Giocando sulle ginocchia di Malatesta
Intervista a Luce Fabbri di Massimo
Annibale Rossi
L'ultima intervista di Luce Fabbri, rilasciata il 18 maggio scorso.
Ero piccina, appena cinque anni, ma mi porto il
ricordo nitido di quest'uomo dalla folta barba che, venuto a sera a
trovarci, trascorse ore a giocare con noi bambini. Portava in dono un
meccano. Era quel giorno stesso uscito dalla prigione. Si chiamava Errico
Malatesta". Luce è felice nel racconto: brani di un'esistenza che appaiono
più avvincenti del più avvincente romanzo. L'ascolto a mia volta rapito,
cercando di non perdere le sfumature di questa voce flebile che sembra
giungere da lontano.
Conobbi Luce Fabbri dai suoi scritti, e più precisamente durante un lavoro
di ricerca sul primo periodo di Volontà, gli anni eroici della
fondazione e del tentativo di rilancio del movimento in Italia. La seconda
guerra mondiale era appena terminata e gli anarchici tornavano dalle galere
e dagli esili, che per più di vent'anni li avevano tenuti lontani. Anche
Luce pensò in quel tempo di riprendere a ritroso il mare, "ma la salute...
". Un compagno conosciuto a casa sua, commentando il primo loro incontro
alla fine degli anni '30, rammentava: "La trovammo incredibilmente colta e
profonda, ma mangiava come un uccellino ed era pallida e smunta da farci
pensare che non ci sarebbe rimasta per molto". Luce ha compiuto novantadue
anni.
Degli scritti di quel periodo colpivano il tratto deciso e arguto, la
determinazione a sottrarsi alle categorie dell'inevitabile luogo comune,
seppur libertario. Nei lunghi pomeriggi trascorsi chino sulla rivista,
cercavo un filo di Arianna che mi aiutasse a sottrarmi alle pastoie della
ricostruzione storiografica, a trarre da quelle voci suggestioni per un
futuro possibile. E del futuro e di un risveglio alla vita di tante
esistenze sonnolente e sapide, da quel tempo per me lontano desiderai
parlare con Luce.
Il discorso iniziò in verità a Milano, nella redazione di "A". Salutavo
Paolo Finzi in attesa di partire per il Brasile e involontariamente
cominciai a riversare sul suo inarrestabile attivismo la vena scettica e
indefinita che da qualche tempo mi tormenta. "Gli anarchici mi appaiono
troppo appiattiti sul loro affascinante passato. La vita, i nuovi fermenti
sono nella strada; diversi e mutevoli, ma reali", dicevo e nel dire quel
senso di insoddisfazione e anche di dolore si faceva parola per un amico
disposto a condividere. "Non serve realizzare nuovi tentativi di
catalogazione di ciò che è, o meglio appare, "libertario". I movimenti
giovanili sono per natura inafferrabili e spesso contraddittori. L'Hip-hop
ne è un esempio, un crogiolo di passioni e desideri che quotidianamente, in
ogni parte di questo vecchio pianeta, nonostante gli Albertini, si fa atto".
E qui, sotto lo sguardo più inquieto di Paolo, il sasso nello stagno: "Gli
anarchici dovrebbero a mio avviso trascurare un poco le loro meravigliose
architetture teoriche e 'sporcarsi le mani'... ". Mi era uscito.
Paolo mi consigliò di riflettere, precisare il mio pensiero e scriverne.
Poi, pochi giorni dopo, il bagno di polvere, grida e barricate di questa
presente, vitalissima America Latina. L'odore acre delle dittature degli
anni '80 dietro gl'inesplicabili compromessi dei politici delle "rinate"
democrazie. "Sem terra", Zapatisti e movimenti indigenisti. Volti e parole,
ma soprattutto un agire lontano anni luce dal fideismo monolitico dei tristi
bolscevichi. Ritrovarmi con gli anarchici uruguasci nelle avenida di
Montevideo, un corteo di 70.000 persone, a chiedere: "Donde estan los
desasparecidos?".
E ancora Luce: "Sono contenta perché ciò che sta avvenendo conferma che
avevamo ragione. In Uruguay, come ovunque, la sinistra si è avvicinata al
potere perdendo le caratteristiche originarie, acquistando i caratteri che
era nata per combattere. E' sufficiente l'odore del potere per
corrompere. Penso ai revisionisti anarchici, tipo Machno con la sua
piattaforma o in Italia Pardaillan, orientati verso la presa del potere 'per
il periodo brevissimo' necessario a compiere il salto. Noi non dobbiamo
avvicinarci al potere".
"Tuttavia, nella gestione di qualunque struttura emergono un carisma,
delle capacità, dei leader...".
"L'importante è sentire dentro che [il potere] non lo vuoi. E di ciò sono
sicura per me stessa e per i compagni che conosco; certo ce ne possono
essere di più deboli. Non si può garantire per tutti".
"Qual è la differenza tra l'autorevolezza riconosciuta al leader di un
gruppo e il potere?".
"Siamo esseri umani, non possediamo una difesa, una corazza interiore che ci
protegga dalle nostre pulsioni. Si tratta di un processo; piccoli strappi e
concessioni, qualcosa di insensibile. Non accade che all'improvviso ci si
percepisca autoritari. Piccoli strappi: sei sicuro di te, ma proprio perché
ti senti sicuro puoi arrivare a compiere un altro e un altro strappo. Ti
trovi intrappolato in un ingranaggio. Incominci a dirti: 'Non è il momento:
se perdo il potere succede... '. E dunque: 'ancora no; ancora no'. E via via
si scivola: credo che ci sia molta differenza tra l'esercizio del Governo
provvisorio e dire 'non voglio il potere', anche a condizione di subire
quello di un altro. E' meglio averci il piede sulla testa, che avere il
proprio piede sulla testa di un altro".
"Stai pensando alla Rivoluzione spagnola?".
Stavo pensando a quello, a Federica Montseny e alla sua riflessione. Gli
anarchici sono passati per il potere un po' teoricamente... ".
"Insomma, erano ministri...".
"Erano ministri, ma non potevano fare molto...".
"Forse più in Catalogna...".
"Sì, io credo che chi veramente abbia avuto potere e l'abbia esercitato sia
stato Santillan. Santillan era molto, molto anarchico, ma ci fu un momento
che in Catalogna gli anarchici prevalsero. La CNT era molto potente e
Santillan il suo rappresentante... Il ministero dei quattro è stato il gran
colpo ricevuto dall'anarchismo contemporaneo, e non è stato grave per
Federica che era al Ministero della sanità, dove qualcosa di buono si può
fare. Ma Garzia Oliver che aveva la giustizia, nientemeno...".
"Mi sembra di capire che secondo te gli anarchici non dovevano
accettare".
"Si era in guerra, una ragione molto forte. Franco stava vincendo, i
compagni erano imbottigliati nel sud; se le cose non fossero cambiate,
presto sarebbero stati costretti a concentrarsi ad Alicante, nel tentativo
di imbarcarsi. Loro si convinsero che per non perdere la guerra fosse
necessario agire a quel modo. I giudici della situazione erano loro, non
certo quanti sono restati comodamente a casa, tuttavia rimango convinta non
dovessero accettare".
"Mi viene in mente una parabola di Ghandi sulla necessità di compiere
compromessi con la propria coscienza quando si tratta di evitare grandi
mali. Se nel mio villaggio vedo il macellaio uscire minaccioso con un
coltellaccio a suo negozio, dovrò cercare di fermarlo. E se questi fuori di
senno dovesse cominciare a ferire e uccidere la gente, per fermarlo dovrò
compiere un atto violento (ammesso che ci riesca). Da questo punto di vista
percepisco la sterilità dei dogmatismi e apprezzo la scelta. L'assoluta
coerenza può portare alla paralisi dell'azione, all'ignavia...".
"L'esempio della votazione mi sembra emblematico. La ripugnanza al voto si è
per gli anarchici trasformata in dogma. Noi non vogliamo delegare la nostra
sovranità, la vogliamo esercitare direttamente, tuttavia a volte conviene
che la votazione riesca. L'importante è non esser candidati, ma votare o non
votare, non vedo in cosa praticamente influisca".
"Sei una grande eretica... ".
"Io generalmente non voto, eppure una volta ho votato".
"Io invece voto facendo inorridire gli anarchici, ma voto in funzione del
male minore".
"Il rifiuto del voto è un pregiudizio; credo che noi non siamo partigiani
del male minore: 'tutto o niente'. Ma in genere non si ottiene nulla quando
si vuole tutto".
"Nella storia recente del movimento, penso al tentativo di Masini di
candidarsi alle amministrative, si assiste a contrapposizioni molto dure, ad
atteggiamenti che sanno di scomunica. Un altro esempio è fornito da Cesare
Zaccaria, redattore di Volontà fino alla metà degli anni '50 , quando
parve avvicinarsi al liberalismo crociano dal quale proveniva. Anche in quel
caso si verifica una sorta di condanna e una successiva rimozione. Cosa
pensi di questo atteggiamento nei confronti di quanti infrangono i
fondamenti dell'anarchismo o che semplicemente se ne allontanano?".
"Se uno si presenta come candidato e accetta una carica come anarchico crea
confusione nella mente della gente. Bisogna prendere posizione per evitarlo
e perché si rispetti il significato delle parole. Ma bisogna vedere più in
là: nella Resistenza si sono viste le cose più strane. Bifolchi è diventato
sindaco di un paesino meridionale".
"Anche Ugo Fedeli, esule in Uruguay, poi espulso, si trovò nella medesima
situazione...".
"Di Fedeli non sapevo. È stato un momento di confusione che fa parte della
storia del movimento; guerra, partigiani".
"Dopo la confusione, l'accendersi delle correnti. Come hai vissuto le
infinite diatribe interne?".
"Io gli individualisti non li ho mai capiti. Non capisco come possano
sostenere una visione del futuro senza considerare l'uomo come essere
sociale. L'uomo non si concepisce senza il linguaggio, e il linguaggio è di
tutti e ci lega gli uni agli altri. Il linguaggio è il portato di una
società; siamo la convergenza di tanti sforzi".
"Una domanda un po' provocatoria: l'aggressività è frutto della
paura...".
"E anche del desiderio di potere".
"E anche del desiderio di potere; ma considerando la storia del movimento
sono colpito dalla veemenza del confronto tra le fazioni. Se tra loro sono e
sono stati così aggressivi, di cosa hanno paura gli anarchici?".
"Credo sia l'argomento più forte contro la realizzabilità dell'anarchia. 'Se
non andate d'accordo tra voi, come può funzionare la società senza
autorità?' E' difficile discutere riconoscendo la buona fede
dell'avversario, ma è l'unica strada".
"Torniamo alla paura degli anarchici. Penso all'Adunata dei refrattari,
ma anche a polemiche e prese di posizione più recenti. Quanti compagni hanno
intinto la penna nel veleno...".
"Quando ancora s'intingeva. Ma rispondi tu, che hai detto che è frutto della
paura...".
"Forse il desiderio di prevalere sull'opinione dell'altro, di sentirsi
più forti e sicuri. Problemi di autostima".
"Non se ne accorgono. Tu vedi: appena nelle riunioni uno parla un po'
meglio, riesce meglio a convincere, assume una posizione, un ruolo
speciale e lo difende. Non lascia più parlare gli altri, e anche questa
è una forma di potere. È inevitabile, siamo tutti persone, soggetti ai
nostri istinti".
"Votazioni, leader, aggressività latente, paura e desiderio di potere
sono temi trasversali alla tua storia, quanto al presente. Il senso del
passato viene meno se non se ne trae, come sostenevate voi di# Volontà,
uno stimolo per l'azione e il cambiamento. Si pone un tema fondamentale: la
capacità dell'anarchismo contemporaneo di cogliere e interpretare fermenti e
segnali concreti. Secondo te, gli anarchici sanno ancora ascoltare?".
"Io non so se in campo nostro siano stati valutati sufficientemente i
cambiamenti della struttura sociale, e più precisamente gli effetti del
venire meno del proletariato come classe maggioritaria e cosciente di sè.
...se ci siamo realmente adattati nei nostri metodi a una situazione così
nuova. Non si può più parlare di insurrezione. È diventato importante il
piccolo passo, la vittoria circostanziale. Credo di essere ancora in debito
con A Rivista di una risposta rispetto a una intervista che mi fecero
molto tempo fa, in cui mi definii partigiana delle cooperative. Sono
convinta che il cooperativismo, ben inteso, costituisca un passo avanti. È
un sistema molto corrompibile, accessibile alle deformazioni del mercato, ma
al principio si fonda sulla solidarietà e non sulla concorrenza".
"Per te la concorrenza è un disvalore?".
"In un regime capitalista è alla radice della violenza; è un disvalore".
"Come giudichi dunque la componente "sperimentalista", che individua
nella compresenza, e nella competizione, di differenti soggetti economici -
cooperative, piccoli imprenditori, artigiani - una precondizione allo
sviluppo del corpo sociale?".
"Mio padre era sperimentalista, e anch'io lo sono. Il capitalismo, quanto
un'economia solidale, possono realizzarsi in varie forme. Quando mio padre
diceva 'si sperimenteranno i vari sistemi', si riferiva comunque all'ambito
socialista".
"Per associazione diretta, il tema dello sperimentalismo richiama Camillo
Berneri...".
"Se la memoria non mi inganna, ricordo che mio padre sosteneva Berneri
stesse 'navigando in acque pericolose', ma, soprattutto negli ultimi tempi,
l'idea della libera sperimentazione lo affascinava".
"Per concludere, un tuo pensiero sugli anni che ci attendono".
"Credo che la cesura tra presente e passato sia rappresentata da Hiroshima.
Tutto ciò che è stato scritto precedentemente dovrebbe essere rivisto in
funzione della morte atomica. Los Alamos recentemente lambita da un incendio
rappresenta una metafora. Il capitalismo, anche se mostra segni di crisi, è
un animale duro a morire, capace di profonde mutazioni che in questa fase,
la globalizzazione, vanno a peggiorare le condizioni della gente. Gli
anarchici comprenderanno il cambiamento in atto e giungeranno a una
concezione differente della rivoluzione sociale, adeguando gli strumenti di
propaganda in un senso che mi pare vicino al movimento dei Sem Terra".
18 maggio 2000.
Montevideo, Uruguay
Massimo Annibale Rossi