Agosto 1971, Franco Basaglia assume la
direzione dell’ospedale psichiatrico di Trieste.
Nell’accettare l’incarico si adopera per
costituire un gruppo di lavoro formato da
giovani medici, sociologi, assistenti sociali,
volontari e studenti provenienti da diverse
città e regioni, italiane ed europee. Molti sono
attratti a Trieste dall’importanza che il
discorso intorno alla psichiatria e alle
istituzioni totali va assumendo in quegli anni
nei movimenti sociali e di opinione, negli
organi di informazione e nel dibattito politico.
Il modello della comunità terapeutica,
sviluppato in maniera originale a Gorizia da
Basaglia e dalla sua équipe nel decennio
precedente, ha assunto una risonanza nazionale
dopo la pubblicazione de L'istituzione
negata (1968). In quel libro, mentre si
documentano gli sforzi per umanizzare
l'istituzione, si denuncia per la prima volta il
fatto che l'ospedale psichiatrico non può essere
riformato: obbedendo a regole e leggi di ordine
pubblico e controllo sociale, non può soddisfare
obiettivi di assistenza e di cura, essendo anzi
produttore di malattia. A Trieste si dovrà
dunque procedere nel solco tracciato da Gorizia
per andare oltre il manicomio: trasformarne
l’organizzazione non per riformarla, ma per
superarla attraverso la costruzione di una rete
di servizi territoriali, alternativi e
sostituivi delle molteplici funzioni -di cura,
ospitalità, protezione e assistenza- assolte
dall'ospedale.
La sfida è difficilissima: malgrado le
numerose esperienze riformatrici avviate anche
in Francia e in Inghilterra nel secondo
dopoguerra, nessuno è mai riuscito a spostare
realmente l'asse delle cure dall'ospedale alla
comunità. Non esistono saperi o pratiche
consolidate cui ispirare il processo
riformatore; né le norme giuridiche e
legislative di cui si dispone, ancora basate sul
giudizio di pericolosità del malato di mente,
sono di per sé sufficienti ad autorizzare una
vera apertura e civilizzazione delle funzioni di
cura della psichiatria in senso territoriale e
comunitario.
Sulla "distruzione dell'ospedale
psichiatrico", come "fatto
urgentemente necessario", Basaglia
aveva scritto nel 1964:
«Dal momento in cui oltrepassa il
muro dell’internamento, il malato entra
in una nuova dimensione di vuoto
emozionale (risultato della malattia che
Burton chiama institutional
neurosis, e che io chiamerei
semplicemente istituzionalizzazione);
viene immesso, cioè, in uno spazio che,
originariamente nato per renderlo
inoffensivo ed insieme curarlo, appare
in pratica come un luogo paradossalmente
costruito per il completo annientamento
della sua individualità, come luogo
della sua totale oggettivazione. Se la
malattia mentale è, alla sua stessa
origine, perdita dell’individualità,
della libertà, nel manicomio il malato
non trova altro che il luogo dove sarà
definitivamente perduto, reso oggetto
della malattia e del ritmo
dell’internamento. L’assenza di ogni
progetto, la perdita del futuro,
l’essere costantemente in balia degli
altri senza la minima spinta personale,
l’aver scandita e organizzata la propria
giornata su tempi dettati solo da
esigenze organizzative che – proprio in
quanto tali – non possono tenere conto
del singolo individuo e delle
particolari circostanze di ognuno:
questo è lo schema istituzionalizzante
su cui si articola la vita dell’asilo».
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