Bruno Bongiovanni
Daniel Guérin

storico della Rivoluzione


L'albero della Rivoluzione.
Le interpretazioni della Rivoluzione francese.
A cura di Bruno Bongiovanni e Luciano Guerci
Einaudi, Torino, 1989.

 


 

 

Il primo centenario della Rivoluzione francese ebbe la ventura di coincidere, nonostante la effimera e pur massiccia popolarità di Boulanger, con il consolidamento delle istituzioni della Terza Repubblica. Agli occhi dei rappresentanti del movimento operaio e socialista francese, che solo da un decennio si era ripreso dai durissimi colpi subiti nel periodo della persecuzione contro i comunardi, la soddisfatta e tronfia civiltà borghese sembrava celebrare unilateralmente se stessa. Sul piano storiografico, la Terza Repubblica faceva riferimento a Michelet e, ancor più, a Quinet: Aulard, nel corso della lezione pronunciata il giorno in cui venne istituita la cattedra di storia della Rivoluzione francese, rifiutò la concezione della Rivoluzione come "blocco". Certo, tutto l'arco storico inaugurato dall'89 apparteneva di diritto al patrimonio nazionale, ma la Repubblica riveriva soprattutto Danton, l'uomo dell'energia e insieme della moderazione, il radicale "indulgente" che voleva tenere la Rivoluzione al riparo dagli eccessi. Toccò ai socialisti considerare la Rivoluzione come un "blocco" e consegnarla in toto alla vicenda della borghesia: non senza aggiungere, nello stesso documento approvato dalla commissione organizzatrice del congresso convocato per il 14 luglio 1889 e destinato a dar vita alla Seconda Internazionale, che il fatto di avere alle spalle, sepolta nel passato prossimo, la rivoluzione borghese, attestava l'ineluttabilità dell'avvento della rivoluzione operaia, una rivoluzione che si sarebbe incaricata di riempire di concreti contenuti sociali quel concetto di égalité che 1' 89 aveva solo astrattamente sbandierato.
Dodici anni dopo, l'Histoire socialiste di Jaurès, che pure confessa il debito contratto nei confronti di Plutarco e di Michelet oltre che nei confronti di Marx, rimane sostanzialmente, con meditata articolazione metodologica e con gusto appassionato per la ricerca, dentro questa linea interpretativa. Vi sono però, nella Grande Rivoluzione, dei borghesi che sono "più " (o "meno"?) borghesi degli altri e che quindi meritano maggior attenzione da parte dei socialisti. Le cose cambiano con la guerra mondiale e con la rivoluzione russa. Mathiez effettua il celebre confronto tra Lenin e Robespierre: il giacobinismo si avvita a sua volta sul leninismo e pare ora avere una sostanza sociale ben inserita nella parabola borghese e una forma politica che, invece, per i comunisti, può e deve installarsi, con tutta l'efficacia rivoluzionaria di cui è portatore, nelle organizzazioni del movimento operaio. Con il Fronte Popolare si ha un'ulteriore svolta: il Pcf, nel 1935, rivendica le tradizioni rivoluzionarie francesi e si pone come erede di esse. La classe operaia non deve regalare alla borghesia reazionaria, quella che non esita a gettarsi nelle braccia del fascismo, la bandiera tricolore, la Marseillaise e la memoria storica dei soldati della Convenzione. Il Fronte Popolare diventa poi esperimento governativo e genera una grande speranza. A questa seguono paura e delusione. Il centocinquantenario della Rivoluzione francese viene così a essere celebrato alla vigilia della Seconda guerra mondiale ed in un clima politico di grande disorientamento. Il richiamo all'89, oltre che nei frigidi discorsi commemorativi delle autorità, è presente soprattutto nelle feste comuniste: Marat e Robespierre sostituiscono Danton, il quale perde buona parte degli entusiastici ammiratori che aveva cinquant'anni prima. I partiti "borghesi" infatti, diventati moderati anche a causa dello spavento prodotto dal '36, scrutano con sospetto e diffidenza tutte le tradizioni rivoluzionarie. Alla Terza Repubblica non resta neppure un anno di vita.
E proprio negli anni trenta che ha inizio la milizia politica di Daniel Guérin (1904-1988). Proveniente da una famiglia borghese assai agiata, Guérin aderisce nel 1930 alla Sfio: la sua concezione del socialismo è però improntata ad un deciso radicalismo libertario e così qualche anno dopo egli si ritrova nel Parti socialiste ouvrier et paysan (Psop) di Marceau Pivert. Guérin spera che la vittoria del Fronte Popolare e soprattutto gli scioperi e le occupazioni del giugno '36 costituiscano una svolta autenticamente ed irreversibilmente radicale: parlerà in seguito di "rivoluzione mancata". Le sue posizioni politiche - sempre assai originali - sono precocemente e profondamente segnate dal pensiero di Trockij e da quello di Rosa Luxemburg: del primo lo interessa soprattutto l'analisi critica della dinamica rivoluzionaria, della seconda invece l'attenzione per l'autonomia del movimento spontaneo delle masse operaie e popolari. Non disdegnerà, nel secondo dopoguerra, di tentare un'avventurosa e suggestiva sintesi tra marxismo ed anarchismo: e così alla bussola della lotta di classe, indispensabile per cogliere la direzione del moto storico, si affiancheranno l'anticentralismo, l'antiburocratismo, il federalismo rivoluzionario e la valorizzazione dei veicoli e degli istituti della democrazia diretta.
Due esperienze storiche, vissute come tragicamente fallimentari, condizioneranno nettamente 1' accostarsi di Guérin alla storia della Rivoluzione francese: la prima è appunto il Fronte Popolare francese, mentre la seconda è la degenerazione staliniana dell'Urss. La "pausa" nel processo di trasformazione della società, teorizzata nel 1937 da Léon Blum, verrà in seguito criticata con l'ausilio della citatissima frase di Saint-Just che recita che "le rivoluzioni fatte a metà si scavano da sole la tomba". Quanto al destino della rivoluzione russa, esso sarà sempre presente tutte le volte che Guérin mutuerà da Trockij lo schema della rivoluzione permanente e tutte le volte che mediterà sulle cause e sulle forme dell'espropriazione e dell'usurpazione di un grande movimento popolare e di massa da parte di una minoranza. Il partito comunista francese, infine, era visto da Guérin come complice dei crimini dello stalinismo e come responsabile dell'affossamento delle lotte operaie del '36: l'esaltazione sciovinistica di Robespierre e l'interpretazione unanimistica e "monoclassistica" del 1793-94 fornite dal Pcf non potevano non insospettirlo. Si tenga presente che nel 1937, anno delle grandi purghe in Unione Sovietica, lo storico del Pcf Jean Bruhat pubblicava una brochure di 64 pagine dal titolo allusivo Le chatiment des espions et des traitres sous la Révolution francaise: il parallelismo era decisamente esplicito. Con tutti questi problemi sullo sfondo, Guérin dava dunque inizio alla sua lettura della Rivoluzione.
La lutte des classes sous la Première République, il testo che contiene i risultati di questa lettura, uscirà a Parigi nel 1946 e poi, rivisto e corretto, nel 1968. Vi è però anche una lunga prefazione, datata 23 agosto 1944, non pubblicata nel 1946 perché troppo esplicitamente programmatica:
questa prefazione verrà pubblicata autonomamente nel 1969 a Bruxelles con il titolo La révolution francaise et nous. In questo testo vengono chiariti gli obiettivi che Guérin si propone: essi sono una nuova interpretazione della Grande Rivoluzione alla luce della teoria della rivoluzione permanente e la ricerca, dentro la Rivoluzione dell' 89 e del '93 di quegli elementi che sono in grado di rigenerare il socialismo rivoluzionario contemporaneo. La Rivoluzione francese, infatti, a differenza di quella inglese, secondo Guérin più militare che popolare, è più attuale che mai, è praticamente il modello insuperato delle rivoluzioni a venire: nei quattordici mesi che vanno dal 31 maggio 1793 al 27 luglio 1794 vi è stata una rivoluzione popolare dal basso che si è affiancata alla rivoluzione borghese in atto, l'ha braccata spietatamente, l'ha costretta a farsi sempre più radicale, l'ha insidiata e in alcuni casi ne ha dilatato gli angusti limiti sino a far coesistere, in una sorta di difficile doppio potere, il segno di classe proletario e quello borghese. La borghesia, del resto, non aveva dalla sua né il numero né la forza fisica e non poteva procedere da sola nel cammino rivoluzionario. Si sarebbe agevolmente accontentata di risultati assai più modesti pur di non abbandonare i propri traffici: esitò davanti alla proclamazione della repubblica così come esitò davanti al suffragio universale. Il proletariato, tuttavia, pur ancora immaturo, non fu una semplice comparsa destinata in partenza alla sottomissione e non si limitò a fornire la grande, anonima e sottomessa truppa plebea a una guerra di classe estranea ai propri interessi: in questa guerra si inserì in piena autonomia, e con la forza di un protagonista, a partire dal 10 agosto 1792 e soprattutto a partire dal 31 maggio 1793. Guérin, del resto, condivide pienamente il giudizio di Babeuf che scorge, dentro la Rivoluzione, una guerra tra patrizi e plebei. E precisamente questo lo schema della rivoluzione permanente mutuato da Marx e soprattutto da Trockij: questo schema sgretola la concezione della Rivoluzione come "blocco", individua una pluralità endoconflittuale di spinte rivoluzionarie e prevede uno sviluppo combinato, polimorfo, polivalente, policlassista. E evidente che Guérin ha in mente lo sviluppo verificatosi nel '17, ma nel contempo svela indirettamente che Marx e lo stesso Trockij, quando affrontavano la " mobilità " interna e la " permanenza " del fenomeno rivoluzionario, avevano in mente l'89 e il '93 L'elemento fondamentale di tale fenomeno è e resta la lotta di classe (che Guérin porta alle estreme conseguenze e che fa giocare "a tutto campo"), la quale oppose si la borghesia, che aveva già ampie posizioni di potere nell'Antico Regime, all'aristocrazia, ma che oppose anche i bras nus - il termine è di Michelet e viene utilizzato da Guérin per definire il " preproletariato " - a tutte le classi possidenti e privilegiate. Sul piano politico la conclusione di Guérin è coerente con le premesse, anche se in contrasto con gli esiti "neogiacobini" e leninisti del pensiero di Trockij: davanti all'avanguardia popolare delle città i Giacobini e Robespierre giocarono un ruolo oggettivamente reazionario. Essi infatti impedirono la " trascrescenza " della rivoluzione borghese in rivoluzione proletaria ed il superamento dell'elemento "oggettivo " (borghese) della Rivoluzione da parte dell'elemento " soggettivo " (l'embrione della rivoluzione proletaria). Questo fatto è evidente - e cosi siamo arrivati ai temi più direttamente storici della Lutte des classes del 1946 - sin dal 1792: Guérin condivide infatti il giudizio di Jaurès secondo il quale le elezioni alla Convenzione, se la Comune insurrezionale del 10 agosto avesse avuto maggiore autonomia, avrebbero potuto svolgersi in un clima di "terrore democratico " e la Gironda avrebbe potuto scomparire già nel settembre del 1792. Nella primavera del '93, comunque, la situazione giunge al suo sbocco naturale e invano Robespierre invita i sanculotti a mobilitarsi per la libertà invece che per il carovita: i lavoratori rivoluzionari agiscono mossi dal loro istinto di classe. Nelle 48 sezioni parigine della Comune rivoluzionaria la Rivoluzione francese è stata la culla della democrazia sovietica, di quella democrazia che in Urss è da tempo scomparsa:
il proletariato, immediatamente, in una rivoluzione oggettivamente non sua, trova la forma più alta dell'autogoverno popolare. La democrazia diretta, praticata secondo Guérin anche nella Comune del 1871, è la vera depositaria della sovranità popolare e si oppone, per il suo contenuto di classe non meno che per la procedura politica, alla democrazia parlamentare che sottrae la sovranità al popolo e la concentra nei rappresentanti. Da questo punto di vista, Guérin ricava "in positivo" dalla Rivoluzione francese la stessa lezione ricavata " in negativo " dai liberali oligarchici come Guizot: un regime rappresentativo non è un regime democratico.
Il momento culminante della Rivoluzione è comunque situabile nell'autunno del 1793. La democrazia diretta, tra il settembre e il novembre, diventa parzialmente operante. L'arretramento della Rivoluzione inizia invece il 4 dicembre, il giorno in cui la borghesia, subordinando rigidamente per decreto la Comune al potere centrale e alla Convenzione, comincia a reagire energicamente contro il potere popolare e a schiacciare, con il centralismo politico ed amministrativo, lo spontaneo federalismo rivoluzionario del popolo, ben diverso, secondo Guérin, da quello puramente opportunistico ed oligarchico dei Girondini. Nello stesso scorcio di tempo si conclude l'impresa scristianizzatrice e Robespierre, ripristinando in pieno la libertà dei culti, si sottrae al grandioso tentativo di liberare definitivamente il popolo dall'oscurantismo dei terrori religiosi. Trionfa provvisoriamente, in attesa della totale restaurazione, l'astratta morale laica dei deisti e del nuovo clero civile. Guérin ritiene importantissimo questo aspetto della Rivoluzione e non lo relega mai sul piano delle sovrastrutture. L'effimera eclisse e il successivo ritorno dei preti, degli "hommes noirs ", scandiscono il ritmo e forniscono la temperatura delle diverse fasi della Rivoluzione. Nell'espressione "hommes noirs" c'è del resto sicuramente un eco della famosa chanson di Béranger (1819):

Hommes noirs, d'où sortez-vous?
Nous sortons de dessous terre
Moitié renards, moitié loups
Notre règle est un mystère

 

Se si vuol comunque cogliere la specificità dell'interpretazione di Guérin, assai eterodossa nel quadro del tradizionale "marxismo" francese, è importante conoscere la meccanica della Rivoluzione da lui proposta, vale a dire il precipitare degli eventi verso soluzioni sempre più radicali. All'inizio di questo processo ci sono le mire espansionistiche francesi verso il Belgio e l'Olanda, il che fa esplodere la rivalità commerciale franco-britannica. La guerra, la prima guerra moderna per l'egemonia sui mercati, si innesta sulla Rivoluzione e le fornisce una spinta decisiva. Le imposte non sono in grado di assicurare il denaro di cui la guerra ha bisogno: si confiscano allora i beni del clero e dei controrivoluzionari, si stampano gli assegnati, si produce un'inflazione generalizzata che colpisce gli strati popolari. Il dado è ormai tratto. La borghesia espropria i beni degli ordini del vecchio regime e si lega irreversibilmente al nuovo regime: i sanculotti, dal canto loro, misurandosi con la vie chère, trovano obiettivi autonomi di classe in cui riconoscersi e per cui mobiitarsi. I bras nus non intendono pagare per tutti:
emergono così gli Enragés, i portavoce dell'avanguardia popolare. Jacques Roux, Théophile Leclerc e Jean Varlet, figure spesso trascurate quando non maltrattate dalla storiografia rivoluzionaria, diventano gli uomini che sanno cogliere i bisogni materiali del popolo e che indirizzano l'ira di quest'ultimo verso gli speculatori e gli accaparratori: si chiede insistentemente un ferreo rigore sul cambio degli assegnati, un calmiere, il divieto delle esportazioni. Onde imporre una simile politica economica, che comporta aspetti inevitabilmente anche se confusamente dirigistici, i sanculotti invocano la ghigliottina e "vogliono che il terrore sia messo all'ordine del giorno". Il popolo, inoltre, prende possesso della Comune rivoluzionaria, ne fa il proprio organo di democrazia diretta e può così trattare da pari a pari con i paludati rappresentanti della nazione. I due poteri, le due sovranità, si fronteggiano. La borghesia, allora, secondo Guérin, si scinde: è una scissione meramente politica (anche su questo punto Guérin è con Jaurès e contro la storiografia "marxista " successiva) perché i Girondini e i Montagnardi appartengono alla stessa classe. I Girondini sono contro il calmiere e per la libera concorrenza: i Giacobini, invece, grazie alla grande abilità manovriera di Robespierre, si liberano della frazione girondina sospinti dalla pressione popolare ed imparano a destreggiarsi tra la sovranità nazionale della Convenzione e la sovranità popolare che prorompe dalle sezioni e dalle Comuni rivoluzionarie. La borghesia sociale si allea allora con la Montagna, accetta alcune misure dirigistiche e lucra con le forniture di guerra e con la vendita dei Beni nazionali.
Falliscono però i vari sistemi escogitati per ridurre il circolante: la rivoluzione popolare allora dilaga. I sanculotti eseguono perquisizioni nelle abitazioni dei ricchi per stanare l'oro nascosto: il calmiere (maximum) viene proclamato e viene creata l'armée révolutionnaire. Vi è una sorta di terrore sociale che viene introdotto per combattere la penuria e la fame: questo terrore riesce a imporre frammenti di economia "collettivistica" o quanto meno "protetta" e amministrata. I Giacobini però scalzano la popolarità di Jacques Roux e liquidano progressivamente il movimento degli Enragés. E la prima vittoria della borghesia contro il popolo. Emergono allora i "plebei" hébertisti (così definiti per distinguerli dalla base "proletaria" dei bras nus), vale a dire i seguaci del redattore del " Père Duchesne " Jacques-René Hébert: costoro, e a questo proposito Guérin riprende una valutazione diffusa, non sono veramente disinteressati come gli Enragés. Per un certo periodo, però, riescono ad animare le passioni popolari operando una diversione "ideologica" che diventa, contro le loro stesse intenzioni, un grande movimento di fondo che quasi mette in ginocchio tutta la vecchia Francia: per deviare le masse dalla lotta per la sussistenza, gli hébertisti lanciano una campagna scristianizzatrice e subito, secondo Guérin, l'istinto elementare di classe fa sentire ai sanculotti che la religione è uno strumento di oppressione. Hébert infatti "avait le don de sansculottiser la philosophie". È questo sicuramente uno degli aspetti più nuovi ed originali della ricerca di Guérin. La campagna scristianizzatrice diventa una grande e sovvertitrice kermesse popolare, una festa gioiosa e giocosa che libera gli uomini dai vincoli autoritari della religione. Il fiume non ha più argini. Su questi temi la storiografia più attenta allo studio delle mentalità tornerà in seguito. Guérin, in un'ampia sintesi del 1973 ricavata da La lutte des classes ed intitolata Bourgeois et bras mis, ricorderà che sulle arie rivoluzionarie l'"immaginazione al potere" (ecco un termine desunto dal maggio '68) inventava nuovi ritornelli a sfondo allegramente anticlericale:

Abbés, chanoines gros et gras,
Curés, vicaires et prélats,
Cordeliers fiers comme gendarmes
Capucins, Récollets et Carmes,
Que tout rentre dans le néant
Que tout disparaisse devant
Le peuple sans-culotte!

 

La Rivoluzione, come già si è visto, a questo punto arretra. Daniel Guérin cita con favore un giudizio di Gustave Tridon che colloca la crisi suprema della Rivoluzione tra il 28 novembre e il 12 dicembre 1793, i giorni in cui Robespierre, con l'appoggio diretto degli "indulgenti" di Danton e con quello indiretto dei tecnocrati, dichiara guerra al federalismo popolare e alla scristianizzazione. Anche Hébert fa marcia indietro. Ma chi sono i tecnocrati? Sono coloro che detengono le leve essenziali del comando e la loro individuazione è uno degli aspetti più interessanti dell'analisi di Guérin: deriva con tutta probabilità dal dibattito degli anni trenta e quaranta sulla natura sociale dell'Urss. I tecnocrati sono quelli che controllano le finanze (come Cambon), la guerra (come Carnot), la sussistenza, la marina, l'industria degli armamenti, la diplomazia. La borghesia, infatti, non governa direttamente, ma si serve di un personale tecnico specializzato. Quanto a Robespierre, egli era un alleato indispensabile dei tecnocrati, era l'uomo in grado di controllare l'opinione. Guérin, del resto, oltre al rivoluzionario Tridon, non manca di citare il reazionario Cochin, lo storico che, in modo certo onnicomprensivo, scorge, nell'autonomizzarsi dello spazio dell'opinione, l'essenza stessa della Rivoluzione. Anche il fattore militare è comunque importante e condiziona la sorte della Rivoluzione: quando la fortuna delle armi volge al peggio la rivoluzione si radicalizza, quando la vittoria militare si approssima la rivoluzione arretra.
Il nuovo Stato centralizzato, burocratizzato e poliziesco ha progressivamente la meglio: la sovranità popolare delle Comuni soccombe davanti alla sovranità "borghese" della Convenzione. I sanculotti perdono mordente e si disorientano: il terrore sociale diventa così terrore politico, lotta per il potere, resa dei conti, esercizio arbitrario della dittatura. Il 24 marzo 1794 al mattino viene ghigliottinato Hébert: il 24 marzo al pomeriggio viene proclamato un nuovo calmiere "ammorbidito" a tutto svantaggio dei sanculotti. La situazione economica evolve in direzione del liberismo: i salari, nel maggio-giugno, vengono drasticamente ridotti. Dopo gli hébertisti cadono anche Danton e gli "indulgenti": quest'ultimo episodio, va pur detto, non è molto chiaro nella logica della esposizione di Guérin. Robespierre resta comunque isolato e i " tecnocrati ", padroni della Francia ancor prima del Direttorio, decidono che è possibile fare a meno dell'ingombrante Incorruttibile. Il Termidoro, tuttavia, non fa che portare a termine, in modo non privo di traumi, una svolta socialmente reazionaria iniziata per Guérin molti mesi addietro ed addebitabile in toto agli stessi Giacobini.
Il Termidoro, comunque, stabilizza definitivamente la rivoluzione borghese e sancisce, anche simbolicamente, il tramonto del potere popolare. La Rivoluzione, nell'anno III, tenterà di risollevare coraggiosamente la testa, ma gli insorti di germinale e gli insorti di pratile saranno brutalmente repressi dalla guardia nazionale borghese. Toccherà a Babeuf e alla cospirazione degli eguali ricavare dalla Rivoluzione francese le opportune lezioni politiche.