Charles BaudelairePoeta e critico francese (Parigi, 1821 - ivi, 1867). autore Alfio Squillaci dal sito http://www.lafrusta.net/pro_baudelaire.html Un
marginale Figlio
di un uomo seguace dell’Illuminismo troppo presto scomparso (il padre
di Baudelaire aveva sessantadue anni alla sua nascita, sua madre ventisette),
Baudelaire visse la sua giovinezza in pieno romanticismo.
Infanzia infelice, tra la madre, che adorava ma alla quale non perdonò
il nuovo matrimonio, ed il patrigno, il futuro generale
Aupick, il quale non comprese gran che di questo giovane fragile e
pieno di contraddizioni, di cui voleva determinare i percorsi d’istruzione. Classicamente
destinato “a fare diritto”(come Virgilio, come
Flaubert e come altri ancora e niente più del diritto è stata
la via maestra dell’arte), Baudelaire sceglie ben presto la bohème
del
Quartiere latino e medita un programma di vita che gli eviti a tutti
i costi di diventare un "homme utile". A vent’anni, quando
ha già avuto una relazione tempestosa con una prostituta ebrea
(Sarah Louchette), e già le relazioni familiari si sono guastate,
Baudelaire s’imbarca per l’Oriente: in realtà, si ferma alcune settimane
all’Isola Mauritius, quindi alla Réunion, si riempie gli occhi di
immagini e di colori sontuosi, scopre i poteri della sensualità e
rientra in Francia fin dal febbraio 1842, dopo appena dieci mesi d’assenza.
Raggiunta la maggiore età, riceve l’eredità del padre naturale e mena
subito una vita che la famiglia considera abbastanza dissoluta
(il generale Aupick vedeva di mal occhio la sua relazione con
una mulatta, Jeanne Duval, non approvava le sue frequentazioni artistiche,
in breve, le sue scelte di consapevole marginale) imponendogli un
giudice tutelare, al fine di privarlo del godimento dei beni. Queste
vicissitudini intime e familiari faranno di Baudelaire un disadattato
a vita: daranno forma a tutte le sofferenze del poeta, di cui
lo straziante epistolario con la madre resta un'esulcerata testimonianza. La
traversata dell’Inferno Un’esistenza
difficile ha inizio, segnata spesso dalla disperazione più nera (tentativo
di suicidio nel 1845), dall’indigenza - si dà alla critica d’arte,
per mantenersi -, ben presto anche dalla malattia (la sifilide) e
dal lavoro poetico che lo sfianca e che lo induce a compararsi a un
Sisifo condannato a rotolare il suo masso. Gli anni 1845 -1848 sono
quelli in cui Baudelaire compone la maggior parte de I fiori
del male, il suo capolavoro. Scopre in questo periodo Edgar
Allan
Poe, che ammira e che tradurrà in parte, si lega a Marie Daubrun
(la douce femme dagli occhi verdi de I fiori del male),
partecipa ai moti rivoluzionari del 1848, per ragioni private
più che politico-ideologiche (Baudelaire era un borghese con pose
aristocratiche, ammiratore del reazionario de Maistre non certo un
rivoluzionario democratico). In questa circostanza preso da
una “fièvre rouge” verso l’odiato patrigno pare che venga colto a
pronunciare la frase «Fuciliamo il generale Aupick!», che in
quel momento si trova a capo delle truppe repressive. Ma gli
esiti della rivoluzione lo deludono, come in seguito il
colpo di Stato del 2 dicembre 1851 ( la presa del potere di Napoleone
il Piccolo, in seguito Napoleone III). Il
poeta maledetto
Prodigiosamente incline al dolore e alla solitudine, collerico ed
impulsivo, completa il proprio processo di autodistruzione col vino,
l’hashish, che hanno come effetto diretto il rafforzamento della distanza
dal conformismo borghese di cui ha orrore. Il
legame torbido e tempestoso con Jeanne continua, inframezzato
da altri amori (per la signora Sabatier, in particolare). Pubblica,
nel 1857, I fiori del male. Il libro subisce ben presto
un processo, seguito da condanna, per “immoralità” (nello stesso
anno
Flaubert è processato per
Madame Bovary,
venendo assolto, anche per le sue aderenze borghesi ed istituzionali,
che mancarono al povero Baudelaire) e molte poesie giudicate particolarmente
scandalose vengono espunte dalla censura. Quell’anno
stesso muore il generale Aupick e Baudelaire si riavvicina alla
madre, verso cui finalmente può indirizzare la sua struggente adorazione
di bambino refoulé e verso la quale è pronto a cadere
ai piedi come anche, un attimo dopo, a inveire. Pubblica nel
1860 I paradisi artificiali (celebrazione delle droghe che
consentono di uscire fuori di sé), prosegue il suo lavoro di critica
d’arte lucida ed audace difendendo Richard Wagner, che nessuno in
quel momento comprende, l’Olympia di
Manet, quadro dinanzi al quale la borghesia traccheggia, e l’arte
delicata di Constantin Guys, pittore della vita moderna, suo
speculare confratello artistico. Mentre
è intento a lavori frammentari e diaristici - gli autobiografici Il
mio cuore messo a nudo e Razzi
-, pubblica, nel 1862, alcuni poemi in
prosa sotto il titolo di Spleen di Parigi,
ed è aggredito sempre più dagli
effetti della sifilide. Dopo un soggiorno di due anni in Belgio (pretesto
per un pamphlet atroce: Povero Belgio),
è colpito da emiplegia
e si spegne a Parigi il 31 agosto 1867, a quarantasei anni. Critica
d’arte, critica letteraria La
critica d’arte è stata il lavoro di Baudelaire a latere di
quello poetico, ed uno dei suoi più impegnativi e riusciti banchi
di prova. Il poeta seguiva le esposizioni e le mostre
parigine (Saloni, 1845 -1859), principalmente pittura e scultura,
non senza volgere il proprio interesse alla musica ed alla letteratura
(vedi
la sua recensione per
L’artiste,
di Madame Bovary). Ciò gli consente di fissare i suoi odi, i suoi
gusti, meglio ancora: la sua poetica. I suoi odi - poiché per Baudelaire
la critica, più che oggettiva o imparziale deve essere invece di parte,
appassionata, "politica" - vanno all’indirizzo del conformismo,
dell’accademismo, alle “scimmie” delle sensazioni come la fotografia,
questa tecnica che soddisfa i borghesi e la cui finalità artistica
è di copiare la natura. I suoi favori vanno al colore (piuttosto che
al disegno), alla pittura moderna - soprattutto quella di Delacroix,
che incorona il più grande pittore del suo tempo - alla caricatura,
alle opere insomma dove un’anima trova espressione con l’immaginazione
e la sensibilità. Dopo la sua morte usciranno due raccolte delle sue
critiche d’arte (Curiosità estetiche, 1868; L’arte romantica,
1868 -1870). La
scelta del romanticismo e della modernità Dalla
critica baudelairiana, si sprigiona una poetica: la critica è un atto
creativo, estetico a pieno titolo, che fissa scelte dirimenti ed inequivoche.
Quella del romanticismo è la prima opzione per Baudelaire, il quale
analizza questo tratto stilistico-epocale come l’espressione più attuale
del bello, modo di sentire il suo tempo e non certo raccolta di motivi
o di stereotipi; il romanticismo è dunque intimità, spiritualità,
colore, gusto dell’infinito. La critica sollecita l’artista a cercare
ovunque la modernità, a schivare i modelli classici: la vita moderna
è bella, eroica, intensamente poetica, anche nei suoi aspetti febbrili,
alienanti, industriali. Baudelaire è il poeta della modernità, della
città, il battutista dandy che reputa la campagna il «luogo
dove i polli si aggirano crudi». Canta Parigi in preda alle trasformazioni
furiose dell’industrialismo, in cui «fiumi di carbone salgono in cielo».
È ciò che consentaneamente registrava Constantin Guys coi suoi schizzi
rapidi ed i suoi disegni deliziosi, cogliendo l’espressione stessa,
fugace ed eterna, di un’epoca. Nulla della vita metropolitana
e moderna sfugge al suo occhio curioso, mobile ed esulcerato. Le toelette
delle donne – certo... la moda, che il dandismo baudelairiano
si guarda bene dal disprezzare -, il capriccio dei finimenti femminili,
il movimento nervoso delle carrozze nella Nervenleben
(vita dei nervi) della metropoli di cui parlerà di lì a poco Simmel
-, lo sguardo fuggevole incrociato con una mendicante o una passante
fuggitiva, la luce tremolante ed equivoca dei luoghi di piacere: tutta
la vita parigina passa attraverso il suo pennello poetico. Contro
il “filisteismo borghese” Dalla
critica intelligente e reattiva, pronta, in letteratura e in musica,
a comprendere i veri talenti e gli ingegni contemporanei (Baudelaire
rende omaggio a
Balzac, a
Flaubert, prende qualche distanza da Hugo, ma non dimentica i
dimenticati, come Marceline Desbordes-Valmore o Pétrus Borel), emerge
un odio vigile e vitreo verso quel “filisteismo borghese”, nutrito
di clichés, di platitude, di informe commistioni, che
in lui diventa odio dell’utile e del progresso tout court,
il dio del secolo XIX°, secolo laborioso e devoto. In questo odio
per il borghese, si ode invero l'avversione per qualsiasi attività
produttiva e l'esaltazione della vita aristocratica, preziosa e disimpegnata,
impersonata dal dandy.
In alcuni pensieri sparsi diaristici si registra, evidente, un'inclinazione
fortemente misogina, reazionaria, antidemocratica e ahimè anche antisemita. Bussola
di tutti i pensieri di Baudelaire è l’Arte, che non ha
altra finalità che la Bellezza. Essa è dunque estranea alla morale,
e allo stesso tempo è la sola aspirazione degna dell’uomo. L’arte
di Baudelaire Questo
critico intransigente è un poeta delicato scorticato dalla vita, ulcerato
dal dolore, invaso da sensazioni sublimi, pervaso da sentimenti indicibili
del vivere e da tensioni estreme verso l’Ideale e l’Assoluto. I
fiori del male, quest’opera poetica (l'Inferno del XIX°
secolo) senza confini , dove l’estetica incrocia la mistica è ancora
un punto d’urto e di collisone della cultura occidentale, il punto
di intersezione dell’intera simbologia e iconologia dell’Occidente,
dell’Antichità greco-latino-giudaica e della Modernità industriale-metropolitana
come la conosciamo noi (Ovidio cacciato dal paradiso latino e l’Uomo
contemporaneo sorpreso all’addiaccio della vita moderna, il
figlio della razza di Caino che in cielo sale e sulla terra getta
Dio e il dandy chic, poseur, stordito dal lusso, dalla calma
e dalla voluttà). Nello stampo classico di una poesia castigatissima
nella forma (alessandrini, endecasillabi, sonetti: Baudelaire evitò
i metri liberi) il poeta riversa il fuoco di un sentire inusitato
e i temi evitati dalla poesia corriva. Sono quelli di cui tutta la
letteratura moderna sarà nutrita e intrisa: il piacere, soprattutto
quando è torbido ed amaro, la perversione, l’ odio di sé e degli altri,
lo spleen
che scava nell’intimità dell’essere, la coscienza sempre più
penosa di se stessi (l’angoscia che pianta sul cranio inclinato il
suo vessillo nero) e infine la sfida suprema verso una
società che si pretende cristiana – e contro cui il poeta peraltro
adotta la stessa simbologia ed iconologia: inferni, paradisi, limbi,
angeli e demoni -: quella di dubitare dell’esistenza stessa di Dio. Verso
il simbolismo In
quest’universo tormentato, dove filtrano soltanto deboli luci -
dolci talora, luci d’amore, di occasi cittadini, dove anche lo spleen
evapora in malinconia -, sola, s’oppone, l’alchimia meravigliosa dell’arte
contro il nulla. L’arte baudelairiana è una miscela riuscita di romanticismo
e di formalismo, ma sostenuta da una tensione e da una emozione troppo
intense perché I fiori del male possano ricadere nello scaffale
dell’arte per l’arte e del parnassianesimo che seguì di lì a poco.
Se resta “classico” (i versi, dicevamo, sono per lo più alessandrini,
le strofe rimate, il sonetto trova in lui un nuovo artiere), Baudelaire
è risolutamente moderno per il posto che assegna all’immaginazione,
regina delle facoltà, nella ricerca della bellezza poetica: quest’immaginazione
non inerte e passiva è invero la più scientifica delle
facoltà perché essa sola comprende l'analogia universale fra
le cose e permette al poeta di attingere l’ineffabile, lo strumento
atto ad esorcizzare l’angoscia che emana dalla molteplicità del reale.
Poiché qualsiasi cosa nell’universo si corrisponde (è la teoria famosa
della sinestesia delle Corrispondenze),
la poesia è la matrice dei simboli e dà all’uomo i mezzi per oltrepassare
il reale in un surreale che gli rende tollerabile il reale stesso.
C’è dunque salute nella poesia, ed essa lambisce l’ignoto
(«paradiso o inferno, cosa importa?»). Per la torturata coscienza
"cristiana" di Baudelaire, la sola conciliazione sarà quella
dell’arte e dell’aspirazione alla santità: «Un perfetto
alchimista e un cuore santo». Tale è il poeta. La
poesia in prosa Nella
sua ultima raccolta, Spleen di Parigi (intitolato anche Piccoli
poemi in prosa), Baudelaire ebbe l’intuizione di considerare
il poema in prosa la forma della poesia futura. Se un
romantico minore allora poco conosciuto, Aloysius Bertrand, ne aveva
gettato le basi, e se Rimbaud e Mallarmé finirono col dargli diritto
di cittadinanza in letteratura, Baudelaire trovò, in alcuni
testi dello Spleen di Parigi,
i mezzi di un’unità fortemente poetica, seppur nella discontinuità
dei frammenti. La morte, nel frattempo sopraggiunta, interruppe la
sua ricerca. Primo
di ogni altro senza dubbio, Baudelaire ha fatto poesia col materiale
che a tutta prima ne sembrava più privo: la vita moderna, insopportabile,
implacabile. Non perciò dalle forme levigate e piene, ma dall’incrinatura
e dalla mancanza nasce il suo verso. Lo specifico per eccellenza
del poetico, la Bellezza, ha natura doppia e anfibologica e
trova il suo fondamento, tradizionalmente, nella politezza delle linee,
nell’apollineo, nel regolare, nell’attico, nell'antico, ma nel caso
di Baudelaire (come ci ha segnalato Mario Praz ne La carne la morte
e il diavolo)
anche nell’orrido, nel deforme, nell’irregolare, nell’asiano, nel
moderno. Scrivere versi dopo Baudelaire è impresa ancora più perigliosa di quanto non lo sia usualmente. Qualcuno - Carlo Dossi - smise di scriverne per sempre dopo aver letto I fiori del male. |