"Non trova che il mondo sia più triste da quando è morto Georges?"
Con questa frase pronunciata da un suo vecchio amico si concludeva un programma messo in onda dalla televisione francese per celebrare il ventesimo anniversario della scomparsa di Georges Brassens (e all’incirca l’ottantesimo dalla sua nascita). Si sono in quell’occasione susseguite le più disparate celebrazioni: dalla riproposizione in una nuova edizione della sua opera omnia incisa, alla pubblicazione di ben tre ghiotti CD di registrazioni inedite, provini e frammenti vari; non è mancato spazio teatrale che non abbia destinato almeno una serata alla sua memoria, si è montato uno spettacolo che ha avuto decine di migliaia di spettatori, una versione in dvd, e non ha ancora cessato di girare... insomma un tripudio...
Ma come mai un cantautore di carattere schivo, tanto da essere chiamato dagli amici L’orso, indifferente a ogni moda musicale, tanto da registrare invariabilmente voce, chitarra e contrabasso tutti i suoi dischi (dal ’51 al ’76), con una poetica apparentemente stilizzata in un’arcadia ferma stilisticamente e come preoccupazioni formali alla fine dell’800, e per di più dichiaratamente anarchico, suscita e ha suscitato un così unanime empito di simpatia?
A dire il vero proprio l’unanimità del consenso non ha mancato di creare una certa diffidenza da parte di molta critica militante, che da un lato affezionata all’idea della necessaria clandestinità dei suoi autori preferiti, dall’altro messa in sospetto dall’assenza di musoneria e da una "disdicevole" tendenza all’autoironia, ha caricato la sua opera di goffi tentativi di ridimensionamento: populismo, goliardia, spirito reazionario di origine contadina, qualunquismo, individualismo piccolo borghese... insomma il meglio dell’etichettatura del sacro rigore dei matematici della rivoluzione gli è stato assurdamente attribuito.
Ma l’anarchico "bravo ragazzo" che aveva collaborato per alcuni anni al periodico "Le Libertaire", l’operaio della Renault che trascorreva le sue notti a bagordare con i suoi amici "per male" e tutti i ritagli di tempo a "svaligiare" le biblioteche rionali parigine, il figlio del muratore che si era fatto prendere a rubacchiare a quindici anni ed era sfuggito alla cattura nascosto in un impasse malfamato dopo la diserzione dai campi di lavoro dell’occupazione nazista, l’inarrivabile musicista che elaborava architetture di parole mozzafiato, con raffinatezze di linguaggio e di costruzione arditissime e talmente complicate da essere cantate e godute anche dai bambini della scuola elementare, l’artista che saliva sul palco come un amico chiamato a tradimento e che sudando e concentrandosi su ogni accordo teneva appeso a un cordone d’emotività un pubblico incantato dalla coerenza granitica del personaggio... ebbene tutto ciò che Brassens rappresentava e rappresenta rideva e ride ancora di questi inutili tentativi di intorbidire la purezza insubordinata della sua poesia.
Georges Brassens è nato a Sète nel 1921 e vi è morto esattamente sessant’anni dopo. Arrivato a Parigi a vent’anni, vi ci ha trascorso tutta l’esistenza, tranne gli ultimi mesi. La sua vita è straordinariamente povera di vicende esteriori... troppo, secondo alcuni, che non hanno mancato di rimproverargli l’atteggiamento assolutamente distaccato e la totale mancanza di prese di posizioni a proposito delle vicende gravi e appassionanti che si svolgevano in Francia in tutto il corso della sua carriera: dall’Indocina all’Algeria, dall’OAS al Maggio ’68. Ma l’ostilità alla società intesa comunque come insaziabile divoratrice di individualità ha fatto svolgere a Brassens la sua intera opera, in un’intima coerenza, come un atto di diffidenza a ogni forma di potere, di organizzazione e di mitologia che, se da una parte non ha mai derogato da un impegno inflessibile sui temi che gli stavano a cuore (l’antimilitarismo più totale, la difesa degli umili, il rifiuto della morale borghese riassunta nella triade matrimonio-religione-patriottismo), dall’altra ha evitato come la peste, con anche troppa inflessibilità, ogni rischio di identificazione con una figura di predicatore laico, porta parola di qualsiasi gruppo, di caposcuola a cui far riferimento.
L’impegno a cui Brassens non è mai venuto meno è stato
quello di raccogliere la grande, ma isterilitasi nella didascalia,
tradizione cosiddetta "réaliste" della canzone
francese, quella che si occupava delle puttane, dei piccoli magnaccia,
dei delinquenti di strada, dei poveri cristi per sposarla alla solarità
swing, alle immagini pure, alla geometria letteraria di gusto
surrealista che gli veniva dall’adorato Charles Trenet
- per questo, a torto o a ragione, il padre della moderna canzone
poetica francese - ; quest’operazione arditissima e linguisticamente
rivoluzionaria ha consentito a un’arte che ha sempre corso il rischio
d’essere apprezzata da pochi, di finire sulla bocca di tutti... tutti
hanno pianto per il "pauvre Martin", il contadino
abbrutito dal lavoro e arreso alla morte liberatrice, come tutti hanno
riso del giudice che, avendo condannato a morte qualcuno, viene
goliardicamente sodomizzato da un gorilla inconsapevole e vendicatore. E
anche se questo non ha significato fare la rivoluzione sociale, certo ha
contribuito a far guadagnare un’incalcolabile simpatia alla "causa",
completamente ribaltando il centro d’interesse della canzone poetica.
Brassens ha definitivamente sposato una canzone in cui le tematiche
sociali hanno una centralità assoluta, col rigore e i sentimenti della
vera opera d’arte. L’ha fatto con una forza e una riconoscibilità tale
da diventare - lui ostile come nessun altro alle "scuole" - il più
imitato dei riferimenti. Forse solo Bob Dylan ha
influenzato altrettanto il genere. Brassens ha sottratto agli effettacci
da basso feuilletton il mondo della rue che popolava
le canzoni dei suoi predecessori, e l’ha eternizzato in una bellezza
povera di sentimentalismo e ricchissima di sentimento e di humor.
La rivolta in Brassens non proviene mai da un atto di rancore, per quanto giustificato, ma sempre da un atto d’amore, per questo si mantiene di una freschezza priva di brutalità e si compiace degli stilemi popolari più ridanciani e solari, dopo averli liberati dalla pesantezza grossolana dell’autocompiacimento delle più turpi manie della miseria.
Il mondo sarà anche più triste dal momento ch’è morto, ma la canzone è molto più allegra da quand’è nato!