. La storia è la creazione, l’affermazione e la lotta tra tali scelte fatte dagli uomini e il senso di un periodo storico è il prodotto di forme di agire sociale che solo una interpretazione a posteriori è in grado di generalizzare entro categorie rappresentative. Il compito dello scienziato che analizza la storia è la ricostruzione e la comprensione delle scelte attraverso le quali sono stati elaborati i sistemi di valori lasciandone intatta l’autonomia.

Weber, coerentemente con la propria metodologia storica, pone una antitesi inconciliabile tra l’ordine che la scienza dà della storia e quello che ne danno i valori.

La prima lavora in base a una responsabilità di fronte ai fatti e alla conferma empirica, i secondi agiscono sulla libera scelta e la libera affermazione. La scienza non dice nulla sulla giustezza delle scelte di valore, ma ne ricostruisce il cammino entro l’ordine delle possibilità di condizionamento sulla cui base essa lavora. Entrano tale ordine di correlazione tra i comportamenti pratici possono emergere delle linee di continuità le quali sono puramente discrezionali. Il condizionamento che certi valori esercitano sulla elaborazione di un sistema sociale è ben lontano dai nessi di causalità ontologica e lineare che le filosofie della storia stendono tra gli eventi.

Entro l’ordine della causalità, applicato alla storia dell’Occidente, emerge una continuità singolare: la progressiva affermazione di un sistema di senso che si affida al valore della razionalità. Il concetto weberiano di razionalità non è né teorico né univoco.

Esso, prima di tutto, si riferisce a comportamenti pratici di individui storici che agiscono nella quotidianità. Pertanto differisce dall’uso che ne fanno le filosofie della storia dove la razionalità coincide con la capacità di conoscere leggi oggettive del movimento storico e il suo significato immanente.

In secondo luogo, pur dando della storia occidentale una interpretazione continuistica non è univoco, ma comprende livelli di analisi diversi ed effetti di razionalizzazione non perfettamente isomorfi. E’ tenendo presente tale “ poliverso della razionalizzazione” che il concetto di razionalità è assunto da Weber come campo di unificazione di comportamenti di individui che agiscono nei diversi sistemi del mondo. Ma cosa significa, per Weber, che un soggetto agisce razionalmente? “ La razionalità è un procedimento di controllo per dominare la realtà dentro e fuori dell’uomo. I criteri di tale procedimento sono la calcolabilità, la prevedibilità, la generalizzabilità dei mezzi rispetto al fine di controllo o padronanza del mondo”. La razionalità, quindi, è un modo di agire caratterizzato mediante strumenti intellettuali. Nella storia dell’Occidente il fine del controllo dell’ambiente è divenuto il valore dominante i cui imperativi si sono estesi a tutti i sistemi del mondo, ben oltre la sfera economica. Weber riduce le caratteristiche pratiche di tale razionalismo entro la dictomia tipico-ideale delle razionalità formale e materiale.

La razionalità formale è sinonimo di calcolabilità allo stato puro, mentre la razionalità materiale pondera i risultati dell’azione sulla base di postulati valutativi esterni che possono essere dei valori o degli scopi materiali. L’agire razionale formale, invece, non risponde a condizionamenti eteronomi (siano essi valori o scopi materiali). La razionalità formale è una forma di razionalità strumentale autonoma, la quale ripiega entri sé gli scopi: il controllo del mondo per il controllo del mondo. Sul piano storico l’espansione della razionalità formale coincide con la contrazione delle alternative dell’agire, delle più estranee ad essa (l’azione tradizionale e quella carismatico-emotiva), a quelle anche più compatibili (l’azione razionale strumentale sia rispetto al valore che allo scopo). Il destino che Weber intuisce per l’Occidente è la chiusura delle sfere del mondo entro il formalismo razionale che assume metaforicamente le sembianze di una gabbia d’acciaio. In “Il lavoro intellettuale come professione” Weber scrive: “La progressiva razionalizzazione del mondo non significa crescente conoscenza generale delle condizioni di vita che ci circondano. Esso significa qualcosa di diverso: la coscienza o la fede che, se soltanto si volesse, si potrebbe in ogni momento provare che non vi sono forze misteriose e imprevedibili le quali intervengono in modo tale da impedire che si possano dominare le cose mediante la previsione razionale”.

Ma ciò significa per Weber disincantamento del mondo, riduzione di esso ad un cosmo di leggi causali che pretendono  una autonomia legale entro i rispettivi sistemi di competenza. Di fronte alla irreversibilità del disincantamento, il segno distintivo dell’uomo moderno è la consapevolezza della disintegrazione del senso univoco del mondo e la capacità di “tenere levato lo sguardo al volto severo dei tempi”. Promuovere negli uomini il senso di responsabilità della propria azione è ciò che Weber affida alla professione della scienza storica: la genealogia storica dell’azione per chiarire il senso di se stesso all’agire individuale il quale rimanda poi alla libera volontà di scelta il proprio fondamento. Ed è in questa direzione che si muove la sociologia delle religioni: comprendere le possibilità di condizionamento che le scelte di senso religioso hanno avuto nella formazione di quella individualità storica che si chiama “modernità”. Facendo riferimento al linguaggio di Weber la questione si pone sull’individuazione degli spazi di interfacciamento tra razionalità formale, razionalizzazione e senso religioso del mondo. L’analisi è rivolta agli effetti della religione nei confronti dei diversi sistemi del mondo.

Tutte le religioni universali hanno sviluppato una teoria dei rapporti con il mondo, la quale ha, alla sua base, due opzioni di atteggiamento o il rifiuto del mondo.

Le religioni universali o si adattano all’ordinamento sociale e alle sue regole o lo respingono. Le religioni universali orientali si sono adattate al mondo, quelle occidentali lo hanno respinto. Solo nel caso di rifiuto del mondo la religione universale si configura come religione di redenzione. Il messaggio di redenzione, promosso dal movimento profetico, trova i propri fedeli negli strati sociali deprivilegiati che avanzano aspettative di emancipazione sociale. L’antagonismo al sistema sociale esistente di entrambi converge nel controllo dell’azione diretta a fini.

Ma ciò significa razionalizzazione del comportamento. Psicologicamente razionalistici sono gli strati deprivilegiati cittadini, la piccola borghesia e i ceti artigianali. Weber esclude tra i portatori di esigenze razionalistiche i contadini.

La loro identità culturale è legata alle pratiche dell’influenzamento magico degli spiriti irrazionali della natura. La condotta quotidiana della piccola borghesia suggerisce invece ai suoi membri l’idea che l’osservanza continua e rigorosa che hanno con il proprio codice morale non possa prescindere da una religione di redenzione; la sua azione è orientata verso una remunerazione etica, una ricompensa per la continuità di tale sforzo. Il piccolo borghese si aspetta che un ordinamento del mondo eticamente razionale pareggi l’attaccamento alla propria professione. Ciò che per il piccolo borghese non è in relazione al suo status sociale, è integrato con la dignità “di ciò che un giorno sarà – di ciò che è chiamato ad essere in una vita futura di qua o di là – oppure con ciò che egli, provvidenzialmente considerato, significa”. Tutto ciò egli lo ritrova nella struttura della religione di redenzione. Essa infatti orienta la propria azione verso una remunerazione degli sfavori della vita dei suoi fedeli sulla base di promesse di liberazione dall’oppressione e dalla sofferenza del mondo, attualizzabili o attraverso lo sforzo di conformare le istituzioni sociali ai principi della propria etica. La remunerazione dalle sfortune della vita è valutata in base ad una casistica quasi algebrica di colpe e meriti applicati alla condotta di ogni singolo uomo. Le aspettative del giusto pareggio sono poste inizialmente nella trasformazione sociale dell’al di qua e solo quando tale mutamento si fa attendere, l’etica della remunerazione si trasforma in una escatologia dell’al di là: in tal modo anche coloro che vivono miseramente nei “tempi della non venuta” godranno post mortem della felicità mancata. La caratteristica essenziale della religione di redenzione, qualunque sia la direzione del rifiuto e il successo terreno del messaggio profetico, è il proponimento di dare un senso etico al mondo in risposta ai problemi dell’esistenza della sofferenza e della disuguaglianza nella distribuzione della felicità e della ricchezza. In rapporto al primo essa si fa portatrice di promesse di salvezza, bilanciando la presenza della sofferenza nel mondo con la prospettiva di redenzione nell’al di là; in rapporto al secondo elabora dei sistemi di compensazione etica funzionali a riattualizzare l’uguaglianza di trattamento tra gli uomini. La formulazione dell’etica della retribuzione contribuisce al carattere esclusivista della religione di redenzione e la tendenza a subordinare ai propri principi etici ogni aspetto della vita. Le esigenze razionalistiche conducono la religione di redenzione ad un processo endogeno di razionalizzazione che si qualifica, prima di tutto, come emancipazione della magia. Per Weber il substrato storico delle religioni universali, e quindi di quelle di redenzione, è la forma di azione magico-animistica. Essa è motivata dall’esigenza mondana del controllo razionale, finalizzato allo scopo pratico dell’”affinché tutto ti vada bene e tu viva bene nel mondo”, di eventi che appaiono all’uomo straordinari e irriducibili all'economia quotidiana.

L’azione religiosa condivide con la magia il fine del dominio di fenomeni di valore vitale, soggetti a comportamenti oscillanti ed imprevedibili. Ciò che cambia è l’atteggiamento di fronte alla straordinarietà degli eventi. Nell’animismo lo spirito non è “né un’anima, né un demone, né un dio, ma qualcosa di indeterminato: materiale e tuttavia invisibile, inpersonale e tuttavia dotato di una specie di volere che conferisce all’essere in cui vive la sua specifica efficacia, in grado di entrare in lui e di uscirne nuovamente, e tale una volta uscitone di perdersi nel nulla o di passare in un altro uomo o in un altro oggetto”. Lo spirito è quindi una forza naturale che può venire costretta al servizio dell’uomo. Chi possiede le conoscenze dei mezzi adatti per controllare lo spirito è più forte di lui e può sottometterlo alla propria volontà. L’agire magico è una forma di costrizione e l’invocazione al manifestarsi dello spirito passa attraverso formule rituali. Le religioni universali sorgono in seguito ad un processo di astrazione attraverso cui la credenza negli spiriti si trasforma nella concezione di potenze sovrannaturali identificate in una persona unica (divinità o demone) e organizzate entro un pantheon. Esso prevede l’attribuzione alle diverse divinità di funzioni e competenze specifiche e, al culmine del processo di astrazione, la presenza di un dio universale, unico e polifunzionale. Prevalendo la concezione della potenza soprannaturale di un dio di carattere personale del suo potere viene meno anche la funzione delle pratiche magiche: la trascendenza di Dio ne rende impossibile il controllo con gli strumenti terreni dell’agire magico. Dio è un’individualità autonoma che dispensa i favori in base alla propria volontà, e la comunicazione con essa passa ora attraverso l’ingraziazione (il dono e la preghiera). La sistematizzazione del concetto di Dio, dei rapporti tra esso e gli uomini e delle modalità di influenzamento decide sul senso del comportamento religioso: esso non si costruisce più sul solo “razionalismo calcolatore di natura pratica”. La ricerca dei vantaggi economici per la vita quotidiana rimane, ma indietreggia rispetto ai fini ultramondani. Il significato dell’azione religiosa va cercato ora nella direzione trascendente, eminentemente extraeconomica. Dalla razionalizzazione della relazione Dio-uomo deriva una fondamentale aporia per le religioni universali che portano avanti un messaggio di redenzione: quanto più la concezione di Dio si fa astratta (unitarietà, universalità e ultramondaneità), tanto più diventa pressante il problema della conciliazione per la straordinaria potenza di Dio, che è anche creatore e reggitore del mondo, e l’imperfezione delle azioni degli uomini, dalle quali dipende il destino di salvezza o dannazione e delle quali Dio è direttamente responsabile.

Il problema della teodicea è stato risolto in modi diversi (Weber ne delinea tre: le escatologie messianiche, il dualismo e la teoria della trasmigrazione delle anime) e tali soluzioni dipendono dal tipo di concezioni di Dio e dal carattere dell’idea di redenzione.

Delle forme razionali di teodicea la religiosità occidentale ha optato per l’escatologia messianica.

Essenzialmente essa si basa sull’idea che la retribuzione è assicurata con il rinvio ad un pareggio ultramondano, spostato nei tempi della venuta del salvatore. Egli viene e pone i suoi fedeli nelle condizioni che meritano, all’interno di un giudizio universale con valore eterno.

L’idea di giudizio solleva però un problema: trovare un meccanismo che giustifichi contemporaneamente l’esistenza del peccato e che rende proporzionale il giudizio eterno ai meriti e alle colpe che evolvono nel corso della vita di un uomo.

La soluzione che l’escatologia messianica propone e che ha grande rilevanza nel destino dell’Occidente consiste “nel collocare Dio al di là delle istanze etiche delle sue creature, nel considerare i suoi decreti inafferrabili da ogni mente umana, nel ritenere l’assoluta onnipotenza che Egli possiede sulle sue creature illimitate, e quindi l’applicazione dell’unità di misura della giustizia umana alle Sue azioni impossibile”.

L’abisso etico tra Dio e mondo creaturale divarica illimitatamente senso divino e senso umano del mondo. Il pensiero di Dio sul destino del creato è irraggiungibile alle considerazioni etiche degli uomini. La teodicea allora assume la duplice forma di una teoria della provvidenza del destino terreno (Dio è il padrone assoluto delle vicende storiche delle sue creature) e di una teoria della predestinazione del destino ultraterreno (lo stato di salvezza è fissato ab aeterno, cosicchè le opere non valgono come mezzo della eventualità della grazia).

Weber aggancia la possibilità di tale formulazione della teodicea alle scelte storiche che la religione di redenzione occidentale ha fatto nei confronti delle alternative di rifiuto del mondo.

L’esclusivismo della religione di redenzione la pone in uno stato di concorrenza con i sistemi di valori e di norme che regolano l’azione di diversi sistemi sociali (politica, economia, produzione della cultura…).

La sua tensione con essi non è temporanea, ma duratura e crescente in modo proporzionale alla sistematizzazione razionale che essa porta avanti.

Weber definisce due atteggiamenti tipico-ideali di reazione alla irrazionalità delle istituzioni sociali: il misticismo e l’ascetismo. Il misticismo è un atteggiamento contemplativo-passivo che rifiuta il mondo fuggendo dai suoi ordinamenti. La contemplazione mistica è svuotamento totale di ciò che ricorda l’irrazionalità del mondo, per cercare l’unione con il divino (unione che è possesso  del divino).

In quanto tale il misticismo riduce al minimo ogni forma di azione nelle istituzioni sociali, sia nella versione del misticismo intramondano in cui “l’essere nel mondo” è accettato esteriormente allo scopo di confermare lo stato di grazia resistendo alle tentazioni dello spirito e della carne che il mondo offre, sia nella versione radicale del misticismo extrmondano, il quale rifiuta in toto le relazioni col mondo in quanto privo di qualsiasi valore religioso.

La reazione all’irrazionalità etica del mondo si configura invece nell’ascetismo come un agire etico-attivo, che è concepito come diretto da Dio e attraverso il quale l’individuo si sente strumento di Dio.

L’ascetismo si pone in uno stato del sistema sociale e degli insiemi di regole che governano il comportamento all’interno dei sottosistemi.

Quando l’ascesi dell’agire si compie all’interno del mondo (ascesi intramondana), essa comporta lo sforzo di trasformare le regole che ordinano i sottosistemi, adattandoli ai principi dell’etica religiosa. Quando invece la critica ascetica avviene dall’esterno (ascetismo extramondano), essa prevede un agire in prestazioni attive di redenzione prescritte da Dio differenti da quelle richieste dagli ordinamenti sociali.

Quando in una religione di redenzione prevalgono gli elementi ascetici, la tendenza razionalistica si fa ancora più forte. La storia della cristianità è tutta condotta, per Weber, entro il rifiuto ascetico del mondo, prima nella forma extramondana del monacheismo medioevale, poi in quello intramondano del puritanesimo protestante.

Con tale termine Weber indica le interpretazioni che della riforma luterana hanno dato il calvinismo e le sette che da esso derivano (pietismo, metodismo e movimento battista) ed è soprattutto all’interno delle opzioni teologiche di queste ultime che Weber intravede le radici culturali della modernità così come egli la intende. L’atteggiamento attivo dell’ascetismo, che di per sé è antifatalistico, incontrandosi con la soluzione che l’escatologia messianica dà del problema della teodicea, genera una tecnica di dominazione dell’impotenza umana nei confronti dei disegni divini, che altre religioni conoscono, ma che solo in Occidente ha avuto conseguenze fondamentali nella evoluzione della civiltà: la metodica della salvezza.

Essa è un insieme coerente e duraturo di atteggiamenti consapevoli verso Dio. Il tipo di atteggiamenti prescritti dipende, in misura rilevante, dalla concezione del divino e dal suo rapporto con le creature.

Quando Dio, come nel caso della religiosità escatologica, è concepito come un ente trascendente assolutamente perfetto, il fine della metodica della salvezza non consiste nella incarnazione del divino nell’uomo (autodivinizzazione), ma nel possesso delle qualità religiose che Dio richiede.

La metodica della salvezza, come si presenta nel Cristianesimo ascetico, ha quindi un orientamento ultraterreno ed etico, strutturato con una sistematizzazione e razionalizzazione di quegli atteggiamenti quotidiani che, in quanto graditi a Dio, garantiscono la salvezza al momento del giudizio eterno di Dio. “La certezza della grazia significa il consapevole possesso di un fondamento durevole ed unitario della condotta della vita…La metodica della salvezza [è quindi] una combinazione di precetti igienici, fisici e psichici con una regolamentazione ugualmente controllata delle specie e del contenuto di ogni pensare e di ogni agire, nel senso del dominio completamente desto, deliberato e metodico dei propri processi corporei e spirituali e di una sistematica regolamentazione della vita in vista dello scopo religioso”.

Weber definisce la religione di redenzione che usa le pratiche metodiche “etica dei virtuosi”: l’osservanza rigorosa e continua della metodica qualifica l’appartenenza ad una elite di individui religiosamente straordinari i quali richiedono a sé stessi la costante conferma della propria virtù.

Sia il monaco medioevale che il puritano protestante sono dei metodisti etici. Ma la ricerca della certezza della grazia, e questo è il punto decisivo, assume aspetti diversi a seconda del modo di raggiungere tale fine.

Nell’ascetismo intramondano è un razionalista sia in quanto tende a sistematizzare la propria esistenza entro una condotta continuamente controllata, sia in quanto sente come propria “vocazione” l’espulsione di un elemento eticamente irrazionale dalle istituzioni sociali. L’ascetismo intramondano è una forza che conduce al radicalismo razionalistico dentro e contro l’ordinamento sociale.

A che tipo di irrazionalità è improntata l’azione dell’ascesi intramondana?

La risposta di Weber è: al razionalismo formale, il quale deriva come conseguenza dalle enunciazioni teologiche del puritanesimo protestante.

Dio è l’ente assoluto e trascendente per eccellenza. Egli ha creato il mondo a propria gloria e lo governa secondo un disegno che l’intelligenza umana non può cogliere.

Dio onnipotente e misterioso (Deus abseconditus) ha predestinato dall’eternità ogni uomo alla salvezza o alla dannazione e tale decisione è unica ed irrevocabile. La salvezza è un dono totalmente gratuito di Dio.

Tale posizione si è visto essere la specifica soluzione che il puritanesimo pone al problema della teodicea. Le conseguenze sull’azione pratica sono immediate e sciolgono un’aporia del comportamento razionale interno all’etica della redenzione. Non esiste infatti nessuna ragione logica interna all’etica della redenzione, che riesca ad argomentare in base a cosa, nel singolo caso individuale, va determinato il valore etico dell’azione: in base ai suoi risultati o ad un valore intrinseco all’azione stessa?

Il dilemma è tra etica della responsabilità ed etica dell’intenzione.

La responsabilità di chi agisce giustifica i mezzi in vista dei risultati, oppure viceversa il valore dell’intenzione che sta dietro all’azione giustifica chi agisce, rifiutando di assumersi la responsabilità di risultati che vanno attribuiti a Dio e alla corruzione creaturale?

Per il puritanesimo protestante l’uomo, qualunque sia la direzione del suo destino ultraterreno, ha il dovere di lavorare per la gloria di Dio e di creare il regno di Dio su questa terra.

Ma ciò significa sublimazione dell’etica della redenzione in un’etica dell’intenzione individualistica. Il puritano fa ciò che è giusto secondo i precetti divini e rimette il risultato a Dio.

Il razionalisimo dell’ascesi puritana non può controllare i disegni divini: esso ripudia qualsiasi forma di ingraziazione magico-sacramentale, insomma è razionalità formale.

Weber trova così il presupposto storico del disincantamento del mondo nella forza dell’ascetismo intramondano. “Quel gran processo storico-religioso della eliminazione dell’elemento magico dal mondo che iniziò con le antiche profezie ebraiche e il quale con il pensiero greco rigettò tutti i mezzi magici considerandoli come superstizione delittuosa, trovò qui la sua conclusione. Il puritano genuino ripudiò perfino ogni traccia di cerimonia religiosa sulla tomba e seppellì i suoi cari senza canti né suoni per non far sorgere superstizioni di alcun genere né fiducia in influenza salutifere magiche”.

Il disincantamento del mondo diventa però pienamente operativo nel momento in cui lo sforzo consapevole di trasformazione del mondo, al fine di adeguarlo ai precetti divini, ciò l’agire del mondo “come servizio al volere di Dio e come prova del proprio stato di grazia” smarrisce il suo senso religioso: la ricerca del successo economico come conferma della salvezza nell’aldilà diventa ricerca del profitto come scopo in sé, l’impiego della violenza come mezzo per piegare la politica alla volontà divina diviene ragion di stato e l’intelletto lo strumento della sistematizzazione metodica del pensiero e dell’azione si eleva a fine ultimo del sapere.

Il processo di razionalizzazione, avviato dalla religione di redenzione ascetica, si sottrae al suo controllo e si esternalizza, promuovendo ulteriormente la consapevolezza della interna legalità autonoma dei diversi sistemi del mondo. Allora il disincantamento è completo: è vero che il passaggio dall’azione magica a quella religiosa è già disincantamento. Essa però mantiene il senso della sacralità del mondo nella presenza divina e nel suo inintelligibile progetto di senso del mondo. Ma nell’epoca moderna – e questo è il punto decisivo – cade anche tale residuo incantamento e il processo di razionalizzazione formale si estende a tutte le sfere dell’esistenza umana.

La modernità appare agli occhi di Weber come un’infinità priva di senso univoco, dove la significazione di un frammento dello spazio culturale è data da un valore particolare in concorrenza con tanti altri.

Per reazione, quanto più cresce la razionalizzazione nella sua organizzazione disincantata ed autonoma, tanto più la religione etica perde i suoi connotati intramondani e si fa extramondana.

L’azione religiosa è condannata a scivolare nell’irrazionalità: la ricerca della salvezza di cui la religione si pretende l’unico autentico depositario, porta all’esasperazione della presunzione della irrazionalità del mondo (acosmismo universale) fino al punto di rigettare l’agire mondano razionale. La sua “colonizzazione” da parte delle sfere disincantate ne fa un sistema ormai completamente estraneo a Dio.

Il razionalismo formale disincantato annulla gli spazi concessi alla religione: se nel mondo moderno non c’è più posto per le promesse di salvezza esso deve essere comunque consapevole della pesante eredità che dalla religione ha accettato.

“Il puritano volle essere un professionista, noi dobbiamo esserlo. Poiché in quanto l’ascesi fu portata dalle celle dei monaci nella vita professionale e cominciò a dominare la moralità laica, essa cooperò per la sua parte alla costruzione di quel potente ordinamento economico moderno, legato ai presupposti tecnici ed economici della produzione meccanica che oggi determina con strapotente costrizione, e forse continuerà a determinare finchè non sia stato consumato l’ultimo quintale di carbon fossile, lo stile di vita di ogni individuo che nasce in questo ingranaggio e non soltanto di chi prende parte alla attività puramente economica.

Solo come un mantello sottile che ognuno potrebbe buttare via, secondo la concezione di Baster, la preoccupazione per i beni esteriori doveva avvolgere le spalle degli “eletti”. Ma il destino fece del mantello una gabbia d’acciaio. Mentre l’ascesi imprendeva a trasformare il mondo ed ad operare nel mondo, i beni esteriori di questo mondo acquistarono una forza sempre più grande nella storia.

Oggi lo spirito dell’ascesi è sparito, chissà se per sempre da questa gabbia”.

Non è compito della scienza, tuttavia avanzare ipotesi sulle possibilità di rinascita del senso del sacro: il disincantamento del mondo è un fatto e non una necessità e nulla esclude che il futuro non serbi movimenti di rinascita del senso religioso, adatto ai bisogni di una società secolarizzata.    

 

Fede e verità

Max Weber non volle mai fare causa comune coi combattenti per la fede; diceva che con loro non si può discorrere. Il loro fanatismo si aggrappa a contenuti fissi.

Lui propugnava la illimitata ragionevolezza che col suo moto infinito giunge al limite dove bisogna veramente decidere combattendo. Sotto questo aspetto i combattenti per la fede si pascono di delusioni; si presentano con modi di pensare che si vantano di conoscere il tutto. Il concetto di totalità, relativamente giustificato come tutte le categorie, appartiene, in quanto è predominante, sia all’idolo del pensiero reazionario, sia all’utopia del pensiero rivoluzionario. Nell’intuizione immanente del quadro assoluto dell’essere, nella fiduciosa consapevolezza dell’armonia, nella certezza che infine le cose procedono da sé per la via giusta secondo la necessità e il volere degli uomini nella indiscussa sicurezza del proprio diritto, la fede fanatica ha perduto tanto l’originario riferimento alla trascendenza, quanto la facoltà di comunicare con gli altri.

E se si ergeva contro queste ondate di illusioni, di storture, di suggestioni, contro gli assolutismi intellettuali, Weber si oppose con non minore risolutezza all’incredulità del nichilismo. Certo avrebbe potuto disperare e nel suo isolamento diventare un misantropo. Lo sorresse invece la sua fede, quella fede schietta, ignara, che dalla più profonda origine sapeva essere sempre affermativa e cercava di trovare ciò che nella rovina generale era ancor degno d’amore, persino nel riconoscimento di ciò che gli era estraneo. Non aveva mai voluto rinunciare alla vita, né la vita come tale fu mai per lui la cosa ultima. Egli nutriva una profonda stima e venerazione per la morte in guerra, perché con essa l’uomo può conferire un significato a ciò che tutti noi dobbiamo subire soltanto passivamente.

Quanto peggio andavano le cose, tanto più la sua fede aumentava. Mentre, quando apparentemente andavano bene, era l’inesorabile pessimista in cerca della salvezza, una volta subentrata la sciagura diventava calmo: allora rimane qualche cosa che è, che è possibilità, che ridiventa. Volgarmente si direbbe ottimismo ciò che in verità è una credente e indistruttibile affermazione nell’incessante battaglie per l’essere essenziale. Nel 1919, quando nel suo discorso di congedo da Heidelberg non potè proprio trovar nulla che infondesse coraggio quale visibile sostanza della natura tedesca, il cui volto anzi era del tutto sfigurato, parlò dei boschi tedeschi che rimangono e sono ciò che erano sempre, né lontane grandezze monumentali, né sentimentali idilli, bensì ciò che il tedesco può essere: essere se stesso nelle diverse forme particolari, essere il silenzio della riflessione, l’eco di tutto ciò che aveva fatto nei giorni belli e nei brutti: ringraziò Dio di essere tedesco.

Nonostante tutte le riflessioni Max Weber era un ingenuo. Sorpassando la misura di ciò che era normalmente possibile, continuò fino all’ultimo a interrogare, indagare, pensare. Ma le scoperte e i pensieri finivano coll’essere un mezzo nelle mani di colui che li possedeva e ne era posseduto -  ed era più di tutto ciò. Egli rimase nel progresso dell’esperienza, della ricerca e della distinzione: ogni distinzione però si annullava in una non più consapevole unità del suo vero e proprio essere se stesso. Nulla di definitivamente esprimibile rimaneva come contenuto della fede, che persino come sostanza era incrollabilmente presente in ogni esperienza e in ogni pensiero.

Se nonostante tutto vogliamo definire questa fede dobbiamo ricorrere alle parole che morendo egli pronunciò come un mistero: <<Il vero è la verità>>. Per noi non è una tautologia, ma quasi una formula magica, l’espressione di un’esistenza, la cui verità considera anche i modi del sapere, come il sapere empirico, soltanto quale funzione in un processo responsabile, la cui origine e la cui meta restano ignote, ma vengono affermate.

La ricerca della verità appare per Max Weber anzitutto nella lotta. Nell’atmosfera di Treitschke e di Bismark egli apprese da giovane << che il lavoro serio, coscienzioso, incurante del risultato, interessante soltanto alla verità, è in ribasso>>. In seguito la sua battaglia per il vero è diretta contro coloro che nel sapere come tale pretendono un contenuto e un carattere, ma proprio così confondono, contrariamente al vero, valutazione e scienza, decisione e intuizione; inoltre contro coloro che pretendono l’assolutezza del sapere e con ciò diventano non veri, perché ogni sapere è valido soltanto su una posizione e sotto certi aspetti; la lotta è diretta contro i razionalisti perché non osservano con occhio critico le mete del sapere, e contro gli irrazionalisti perché misconoscono il significato del sapere e il suo insostituibile modo di impadronirsi della verità; egli combatte contro la insincerità filosofica che armonizzando copre gli abissi negli schematismi concettuali; le sue collere violente investivano quello stile <<da Gartenlaube>>, come egli lo chiamava. In cambio Weber è preso di mira per il suo relativismo, per la sua fredda oggettività, per la presunta impossibilità della libera valutazione, per la insoddisfazione che la scienza lascia quando non valuta. Ma dietro ai postulati weberiani sta la passione della verità che, mediante la chiarezza di ogni modo di sapere, vuol arrivare risolutamente al punto in cui non si conosce attraverso lo studio, bensì attraverso l’azione e la produzione nel mondo. Questa libertà di valutazione è altrettanto in rapporto con la purezza dello studio quanto con l’originalità dell’azione. Il senso weberiano della verità era lontano e dal soddisfatto mondo attuale e dalla ottimistica fede investigatrice del liberalismo, mentre come condizioni di tutti i valori del mondo la personale responsabilità del libero individuo era per lui intangibile e ogni forma di costrizione delle coscienze era respinta.

Singolare è nelle indagini di Max Weber l’azione di un’assoluta volontà del vero. Egli non presenta se stesso nella storia, né la storia è lontana da lui come qualcosa di diverso. Egli vi entra con gli occhi del suo proprio presente, avvezzi alla realtà, ma vede in questo presente l’altro mondo, come se egli fosse contemporaneamente qui e là. Da ciò deriva l’oggettività delle sue analisi storiche e il fatto toccante che ci riguardano direttamente. Di qui la sconvolgente ambiguità di tutte le possibilità di valutazione. Si è pensato che nei suoi studi sul calvinismo ci sia una segreta esaltazione all’ascesi da lui stesso approvata; altri hanno pensato che in essi l’orrore di Max Weber dinanzi alla meccanizzazione moderna conduca a smascherare la natura fino alle origini: l’una cosa e l’altra possono essere apparentemente motivate, entrambe sono erronee. Chi per errore crede che Weber tanto nel calvinismo quanto nei profeti ebrei, nei grandi demagoghi, ecc. rappresenti se stesso affermando e ammirando questi fenomeni, vedrà presto e dappertutto la luce ambigua nella quale essi si presentano. Quanto più Weber va in fondo in un’indagine, tanto più viva si fa questa luce ambigua, di modo che a un esame accurato non si capisce se nel valutare egli dia un giudizio affermativo o negativo. Si direbbe che la natura stessa delle azioni umane sia discussa attraverso la illimitata giustizia e libertà, di vedute di questo studioso che non pesa, non dà un po’ ragione e un po’ torto, ma senza valutazioni universali svela ciò che è accaduto, nella sua visibile origine, nelle sue possibilità e nelle reali conseguenze come fatalità storica. In questi studi è contenuta la comunicazione indiretta della recondita valutazione razionale si manifesterebbe sempre in forma non vera.

 

Il Beruf e la razionalizzazione del lavoro

 

Il concetto di Beruf

Iniziamo introducendo il concetto di Beruf attraverso le parole di Weber:

 

Non si può disconoscere che già nella parola tedesca Beruf, come, e forse in modo ancor più chiar, in quella inglese calling, per lo meno riecheggia un concetto religioso – quello di un compito imposto da Dio – e che esso diventa tanto più percepibile, quanto più, nel caso concreto, noi accentuiamo con energia tale parola. E se noi seguiamo storicamente la parola anche attraverso gli idiomi dei popoli civili, ci appare dapprima che i popoli cattolici non conoscono un’espressione di sfumatura simile, per ciò noi chiamiamo Beruf (nel senso di posizione nella vita, di limitato campo di lavoro), come non la conosce l’antichità classica, mentre essa esiste presso i popoli prevalentemente protestanti.

 

Secondo Weber è stato Lutero a formulare per primo il concetto moderno di Beruf; questo perché di vocazione, monus, officium se ne era già parlato, ma mai nei termini luterani di centralità etica all’interno dell’esistenza terrena dell’individuo. Il Beruf diventa perciò la realizzazione lavorativa di qualcosa di più alto di un qualsiasi compito mondano, un’investitura e allo stesso tempo un dovere da compiere, che trasforma l’esperienza professionale in una risposta al volere di dio.

Il lavoro – al di là  dei contenuti specifici – assume significato morale elevato, nuovo e diverso, diventando il tramite tra mondo umano e realtà divina. Dedicandosi con impegno, serietà e partecipazione ad una attività professionale, l’individuo verifica le proprie risorse interiori, afferma la propria dignità di persona ed esprime l’unica maniera di vivere gradita a dio. L’ascetismo monastico come modello di vita esemplare viene sostituito dallo scrupoloso adempimento dei doveri imposti all’uomo dalla sua posizione nel mondo. Scrive a questo proposito Weber:

 

Trova dunque espressione nel concetto di Beruf quel dogma centrale di tutte le denominazioni protestanti che rigetta la distinzione cattolica dei comandamenti etici del Cristianesimo in praecepta e consilia, e che riconosce come solo mezzo per vivere in maniera grata a Dio, non il superamento tramite l’ascesi monacale della morale di chi vive nel mondo, ma esclusivamente l’adempimento dei propri doveri mondani, quali essi risultano dalla posizione di ciascuno nella vita, funzione che con ciò appunto diventa la sua “vocazione”.

 

Lo sviluppo di questa idea fino alla concezione del lavoro come Beruf, nel senso di “vocazione”, è consono alla logica del capitalismo, perché rende massima la probabilità di superare la routine tradizionalistica, assicurando in tal modo il dinamismo necessario per l’innovazione. Tramite questa nuova concezione della missione mondana dell’uomo, è stato possibile infrangere il rapporto causale tra il comportamento condizionato dal luogo di nascita e dalla famiglia e la scelta professionale. Il Beruf ha rappresentato lo svincolo da un certo tipo di assoggettamento alla tradizione e ha contribuito alla formazione di personalità decisamente moderne e innovatrici. La mente, il cuore, le aspirazioni seguivano libere la propria “chiamata”, come realizzazione terrena di un destino ultraterreno, e tutte le pulsioni emozionali, tutti i gesti concreti acquistavano incisività e sicurezza, sentendo di riprodurre fedelmente ciò che era già stato deciso nel quadro universale.

Questi nuovi individui, consci del proprio ruolo, e fieri di esserlo, si scrollarono di dosso ogni consuetudine sociale per forgiarsi una personalità perfettamente conforme alla vocazione interiore, unica nel suo genere. Imprenditori, capitalisti, uomini cosiddetti <<economici>> o semplicemente personalità proiettate in un’era nuova, vivevano il proprio Beruf come apporto decisivo alla loro crescita morale e psicologica, come l’esaltazione di una natura insita e ad essi congeniale, come un mondo dove l’affermazione dell’eccezione oscura la regola.

Moscovici coglie in maniera esemplare la trasformazione della tradizionale figura dell’operatore economico effettuato da Weber quando – contrapponendola a quella delineata dagli economisti, appiattita dall’egoismo e dallo sfruttamento, priva di qualità morali e di facoltà psichiche – scrive <<Venivano dipinti come avventurieri, affaristi gaudenti e capitani di industria senza fede né legge che, con l’astuzia o con la forza, si appropriavano delle ricchezze di tutti. Weber li reincarna, mediante la religione, in uomini pii che obbediscono ad una vocazione superiore. Ne fa dei santi o, addirittura, dei superuomini>>.

 

Beruf e politica

La vocazione, inoltre, è collocata al centro delle relazioni comunitarie, come prezioso strumento di utilità sociale tanto che si può definire la stessa politica un Beruf, un sentire interiore. Proprio per questo Max Weber distingue tra chi vive <<per>> la politica e chi vive <<di>> politica:

 

chi vive “per” la politica fa di questa, in senso interiore, la propria vita: egli gode del mero possesso della potenza che esercita, oppure alimenta il proprio equilibrio interiore e il sentimento della propria dignità con la coscienza di dare un senso alla propria vita per il fatto di servire una “causa”. In questo senso interiore si può ben dire che ogni uomo serio, il quale vive per una causa, vive anche di questa causa. (…) “Di” politica come professione vive chi tende a farne una duratura fonte di guadagno; “per” la politica, invece, colui per il quale ciò non avviene.

 

I politici di professione, quelli senza il Beruf della politica, su cui fondare, come si vedrà, il loro carisma, sono coloro che non hanno le qualità intrinseche del capo, coloro che non hanno l’impulso interiore si costruiscono un apparato di potere senza comprenderne la reale capacità d’azione. Redarguendoli Weber afferma:

 

Chi voglia occuparsi di politica in generale, ma specialmente il politico di professione, deve essere consapevole di quei paradossi etici e della propria responsabilità di fronte a ciò che egli può divenire per effetto di quelli. Egli entra in relazione, ripeto, con le potenze diaboliche che stanno in agguato dietro ogni violenza. I grandi modelli di carità e di bontà, siano essi nati a Nazareth o ad Assisi o nei palazzi reali indiani, non si sono serviti del mezzo politico della violenza, il loro regno “ non era di questo mondo”, eppure essi hanno operato ed operano in questo mondo (…). Il fwnio o il demone della politica e il dio dell’amore – anche il Dio cristiano nella sua forma ecclesiastica – vivono in un intimo reciproco contrasto che può ad ogni momento erompere in un conflitto insanabile.

 

La politica è un’arte, una professione che richiede tenacia, pazienza e grande realismo. Ha veramente la vocazione per essa solo colui che certo di non crollare anche quando il mondo gli apparisse troppo basso o stupido per ciò che egli ha da offrire, solo colui che, forte di una fede profonda davanti ad ogni delusione può dire: <<Non importa, continuiamo!>>. 

 

Beruf e la professione

Il concetto di vocazione resta, secondo Weber, centrale anche nel mondo desacralizzato e secolarizzato; esso si pone alla base di ogni attività degna di una personalità compiuta, anzi ne costituisce la prova più significativa. La vocazione deve essere dell’imprenditore come del soldato, dell’artista come dello scienziato. In ogni campo la personalità si forma e si struttura nella sua dedizione e nel suo impegno totale per una causa. La centralità del concetto di Beruf viene confermata nella famosa conferenza La scienza come professione, dove la più sostantiva forma di legittimazione che egli riconosce alla scienza risiede nel suo essere una vocazione. Essa è un compito che trova i suoi fondamenti nella correttezza e nella dedizione con le quali viene svolto, non certo nella sua (più o meno reale) utilità o nella presunta capacità di dare un senso al mondo che le attribuiscono i <<grandi fanciulli quali è dato incontrare proprio nel campo delle scienze naturali>>. Secondo Weber perciò, il fuoco interiore dell’uomo nuovo, dell’uomo della Riforma – anche se laicizzato e privato dell’afflato di una religiosità pervasiva e invasiva – è l’unica luce che può illuminare l’agire in un mondo che appare condannato alla pietrificazione.

 

La leadership carismatica: religione e politica

 

Il potere carismatico

Accanto all’idea di carisma inteso in senso generale, Weber, utilizza la nozione anche per definire uno specifico tipo di leader e un particolare potere: delinea cioè una relazione sociologica fondata sulle qualità eccezionali di un individuo come base di legittimazione del suo dominio sugli altri. In questo contesto il carisma è definito: <<una qualità considerata straordinaria che viene attribuita ad una persona. Pertanto questa viene considerata come dotate di forze e proprietà soprannaturali o sovrumane non accessibili agli altri, oppure come inviata da Dio o come rivestita di un valore esemplare e di conseguenza come “duce”. Più avanti si legge <<Il carisma pure costituisce una vocazione nel senso enfatico del termine, cioè una “missione” o un “compito” interiore>>.

Anche per la comprensione della teoriadel capo carismatico e del suo potere è fondamentale tener conto delle radici religiose del concetto. In questo caso esse riguardano si i legami con l’elaborazione dell’idea operata dalla dottrina cristiana, principalmente con le Lettere degli Apostoli – il carisma è un dono ricevuto in funzione di una missione da svolgere, cioè di un servizio da compiere a favore della comunità – sia le suggestioni che Weber ricava dall’esame della Bibbia . Trasferita nel campo sociale la nozione mantiene il suo significato preciso: indica una <<grazia>>, sia in senso teologico di elezione divina, sia in senso sociopsicologico di certezza interiore, che può spingersi fino al fanatismo, e di capacità di attrazione fatale verso gli altri.

Weber trae fondamentalmente dalla figura dei profeti di sventura, il modello religioso di capo carismatico, lo schema del suo agire e la trama dei processi che mette in atto, compreso il rovesciamento della situazione politica e sociale esistente, quando questa viene considerata negativamente. Questo modello costituisce lo schema di riferimento primario per le sue riflessioni e sistematizzazioni idealtipiche operate in Economia e società; infatti tutta la tradizione carismatica costituita dai profeti, dagli eroi guerrieri e dai re del popolo di Israele offre materiale empirico di base e costituisce una sorte di archetipo utilizzato in altri campi, come per la sociologia del diritto – dove esamina il ruolo degli oracoli carismatici e dei profeti del diritto – e soprattutto per la sociologia politica.

 

Il carisma come dono

Weber si interroga sulla natura del dono, o meglio sui segni di riconoscimento della “chiamata” e li collega al fatto che ciò che il capo è, fa o dice è in qualche modo legato al divino. Dal momento che però egli considera la dimensione divina o sacra solo per mezzo degli attributi di eccezionalità e di extraquotidianità, nella definizione teorica di Economia e società, lascia indefinita la delineazione di questi segni. Può trattarsi del fascino della persona e della condotta della sua esistenza, dell’<<incantamento emotivo degli eroi>>, del <<carisma della parola>> delle rivelazioni che annuncia o di altre imprecisate qualità di guida. Sempre però egli è portatore <<di uno specifico dono del corpo e dello spirito concepito come soprannaturale, dal momento che <<ogni avvenimento che esce dai binari della vita quotidiana fa sorgere poteri carismatici e ogni capacità inusitata fa sorgere una fede carismatica>>.

Alla sobrietà della delineazione idealtipiche elaborate in Economia e società fa però riscontro un’esuberanza descrittiva nella ricerca Il Giudaismo antico. La presenza di Jahvè presso il profeta – cioè il segno del carisma ricevuto – è ricercata in tutte quelle manifestazioni anormali che si presentano con l’estasi o l’annunciano. Scrive Weber:

 

Stati patologici e azioni e azioni patologiche dei generi più diversi accompagnano la loro estasi la precedono. Non vi è dubbio che proprio questi stati costituissero in origine le principali credenziali del carisma profetico e che essi si trovino quindi, seppure in forma più blanda, anche quando nulla ci è stato tramandato in proposito. Tuttavia una parte dei profeti ne parla esplicitamente. La mano di Jahvè “grava pesantemente” su di loro. Il suo spirito “s’impadronisce” di loro. Ezechiele batte le mani, si percuote i fianchi, calpesta il suolo. Geremia diventa come un ubriaco e trema in tutte le membra. Il viso dei profeti si contorce quando lo spirito scende su di loro, il fiato gli manca, cadono talvolta storditi al suolo, momentaneamente privi della vista e della parola, torcendosi tra le convulsioni. Sette giorni dura una paralisi che ha colpito Ezechiele dopo una delle visioni.

 

Il secondo fondamentale elemento consiste nel fatto che la chiamata è avvertita per mettersi al servizio di una causa comune a vantaggio degli altri. Infatti la missione divina del signore carismatico <<deve essere provata in base al fatto che giova a coloro che si danno a lui con fede. Altrimenti è chiaro che egli non è il signore inviato dagli dei>>. La consapevolezza di dover compiere una missione, la passione divorante per una causa collettiva fondano la forza del leader e il suo diritto/dovere di esercitare il potere sugli altri. Le sue richieste di obbedienza che non vanno a lui come persona, ma come strumento di un progetto: <<il portatore del carisma assume i compiti che gli convengono, esigendo di essere obbedito e seguito in virtù della sua missione>>.

 

Il carisma come riconoscimento

A questo stadio iniziale il carisma però non svolge a pieno la sua azione, dal momento che la situazione carismatica non si è ancora del tutto creata: infatti occorre operare il passaggio dal possesso di qualità eccezionali al loro riconoscimento e quindi al potere sui propri seguaci. Riconoscimento e devozione del seguito fondano la capacità del capo di incidere sulla storia.

<<Sulla validità del carisma decide il riconoscimento spontaneo dei dominati>>; esso infatti non necessita di imposizione, ma si manifesta come adesione libera e personale <<determinata dall’entusiasmo, dalla necessità e dalla speranza>>. Il libero riconoscimento e l’obbedienza, come moto spontaneo dell’animo, sono le condizioni necessarie per rendere operanti i carismi. Dal momento che come suggerisce Luciano Cavalli <<il leader voluto da Dio è il prototipo del capo carismatico weberiano>>, egli evidenzia l’accettazione e la sottomissione nei riguardi di colui che ha ricevuto il dono del carisma come un <<dovere per coloro che sono stati chiamati, in virtù dell’appello e della prova a riconoscere questa qualità>>. Solo in secondo momento, ricorda Weber, il capo deve offrire conferme del suo carisma sotto forma di miracoli e poi di successo della sua missione.

La situazione carismatica è appieno realizzata quando intorno a un leader, che si ritiene investito di una missione da compiere, si coagulano dei seguaci che si affidano totalmente a lui – e che da lui dipendono emotivamente – in base <<alla dedizione piena di fiducia a ciò che è straordinario e inaudito, estraneo ad ogni regola e ad ogni tradizione, e perciò rispettato come divino>>.

Weber non ritiene necessario approfondire la questione se sia importante l’attaccamento alla persona o al contenuto della dottrina, dell’annuncio; in alcune vicende storiche ha contato di più <<l’attaccamento alla persona – come avvenne per Zaratustra, Gesù, Maometto>> in altre invece <<la dottrina come tale, come avvenne per Budda e per i profeti di Israele>>.

La differenza non altera significativamente la relazione che si instaura tra il leader e al sua comunità, una relazione affettiva e nello stesso tempo asimmetrica di potere, che permette al capo di esercitare un’influenza profonda sulle personalità di quanti lo circondano. Il capo carismatico rappresenta un essere straordinario per il suo seguito; nel divenire senza senso della storia il grande uomo è colui che riesce a formulare un ordine, offrendo in tal modo a chi si pone al suo servizio una vita caratterizzata dalla pienezza di senso.

 

La situazione carismatica

Tre principali stati d’animo collettivi vengono ricordati da Weber come costitutivi dell’organizzazione di un seguito e quindi della costituzione di un campo sociale carismatico: a) l’eccitazione, sorta dalla percezione di qualcosa di straordinario, b) la speranza, c) l’entusiasmo.

Insieme essi danno ragione del perché il legame con il capo si fondi sulla dedizione personale, basata su una fiducia assoluta; le speranze collettive di una salvezza comune e di un futuro migliore riposano in lui che le sostiene con una saldezza di convinzioni e una passione trascinanti.

I seguaci scorgono l’inizio di una nuova era, la realizzazione di un progetto a volte appena vagheggiato, a volte nemmeno sognato; è il capo stesso a risvegliare negli uomini comuni l’aspirazione allo straordinario, il coraggio di tendere all’impossibile, il desiderio di avventurarsi fuori dalla prigione della routine quotidiana. L’eccitazione, la speranza e l’entusiasmo si generano e saldano fortemente il gruppo intorno al capo. Proprio per il suo legame con il mondo interiore delle emozioni – e con il senso del sacro che da esse promana – il potere carismatico del leader agisce sugli individui dall’interno, diversamente da quanto accade per le trasformazioni operate nell’ambito di un processo di razionalizzazione, a cui gli uomini si adattano.

Va tenuto però presente che, soprattutto per l’epoca moderna, Weber sottolinea anche la forza rivoluzionaria della ratio. In un passo di Economia e società appare chiaramente esposta questa sua posizione:

 

Nelle epoche legate alla tradizione, il carisma è la grande potenza rivoluzionaria. A differenza della forza ugualmente rivoluzionaria della ratio – che agisce dall’esterno mutando le circostanze e i problemi della vita, e quindi in modo indiretto la posizione di fronte a questi, oppure con un processo di intellettualizzazione – il carisma può rappresentare una trasformazione dall’interno.

 

Secondo Weber però la forza e le ripercussioni prodotte da norme che si impongono dall’esterno sono diverse da quelle generate da un moto appassionato dell’animo di un gruppo di individui che pulsa all’unisono.

Il legame carismatico opera una metanoia secondo i valori additati dal capo. Esso, unitamente al fascino vertiginoso e gratificante dell’avventura nello straordinario, rende gli uomini capaci di trascendere se stessi e di vivere secondo valori che si pongono al di sopra degli interessi particolari della vita quotidiana. In questo modo colui che è qualificato carismaticamente si configura come l’autore di un processo di <<rinascita>>; questo processo porta alla formazione delle personalità, almeno nel senso formale della parola. Si tratta infatti di persone che tentano di dare un indirizzo unitario e coerente alla propria condotta; ma, dal momento che valori e orientamenti provengono dall’esterno, la personalità è tale solo in senso formale.

Le trasformazioni non riguardano soltanto l’animo dell’individuo, ma investono ogni aspetto della vita, producendo una rottura radicale; esse spezzano i limiti di classe e di ceto e dissolvono persino i legami familiari e le lealtà di sangue. Scrive Weber che il carisma <<può costituire un mutamento, fondato sulla necessità o sull’entusiasmo, delle direttrici di pensiero e di azione in base ad un orientamento del tutto nuovo delle posizioni di fronte a tutte le singole forme di vita e di fronte al “mondo”.

 

La comunità emozionale    

Il cambiamento operato dà luogo e ha luogo all’interno di un <<gruppo di potere>> che costituisce <<una comunità di carattere emozionale>> che trova nel capo il suo centro di attrazione e il mediatore di tutte le relazioni. La caratteristica della comunità emozionale è un’organizzazione fluida, basata su un’aristocrazia carismatica, dal momento che non esistono <<circoscrizioni di ufficio>> e <<competenze>>; tutta l’autorità è concentrata nel vertice che la delega e la ritira a suo piacimento. <<Non esiste né l’”assunzione” né la “destituzione”, non vi è alcuna “carriera” né alcuna “promozione”; si ha soltanto una chiamata secondo l’aspirazione del capo, sulla base della qualificazione carismatica dei designati>>. Infatti <<l’apparato amministrativo del signore carismatico>>, come lo chiamava Weber, <<non è un “corpo di funzionari”, e tanto meno un corpo di funzionari dotati di qualità carismatiche: al “profeta” corrispondono i “discepoli”, al “condottiero” corrisponde il suo “seguito” e al duce in genere corrispondono gli “uomini di fiducia”>>.

Altre due caratteristiche delle comunità emozionali basate sul dominio carismatico di una persona vengono messe in luce;: la tensione instaurata nei riguardi dell’economia ordinaria, sia tradizionale che razionale, e del diritto stabilito sia formale che tradizionale. In ciò appare evidente la potenza rivoluzionaria del carisma più volte richiamata nell’opera weberiana.

La contraddizione nei confronti dell’economia è implicita per una comunità formatasi attorno ad un capo genuinamente carismatico che per la propria missione deve <<stare al di fuori dei vincoli di questo mondo>> familiari o economici che essi siano. Il carisma puro è <<specificamente estraneo all’economia esso disprezza e respinge l’utilizzazione economica del dono di grazia come fonte di reddito>>.

Nel Vangelo è frequente rintracciare il disprezzo per l’asservimento dell’economia. Il carisma agisce come processo sovvertitore anche in campo economico, muovendosi spesso <<in senso distruttivo per il suo orientamento nuovo e senza presupposti>>. Alla base c’è il disprezzo per l’economia ordinaria che si pone l’obiettivo <<di introiti regolari conseguiti mediante un’attività economica continuativa diretta a tal scopo>>.

Il problema del mantenimento della comunità emozionale e del sostentamento della missione è delegato infatti a mezzi straordinari, pacifici o violenti a seconda del tipo del signore carismatico (profeta, condottiere, capo carismatico), della specificità della missione e delle circostanze storiche.

 

Il condottiere e il suo seguito cercano la preda; il detentore del potere plebiscitario o il capo carismatico di partito cercano i mezzi materiali della loro potenza, ed il primo soprattutto cerca lo splendore materiale del potere per consolidare il prestigio del suo dominio.

 

Per quanto riguarda il diritto, la caratteristica fondamentale della comunità carismatica consiste nel fatto che la fonte esclusiva del diritto è il capo.

 

Non si ha alcun regolamento né alcun complesso di principi giuridici né alcuna ricerca razionale del diritto orientata in base ad essi; non vi sono responsi giuridici orientati in base ai precedenti della tradizione.

Sono invece decisive formalmente le creazioni giuridiche attuali, di volta in volta – costituite in origine soltanto da giudizi di Dio e da rivelazioni. (…) per ogni genuino potere carismatico vale il principio: “ è scritto – ma io vi dico””.

 

Infatti ogni profeta, ogni condottiero, ogni uomo politico, investito di carisma, crea e promuove nuove norme <<in virtù della rivelazione dell’oracolo, dell’ispirazione, oppure in forza di un concreto atteggiarsi della volontà che viene accolta per la sua provenienza dalla comunità di fede, di partito o di altra specie>> e, così facendo, travolge e annulla le strutture consolidate della società. Come per la sfera economica anche per quella giuridica il leader carismatico e il suo seguito mettono in atto processi rivoluzionari che infrangono qualsiasi norma tradizionale o razionale.

 

Le trasformazioni del potere carismatico

Perché il potere carismatico si produca e svolga a pieno la sua azione occorre che esistano alcune specifiche condizioni strutturali e culturali, sintetizzabili in una situazione di crisi e in una preparazione al messaggio. Nonostante il suo individualismo metodologico, Weber non può esimersi da sottolineare l’importanza delle condizioni strutturali, politiche e sociali, nel far svolgere a pieno l’azione del carisma. Anzi il capo carismatico è propriamente rappresentabile come il “salvatore” di situazioni difficili, come colui che avverte un senso di profonda fusione tra destino individuale e destino collettivo e la convinzione di dover compiere quest’ultimo.

Weber segue il percorso del potere carismatico fino alla sua trasformazione in una delle due altre forme tipiche; infatti a suo parere:

 

Il potere carismatico (…) presenta una relazione sociale rigorosamente personale (…). Se però questa relazione (…) acquista carattere durevole – dando luogo ad una “comunità” di compagni di fede di guerrieri o di discepoli, oppure ad un gruppo di partito o ad un gruppo politico o ierocratico – allora il potere carismatico (…) deve mutare in modo essenziale il proprio carattere; esso si trasforma in senso tradizionale o razionale (legale) oppure in entrambe queste direzioni.

 

Paradossalmente per mantenersi il carisma deve trasformarsi, divenire altro da sé, fondandosi sulla tradizione o sulla norma, assumendo anche forma impersonale. La spersonalizzazione del carisma caratterizza l’iter della sua istituzionalizzazione.

Weber indica sei modi di successione e di conseguente trasformazione del potere carismatico: a) designazione del nuovo leader in base a criteri reputati in grado di assicurare le necessarie qualità carismatiche della persona scelta (esempio: l’elezione del Dalai Lama); b) designazione del successore da parte del capo stesso e conseguente riconoscimento da parte dei seguaci (esempio: il dittatore e l’interrex presso i Romani); c) rivelazione mediante oracolo, sorteggio o giudizio di dio (esempio: Saul designato dall’oracolo di guerra); d) designazione dell’apparato amministrativo qualificato carismaticamente, con riconoscimento da parte della comunità; e) ereditarietà in base all’idea che il carisma sia trasmissibile con i legami di sangue (esempio: le monarchie ereditarie, anche se <<il paese classico del carisma ereditario è stato l’India>>); f) istituzionalizzazione; si ritiene che il carisma venga trasmesso con una cerimonia magica invece che mediante legami di sangue. <<Si ha così l’oggettivazione del carisma, in particolare del carisma d’ufficio>>. L’idea cattolica della successione apostolica ne è un chiaro esempio.

Questi ultimi due tipi di successione prefigurano un processo di spersonalizzazione pressoché completo. Weber ritiene possibile parlare del carisma in senso impersonale <<in quanto il carattere di cosa straordinaria, non accessibile a tutti, rimane sempre conservato alle qualità di coloro che sono preminenti nei confronti dei dominati in modo carismatico>>.

 

Il leader politico

In uno dei suoi ultimi scritti, La politica come professione, Weber affronta il compito di definire il carisma in termini moderni e laici. Sviluppando il tema della democrazia plebiscitaria, disegna la figura del leader politico carismatico e ne delinea i tratti della personalità, non discostandosi da quelle qualità fondative, da lui ritenute essenziali per la realizzazione personale dei singoli, messe in luce fin dalle sue prime ricerche di sociologia della religione. Infatti l’idea di una causa, di una passione e della dedizione incondizionata ad esse – tipicamente rappresentata nell’esperienza puritana – sono centrali anche per il leader politico.

Il passaggio dalla descrizione dei capi carismatici tipicamente religiosi al leader politico moderno induce Weber al ricorso a tonalità meno intense, configurando un processo di “degradazione” emozionale dei concetti. Per il leader politico, infatti, utilizza una terminologia più laicizzata, anche se il modello in sostanza cambia né nella figura del capo, né nelle relazioni che genera con il suo seguito.

Il politico moderno che si  configura capo carismatico si qualifica, come i profeti preesiliaci d’Israele, per una <<chiamata interiore>> e il suo riconoscimento avviene in base alle <<qualità intime carismatiche che (…) creano un capo>>. Che di qualità etiche occorra parlare appare ovvio a Weber dal momento che il politico esercita un potere sugli uomini e, influenzando le vicende storiche, si eleva al di sopra della realtà quotidiana. Per chi aspira a mettere legittimamente <<le mani negli ingranaggi della storia>> individua tre qualità essenziali: passione, senso di responsabilità, lungimiranza. Esse trovano il loro momento unificante nella causa; la passione in tal modo non è una sterile agitazione, ma una <<dedizione appassionata a una “causa”, al dio o al diavolo che la dirige>>.

Infatti, secondo Weber , la semplice passione, per quanto sinceramente avvertita, non crea l’uomo politico, se non lo pone al servizio di una causa e non lo rende responsabile di essa. La responsabilità per il compito assunto deve divenire il criterio guida dell’agire; esso a sua volta presuppone la lungimiranza. Quest’ultima viene definita come un’attitudine psichica di autocontrollo, inerente alla personalità dei singoli e non un complesso culturale oggettivamente acquisibile. <<Donde la necessità della lungimiranza – attitudine psichica decisiva per l’uomo politico – ossia della capacità di lasciare che la realtà operi su di noi non calma e raccoglimento interiore: come dire, cioè, la distanza tra le cose e gli uomini>>.

Weber è profondo sostenitore di un atteggiamento che potremmo definire attraverso l’ossimoro appassionato distacco; esso deve riguardare le cose, gli uomini e soprattutto se stessi. La vanità e l’egocentrismo sono i grandi pericoli che sviano l’uomo politico dalla sua causa e che deviano <<l’istinto della potenza>> - qualità <<normale>> del leader – dal suo porsi al servizio della missione. Appare evidente come la concettualizzazione dell’appassionato distacco presupponga la maturata acquisizione delle origini ascetiche del carisma, cioè del suo essere, parafrasando Weber, oltre questo mondo, pur operando in esso. L’enfasi sulla distanza avvicina infatti la figura del moderno leader a quella dell’asceta intramondana – che gode di una posizione in più sensi privilegiata nelle ricerche weberiana – e proietta l’universo valoriale del politico nella dimensione dello straordinario carismatico, l’unica che legittimi sostanzialmente il suo dare ordine e senso al mondo.

Al capo politico Weber chiede di essere, come un antico profeta, sempre in tensione e al di sopra di ogni razionale evidenza e di ogni personale delusione, dal momento che <<il possibile non verrebbe raggiunto se nel mondo non si ritenesse sempre l’impossibile>>.

 

 

 

 

 

 

 

Bibliografia

·        L.C. Boralevi e D. Quaglioni, Politeia Biblica, Leo S.Olschki, Perugia 2003

·        M. Buber, Il cammino del giusto, Piero Gribardi, Perugia 1999

·        G. Bon, La filosofia dialogale di Martin Buber, Rosini, Firenze 1998

·        L. Alici - E. Beccarini – C. Levi Coen – F. Miano – G.Morra – G. Mura – A. Pieretti – P. Prini – P. Ricci Sindoni – C. Sini – S. Quinzio, La filosofia del dialogo da Buber a Lèvinas, Cittadella, Assisi 1995

·        C. Levi Coen, Martin Buber, Cultura della Pace, S. Domenico di Fiesole 1991

·        G. Milan, Educare all’incontro, Città Nuova, Roma 1994

·        K. Jaspers, Max Weber, Riuniti, Roma 1998

·        M. Peterlongo, L’Invito

·        M. Buber, L’eclissi di Dio, Mondatori, Trento 1996

·        M. Buber, Profezia e politica, Città Nuova, Roma 1996

·        A. Zaretti, Max Weber Cultura Religione Modernità, Aracne, Roma 1998

·        M. Buber, Le storie di Rabbi Nachman, Ugo Guanda, Parma 1995

·        G. di Nardo, Religione e capitalismo nel pensiero di Max Weber, Vincenzo Lo Faro, Roma 1998

L. Cavalli, Max Weber Religione e Società, Il Mulino, Bologna 1968