L'autogestione a tavola
di Mimmo
Non capita spesso che dei compagni, che pure
partecipano ad esperienze autogestionarie, si sforzino di tracciare per
iscritto un bilancio della loro esperienza, presentandola così agli altri.
Succede così che tante piccole esperienze, da ognuna delle quali si potrebbe
almeno cercare di trarre qualche insegnamento, restino sconosciute ed
isolate, in definitiva inutili al di fuori dei loro protagonisti. Proprio
sotto questa luce particolarmente significativo giudichiamo l'articolo che
il compagno Domenico Pucciarelli ("Mimmo") ha pubblicato sulla sua
esperienza (tuttora in corso) nell'ambito del ristorante autogestito "Aux
tables rabautes", che si trova in rue Bodin 4 a Lione. Questo articolo è
stato pubblicato nella brochure interrogations sur l'autogestion da
noi presentata sullo scorso numero nella rubrica rassegna libertaria.
La traduzione dall'originale francese è del solito Andrea Chersi, che aveva
anche tradotto dal portoghese l'intero servizio dal Brasile pubblicato sullo
scorso numero (per un errore l'indicazione del traduttore era saltata).
Ricordiamo infine che, come lui stesso accenna all'inizio dell'articolo,
Mimmo rifiutò nel '75 di obbedire alla cartolina-precetto e nel corso di
un'affollatissima assemblea in un teatro torinese lesse la sua dichiarazione
di obiezione totale (pubblicata su "A" 40). I solerti poliziotti presenti in
sala non fecero in tempo ad eseguire il mandato di cattura che pendeva su
Mimmo perché renitente alla leva: letta la sua brava dichiarazione, Mimmo si
eclissò per rispuntare oltre frontiera.
È necessario parlare dell'autogestione e delle ideologie che la guidano. Ogni intellettuale che abbia letto parecchi libri e che, dalla "sua sensibilità" sia portato ad interessarsi a questo problema, potrebbe brillantemente esporre il contenuto della cosa attraverso decine di fogli scritti. Viverla, o cercare di viverla, cioè mettere in pratica le idee, è un'altra cosa; perché si tratta nientemeno che di applicare una forma di pensiero alla vita... quotidiana! (1). In questo articolo, vorrei parlarvi di due anni del mio lavoro all'interno di un ristorante gestito collettivamente, o autogestito.
La storia
Venuto in Francia per sfuggire agli obblighi militari e dopo aver cercato
lavoro un po' dappertutto, entro ben presto in un ristorante tenuto da una
compagna. Dopo qualche mese di ricerche e di tentativi, si è giunti a creare
una specie di organizzazione del lavoro basato su una riunione settimanale,
in cui tutti quelli che lavoravano decidevano del comportamento da seguire
rispetto a tutti i problemi del ristorante. Purtroppo, un attentato ha
interrotto questa prima esperienza, quattro anni fa. Secondo me, i
principali problemi esistenti erano costituiti dalle divergenze tra le
persone che lavoravano e la persona nominalmente proprietaria del
ristorante. Va da sé che i salari erano uguali e gli orari gli stessi per
tutti. Tuttavia la compagna "legalmente responsabile" del ristorante aveva
acquisito determinati privilegi: l'appartamento soprastante e la vettura,
che teoricamente doveva servire collettivamente al ristorante, venivano
spesso considerati come sua proprietà.
Vi voglio piuttosto parlare della nuova esperienza che vivo attualmente, nel
ristorante che è nato un po' come la prosecuzione del primo, ma con degli
statuti più precisi e più collettivi: la cooperativa "Aux tables rabautes".
Nove persone si sono riunite e grazie a una vendita di azioni da 50 franchi
ai compagni-compagne e ad un apporto di 500 franchi da ogni membro del
gruppo di partenza, si è potuto aprire questo nuovo ristorante. Con un
capitale molto scarso: circa 15.000 franchi.
Io non facevo parte di questo gruppo iniziale, ero disoccupato al 90% e non
avevo voglia di "sgobbare". Poi, non ho più avuto diritto all'indennità di
disoccupazione, quindi ho dovuto decidermi a guadagnare da vivere. È stato
allora che mi sono messo nel gruppo delle "Tables". C'era effettivamente un
posto vacante ed essendo conosciuto come ex-lavoratore del "Goût de Canon"
(il ristorante di cui ho parlato prima) son stato accettato subito. I
preliminari importanti per il collettivo sono stati le spiegazioni sulle
divergenze che c'erano state tra la compagna "responsabile del primo
ristorante" e me.
Il compito che mi prefiggo scrivendo questo articolo è quello di dare un
contributo semplice, e spero concreto, a questa pubblicazione
sull'Autogestione, degli elementi che possano far comprendere come si può
vivere in autogestione e più in particolare lavorare in autogestione.
Vorrei pure dimostrare le mille difficoltà che occorre superare e risolvere,
difficoltà che non sono dovute soltanto ai difetti della struttura
capitalista del lavoro, ma anche alla struttura (oserei dire) di ognuno di
noi in quanto individuo.
Informazioni preliminari
Il ristorante cooperativo ha uno statuto ufficiale: "Presidente",
"Amministratore", "cooperatori-azionisti" ed un funzionamento basato sul
collettivo e rappresentato dall'insieme degli individui che vi lavorano.
Ancora una volta l'organizzazione del lavoro e la vita del ristorante si
basano sulla riunione settimanale del collettivo. Tutte le persone che
lavorano in questo ristorante devono partecipare a questa riunione, non
perché lo voglia la legge, ma perché è necessario che ogni lavoratore
conosca quel-che-succede-e-come-deve-succedere. In questa riunione, le
decisioni vengono prese all'unanimità, o meglio col consenso di tutti. In
effetti non c'è votazione. Ogni decisione, presa dopo essere stata discussa,
viene o accettata da tutti, oppure rinviata alla successiva riunione se
qualcuno tra di noi non è convinto, non si è deciso, contrario o non
soddisfatto. Questo viene chiamato diritto di veto. Poi, comincio a far
notare che questo veto è un'arma da definire meglio, perché nessuna persona
del collettivo se ne serva e non costringa gli altri ad agire contrariamente
ai loro desideri.
Più precisamente, si può dire che avendo come scopo la partecipazione
collettiva, la volontà di non imporre niente a nessuno, si ha allora cura di
non "camminare sui piedi" degli altri. Ma non vorrei assolutamente che una
persona domini il collettivo attraverso continui veti. Attualmente nel
collettivo, quando esiste disaccordo o indecisione, si cerca di chiarire il
problema, piuttosto che far ricorso ad un eventuale diritto di veto. Non si
chiude subito e si cerca allora una soluzione di "compromesso" tra gli
antagonismi-isti.
Le riunioni cominciano con un ordine del giorno redatto sul posto. Tutti i
membri del collettivo presenti possono iscrivere nell'ordine del giorno uno
o più punti che ritengono necessari. Dopo questo primo passo, discutiamo
spesso per tre o quattro ore.... Uffa!
La rotazione degli incarichi
Questo è uno dei principi di base del ristorante; viene applicato quasi
perfettamente per tutto quel che concerne il lavoro proprio di un
ristorante: servizio in sala, piatti, sbucciare legumi e confezionare dei
piatti. E questo anche se quelli che hanno maggiore esperienza o che hanno
preso gusto a fare dei "buoni piattini" sono più "capaci" di altri,
inesperti, o che non riescono ad avere quell'"amore" per la cucina. Se la
rotazione è effettiva, non viene regolamentata in modo molto formale:
accordi amichevoli, secondo l'umore e la stanchezza si fanno spesso. Dato
che la composizione del collettivo non è molto cambiata da un anno e che un
nucleo di circa 9 persone vi lavorano regolarmente, accade che siamo
parecchi a proporre piatti soddisfacenti, cioè buoni o addirittura ottimi.
Ciò non impedisce che alcuni, ad esempio, preferiscano la cucina al
servizio. Penso che sia dovuto al fatto che certi ritengono che la
preparazione dei piatti a livello di presentazione-quantità sia più
importante che il semplice trasporto del piatto sui tavoli. Potrei anche
dire che lavare i piatti è a volte un rifugio per chi non ha voglia di
"discutere" con la gente o fare troppa "attenzione al lavoro" e potersi
illudere, colle bolle di sapone, di essere sul suo pianeta. Anche se il
sogno si interrompe bruscamente perché il lavapiatti alla fine del servizio
è esausto. Noi non abbiamo lavapiatti automatiche, ce n'era una ma non
veniva utilizzata da tutti i lavoratori e non riusciva a risparmiare un
posto.
Per il futuro? Si vedrà quando ci sarà più denaro e meno da lavorare. In
breve, buona parte del collettivo non si precipita al secchiaio. Ci si
sforza, inoltre, di fare in modo che tutti vadano a far la spesa e tengano
la contabilità. Quest'ultimo incarico, comune ad ogni impresa, rappresenta
per noi il "problema" più importante da risolvere. Voglio dire che, se a
fare dei piatti o fare il servizio, ci si può arrivare "facilmente", per la
contabilità il discorso è diverso. Occorre essere più diligenti ed avere
delle idee generali sul perché di certe operazioni. Il problema della
contabilità era stato tempo fa risolto da 4 o 5 persone che si "dedicavano"
al ristorante con maggiore interesse ed entusiasmo; s'è allora creata una
frattura fra questi 4 o 5 e gli altri che ne risentivano (quanto meno ne
risentivo io), come un certo potere di decisione, di rappresentanza e di
orientamento lasciato nelle loro mani. (Il collettivo è rappresentato in
certi periodi da 12 o 15 persone. In effetti si può scegliere di lavorare a
tempo pieno o parziale, ma si è arrivati al punto di farsi sostituire da una
persona esterna al collettivo per uno o più servizi).
Si è discusso di questi problemi ed io ho suggerito di stabilire in modo più
preciso la rotazione degli incarichi.
All'inizio, c'erano solo delle persone che volontariamente si decidevano, il
lunedì, a far le spese. Ora, non tutti lo facevano, perché alcuni volevano
andarci, mentre altri se ne disinteressavano. Con tale sistema, alcuni non
sapevano ancora dove si faceva la spesa e che prezzo aveva la roba.
L'istituzione di una rotazione bimensile ha fatto sì che tutti quelli che
lavoravano da qualche mese potessero fare la spesa.
La contabilità
Si sarebbe voluto utilizzare lo stesso sistema di rotazione, ma oltre al
fatto di far comprendere la necessità di regolamentare le attività, cosa che
s'era lasciata al volontarismo liberale, si doveva pure constatare una
mancanza di capacità-volontà da parte della maggioranza del collettivo nei
riguardi della contabilità. Errori di trascrizione erano all'ordine del
giorno. Io stesso, incaricato per un certo tempo di tenere i conti, ne ho
fatto parecchi, forse per negligenza, disattenzione o perché le cifre mi
interessavano poco, o forse anche perché: "Le mansioni amministrative,
mansioni attribuite più o meno consciamente ai funzionari, non possono
assolutamente sedurre un gruppo guidato da un'ideologia di tipo anarchico"
(2). Mi rendo quindi conto che è necessario tenere una contabilità precisa.
Secondo me, non s'era cercato un mezzo perché coloro che ne sapevano di più
sulla contabilità lo comunicassero agli altri. Ad ogni modo bisogna
precisare che il lavoro di contabilità è seguito ed esaminato da un
contabile. Costui non fa parte del collettivo, ma è per noi una necessità.
Ultimamente, si è decisa una rotazione di tre persone con l'incarico della
contabilità per una durata limitata. Prima era stato concordato che tre
persone individualmente si sarebbero presi l'incarico di determinati libri.
Adesso i tre lavoreranno collettivamente lo stesso giorno. Ma le regole
stabilite non sono rigide e ci possono sempre essere accomodamenti,
"diversificazioni". La nostra contabilità vien fatta col calcolatore. Io mi
ero opposto. In effetti, se i quaderni ed i libri che compilavamo prima
erano a malapena leggibili da coloro che non vi avevano mai gettato uno
sguardo - e ce ne sono nel collettivo - ora i nuovi registri, ordinatissimi
e bellissimi, scritti col calcolatore, lo sono ancor meno. Di contro, i
risultati e le analisi possono risaltare ancor più facilmente, anche se
abbiamo bisogno del nostro caro contabile per interpretarli. Ecco il
problema! Potremo un giorno conoscere tutti meglio la contabilità? Potremo
un giorno fare a meno del nostro contabile? È una cosa che per il momento
escludo. I rapporti economici nel mercato attuale a causa delle leggi che
intervengono nel ciclo lavoro-produzione-consumo "ci costringono ad avere un
bilancio". Più formalmente, il bilancio dev'essere consegnato alla nostra
banca ogni anno perché questa venga a conoscenza del nostro stato di salute.
Ma, anche in una situazione d'autogestione generalizzata, globale, non
dovremo lo stesso avere una gestione socio-economica? Una gestione diversa,
forse, ma necessaria!
Il mio sogno infantile di raccogliere patate, metterle in forno e poi
mangiarle, senza che ci fosse ombra di denaro in quel gesto, ma solo una
spesa di lavoro... esci dall'utopia, dicono gli intellettuali. Il denaro
esiste e si dovrà averne a che fare per parecchio ancora; ma il rapporto con
questo denaro può essere differente. Certo, io lavoro ai "Tables" per
guadagnare del denaro, mi occorre per pagare ciò che consumo. Ma io ho
scelto di lavorare nelle condizioni di cui parlo in quest'articolo, perché
si avvicinano alle mie idee, perché posso partecipare direttamente a tutto
ciò che succede, posso dire parolacce o farmele dire, e non sono alla mercè
di nessun chef nel ristorante.
In breve, non lavoro per accumulare denaro, ma per "guadagnarmi il pane" e
utilizzare quel che mi è possibile in altre attività, come ad esempio la
pubblicazione di questo volumetto su l'autogestione.
Con un giro d'affari di circa 600.000 franchi all'anno, il ristorante
costituisce una piccola impresa. Con una media di circa 120-130 coperti al
giorno, mezzogiorno e sera (si resta chiusi domenica e lunedì sera), con un
menù che attualmente s'aggira sui 18.50 franchi, la nostra attività ha
registrato nel primo anno un deficit di circa 24.000 franchi. Perché? Perché
i prezzi non erano abbastanza elevati (17 franchi allora)? Perché
l'organizzazione del lavoro non era a punto? Perché le capacità culinarie
erano molto ridotte? Mani bucate? Un po' di tutto questo.
Ad esempio, un anno e mezzo fa occorrevano 5 o 6 persone per preparare i
piatti per 60 coperti, oggi si può lavorare in 3 o 4 per lo stesso numero di
coperti. Questo secondo anno si preannuncia già migliore. Nei primi cinque
mesi di gestione, non abbiamo né deficit, né utile netto... Ah!
I salari
Noi siamo tutti pagati secondo i servizi effettuati. All'inizio, ogni
servizio veniva pagato 30 franchi (!), oggi il prezzo del servizio raggiunge
lo SMIC: 86 franchi per una media di 8 ore di lavoro (varia tra le 6 ore di
lavoro al mattino e le 8 o 9 ore la sera). Il servizio del mattino comincia
alle 9 e termina verso le 15-15,30; il servizio della sera comincia alle
16,30 e termina verso mezzanotte o l'una. In un anno, tutte le persone che
hanno lavorato a tempo completo hanno fatto una media di 4 o 5 servizi la
settimana. Non viene imposto un numero di servizi settimanale, anche se
riteniamo necessario che il lavoro venga fatto dai membri del collettivo
piuttosto che da eventuali sostituti; il lavoro viene così effettuato in
modo più semplice e più "efficiente".
Questa "efficienza" ricercata da qualche membro del collettivo (soprattutto
in rapporto ai benefici che se ne potrebbe trarre) parrebbe a prima vista
benefica pure per la struttura economica del ristorante. Ma un gruppo di
lavoratori fissi e un numero di servizi fissi non ci lascerebbe la
libertà/scelta di lavorare secondo le nostre necessità e voglie. Ad esempio,
io organizzo il mio lavoro in rapporto alle attività che ho al di fuori del
ristorante. Così, ho lavorato solamente i martedì e i giovedì sera in questi
mesi estivi (periodo di stanca delle attività politiche...), giorni in cui
abitualmente partecipo a delle riunioni.
Grazie alle diverse attività di ognuno dei lavoratori delle "Tables",
possiamo facilmente redigere la pianificazione. (A titolo d'esempio, le
attività dei membri del collettivo al di fuori del ristorante sono: musica,
fotografia, teatro, politica, studi,... tempo libero): ma abbiamo avuto
qualche problema nella pianificazione.
Questi problemi nacquero nel momento in cui eravamo in troppi a voler
lavorare in questo ristorante e non si sapeva più chi avesse la precedenza
per iscriversi nella pianificazione e comunque non abbiamo ancora stabilito
delle regole precise. Allora, è stato deciso di dare la priorità alle
persone che si offrivano per una ragione semplicissima: avere il minor
numero di "volontari" possibile durante i servizi (3). Il numero dei
"volontari" è ora ridotto e la priorità viene quindi data a quelli che fanno
il massimo dei servizi nella settimana: cioè a quelli per cui il ristorante
rappresenta l'unico mezzo per guadagnarsi il pane. Le divergenze non sono
però terminate; ultimamente abbiamo avuto delle discussioni a proposito di
una compagna che voleva lavorare per un mese d'estate come "sostituta" e
alcuni membri del collettivo hanno avuto paura che quella "sostituzione"
divenisse una "integrazione". Questa reazione può essere comprensibile,
visto che oggi siamo già troppo numerosi in rapporto al numero dei servizi.
D'altra parte i "sostituti" non sono sicuri di poter lavorare ogni settimana
e allora si deve dire loro: "questa settimana siamo a posto, non abbiamo
bisogno dei tuoi servizi", il che mette in imbarazzo il collettivo. Ciò non
significa che abbiamo chiuso la porta, ma quando avremo voglia di respirare
aria nuova, allora nuove persone potranno venire a lavorare con noi.
Quale è la differenza tra le "Tables Rabautes" e gli altri ristoranti? Quali
sono i rapporti tra quelli che vi lavorano e quelli che vi vengono a
mangiare? Ultimamente, una persona che partecipava a un seminario sulle
Nuove Organizzazioni, venuta a mangiare nel ristorante per sapere che
cos'era e qual'era il suo funzionamento, ci ha domandato: "In che cosa siete
alternativi? Che cosa fate di diverso dal cucinare in questo ristorante?".
Noi abbiamo risposto che certe differenze si pongono a livello "estetico", a
livello di comportamento, di una certa libertà-partecipazione, cosa quasi
unica nel campo della ristorazione (4). L'estetica significa non imporre
alcuna uniforme né pettinatura, abitualmente riservata al personale degli
altri ristoranti (barbuti, capelloni sono accettati...). Il comportamento:
si dà del tu (ma non è obbligatorio!) i bambini corrono per la sala (anche
se danno fastidio a volte a qualche lavoratore-lavoratrice); i cani vengono
delicatamente cacciati con un calcio fuori dalla cucina in cui erano entrati
di soppiatto.
La "libertà" è la possibilità per un gruppo d'individui di modificare la
geometria dei tavoli, secondo il loro gusto; la partecipazione è l'aiuto dei
compagni e delle compagne alla fine del servizio, per finire prima e
continuare la festa altrove. In breve, noi dicemmo (in quell'occasione, io)
al nostro interlocutore che la differenza tra le "Tables" e gli altri
ristoranti era soprattutto a livello di organizzazione del lavoro: la
gestione da parte di tutti i lavoratori (e lavoratrici) dell'insieme del
ristorante, con in più il piacere di lavorare con dei compagni e compagne,
di potersi assentare quando si è stanchi per la settimana che è trascorsa, o
quando non si è dormito molto la notte precedente. È anche arrivare in
ritardo ed esser certi che non si verrà puniti. E non è il disordine! Se
qualche volta a mezzogiorno o alle otto di sera i piatti non sono pronti, i
clienti hanno la pazienza di attendere, possono anche rimandarci indietro il
piatto chiedendoci di cuocerlo di più.
Il cibo è disgustoso? Nulla di più vero; la maggior parte dei clienti
abituali ci dice che è variabile, ma che c'è un netto miglioramento nella
qualità dei piatti cucinati. In generale, la nostra idea sul cibo è di fare
dei piatti corretti per un prezzo non troppo elevato, tenendo conto delle
necessità economiche del ristorante.
Un ghetto!
Il piacere, il bisogno di ritrovarsi in un posto in cui si possa essere
se stessi al massimo, spinge taluni a venire tutti i giorni al ristorante
per mangiare, bere un caffè di corsa, o salutare gli amici, o informarsi su
certe manifestazioni. Un ghetto?
Forse, tuttavia alla sera a volte vediamo delle famiglie o dei clienti non
abituali che vengono, per curiosità o per i nostri prezzi. In quei momenti,
siamo felici di constatare che il nostro ristorante non è "riservato ai
marginali". Si può dire che la gente cambia, non tanto a mezzogiorno quanto
la sera, con una maggioranza di giovani (non troppo, perché i giovanissimi
non hanno un'indipendenza economica tale da pagarsi il ristorante, anche se
qualche volta dei gruppi di liceali e di studenti si siedono un po'
impacciati ma contenti di potersi divertire alle "Tables"). Pochissimi
studenti, molti barboni che vivono sulle famose pendici del Croix-Rousse (il
quartiere, decisamente popolare, in cui si trova il ristorante -
n.d.r.), qualche giovane lavoratore, artigiani, insegnanti, ingegneri,
attori, tipografi, disoccupati. Che altro si fa alle "Tables"? All'inizio, i
compagni pensavano di potere, con un tocco magico, accatastare i tavoli e
fare qualcos'altro: leggere, ad esempio. In effetti pensavano di aprire una
libreria sul mezzanino sopra la sala del ristorante, ma l'idea non s'è
potuta realizzare, a causa dei problemi d'organizzazione, di riflessione, di
incompetenza e soprattutto per la mancanza di denaro. Ci sono stati
spettacoli di animazione: teatro, musica, televisione, dibattiti (cibi
biologici, ecc.). Inoltre il GLH) (gruppo di liberazione omosessuale) vi ha
tenuto i suoi incontri, ogni sabato pomeriggio, per un anno (5).
Per quel che riguarda la musica, si è dovuto interrompere per il rumore
provocato dagli strumenti e le voci amplificate; i vicini ce l'hanno fatto
dire dai poliziotti. Il teatro: credo che sia difficile utilizzare il posto
in cui si mangia come sala da teatro. D'altra parte, il lavoro al ristorante
è troppo assorbente e non ci lascia il tempo d'organizzare altro e non
abbiamo avuto proposte da parte di gruppi di teatro o di clienti in questi
ultimi tempi. Quando ci domandano perché non c'è musica, si ricorda la
storia del chiasso e della SACEM.
Ma qualche volta ho l'impressione di essere a teatro, quando la sera
illumino la sala, metto a posto i tavoli, comincio il servizio, la scena si
ripete: Buonasera, state bene, cosa volete mangiare? e da bere? (...)
Grazie... grazie... grazie... oggi è buono... è delizioso... chi l'ha
preparato?... il conto per favore... arrivederci....
Ma è questa l'autogestione? "Voi credete di vivere in autogestione, ma vi
gestite in un sistema capitalista, con i vincoli fiscali, i prezzi di
mercato, i salari, le cariche sociali, la chiusura obbligatoria all'una,
ecc.... ma questo è autosfruttamento". Quel che facciamo alle "Tables" non è
forzatamente o completamente autogestione, noi non abbiamo eliminato i
rapporti mercantili, i poliziotti per la strada, e il proprietario del
nostro locale a cui paghiamo attraverso un ufficio, l'affitto ogni
trimestre, da bravi cittadini. Non abbiamo eliminato l'esercito, il nostro
compagno recentemente chiamato militare non ha potuto dire: "io vivo in
autogestione e quindi non faccio il soldato". Certo, non abbiamo costruito
un paradiso in cui vivere col sorriso sulle labbra e il cuore in gaudio. Se
assistete a qualche riunione, potrete sentire gli urlacci, i rimproveri che
si fanno, direttamente o no, potrete anche pensare che la nostra
autogestione presunta sia limitativa e non sempre felicissima.
Ma, se si considera l'applicazione di certi principi autogestionari:
rotazione degli incarichi, decisioni collettive ed unanimi, uguaglianza dei
salari per uguali servizi effettuati, lotta contro un eventuale creazione di
un capo imperituro, di burocrati o tecno-burocrati, esperti in contabilità o
in culinaria o in ambedue contemporaneamente, ricerca dei mezzi per poter
decidere insieme senza escludere le opinioni di ognuno di noi; allora si può
dire che il nostro lavoro, il nostro esempio è significativo, in ragione del
nostro avvicinamento evidente con l'autogestione.
L'ideologia o il mio timone nascosto
La mia partecipazione, il mio lavoro alle "Tables", non sono senza un
contenuto ideologico. Le mie idee anarchiche sulla vita e sul lavoro mi
hanno aiutato moltissimo a livello di discussione, nel momento delle
decisioni di fronte a differenti possibilità. Esse si sono manifestate come
rifiuto, che ritengo salutare rispetto a certi comportamenti elitistici e
riformisti.
Certi non vedevano, come garanzia della continuità del ristorante, che la
sua riuscita economica e proponevano di conseguenza le soluzioni, a volte
contrarie a tutti i principi di autogestione: in quei casi, le mie idee
creavano una specie di barriera. È vero che la garanzia di sopravvivenza è
dovuta alla situazione economica. Ma credo che la nostra riuscita sarà
soprattutto la realizzazione di una gestione collettiva, di questa specie di
autogestione parziale della nostra vita.
Lavorare senza padrone: alcuni non ci credono neppure. Partecipare tutti
alla vita/attività nella quale ci si trova è difficile e necessita di un
investimento importante sia fisico che intellettuale. Anche se farsi carico
del proprio lavoro, non attendere le decisioni dei capi è una ginnastica
dura da seguire, essa ci permette alla fine di sentirci più forti
individualmente e collettivamente. Ma se l'ideologia è servita da timone,
essa è stata ed è a volte un ostacolo che non mi permette di vedere
chiaramente come applicare le mie idee a problemi molto precisi: la
contabilità, ad esempio, la presenza sociale, l'effettiva partecipazione di
tutti i membri del collettivo alla gestione del ristorante. Avendo già
parlato prima della contabilità, pur senza averne potuto approfondire i
termini, analizzo ora gli altri due problemi.
La presenza sociale
La presenza sociale: io e altri membri del collettivo pensiamo che
sarebbe opportuno e anche necessario partecipare ed essere attivi al di
fuori del ristorante, in quanto collettivo delle "Tables", ma è difficile
sapere come fare. Ultimamente, siamo stati invitati a partecipare ad una
campagna contro la legge sulle "affissioni selvagge", ma non essendo ancora
incominciata questa campagna, non possiamo dire quali saranno gli effetti e
le reazioni che la nostra partecipazione in un contesto politico-sociale
produrrà in quanto ristorante. Ad ogni modo, noi non abbiamo un'etichetta
precisa di fronte alla gente e non vogliamo nemmeno imporne una. La nostra
attività parla per noi alla gente che ci conosce.
Alcuni articoli comparsi su diversi giornali come Liberation,
Antirouille, Autrement, La gueule ouverte hanno cercato, purtroppo con
spirito troppo giornalistico o aneddotico, di fare conoscere la nostra
esperienza. Ma questi articoli non hanno cercato di approfondire il problema
dell'Autogestione, gli aneddoti, gli stereotipi del marginalismo, del punk
non hanno aiutato a fare comprendere veramente quel che accade nel
ristorante. Secondo me, il lavoro più serio che è stato fatto, è la tesi,
avente come tema "Les Tables", preparata da due compagni (vedi nota 2). "Les
Tables" in effetti interessano parecchia gente.
Ciò significa forse che non si cerca solamente un rapporto col cibo, ma
anche qualcosa d'altro, che appartiene al campo della psicologia sociale e/o
del movimento alternativo: autogestionario et similia. La difficoltà di
rappresentarsi socialmente in quanto ristorante, ma anche come collettivo di
lavoratori che ricerca un'altra forma di vita e quindi di lavoro, è anche
dovuta alle differenze ideologiche o semplicemente umane tra i membri del
collettivo. Tuttavia, se queste differenze sono enormi allorché ci si vuol
dare un'etichetta ben precisa, sono molto meno appariscenti nella nostra
pratica quotidiana. Naturalmente, ci sono spesso dei discorsi antitetici nel
momento delle riunioni, certo i modi di prendere le decisioni, il modo di
ricevere i rappresentanti, di "servire la gente", di accettare gli altri,
ecc.... non si rassomigliano. Ma la volontà comune (quanto meno a livello di
parola) a tutti i membri del collettivo, è di far funzionare un posto in cui
non ci sono padroni, in cui si cerca collettivamente di risolvere tutti i
problemi e di instaurare dei rapporti differenti tra quelli che vi lavorano
e quelli che vi vengono a mangiare.
Ma davvero partecipano tutti?
Questa partecipazione, benché ricercata e voluta da tutti, è ancora
lontana dall'essere effettiva. Prima di dilungarmi su questo problema, devo
precisare che quando si parla di qualcosa (in quest'occasione del
ristorante) si esprime molto sovente, la propria visione delle cose e
proprio in questo articolo quel che io ho scritto finora non sarà forse
approvato dagli altri membri del collettivo. Così, sostenere che tutti i
membri del collettivo non partecipano effettivamente alla dinamica del
ristorante, può esser un'impressione personale. Che giudizio dare del
comportamento altrui? Che giudizio dare di questa partecipazione o non
partecipazione? Lavorare, essere presente alle riunioni, non basta. Bisogna
esprimersi, bisogna parlare. A volte m'è venuto di chiedere ai
compagni-compagne di intervenire nella discussione, di esprimere le loro
opinioni e questa richiesta è stata interpretata come un "obbligo" ed ha
avuto come effetto un "blocco".... Il fatto che 4 o 5 persone monopolizzino
la parola (vedi la tesi) per delle ore, si correggano, si scaldino, gridino,
crea nelle riunioni un'atmosfera in cui si vedono profilare dei leaders.
Tutti partecipano, ma alcuni più degli altri (mi ricordo il "siamo tutti
uguali, ma alcuni più degli altri") o meglio, differentemente dagli
altri. La nostra cultura, la nostra vita al di fuori del ristorante è
diversa e in modo diverso si sentono le cose. Nascondere il fatto che i
problemi del ristorante non sono solamente economici ed organizzativi, ma
anche socio-politici, significherebbe essere caduti nell'indifferenza.
Seguire un'idea o un'altra, sull'aumento dei prezzi, sul "muro democratico"
(la parete riservata all'affissione libera nel ristorante); sulla decisione
da prendere nei riguardi di quel che ci scoccia; sui rapporti da tenere con
le autorità locali (amministrative, politiche, repressive); coi partiti, i
sindacati, i vari gruppi politici, sono anch'esse decisioni importanti,
secondo me, altrettanto che lavorare bene. A causa della nostra diversità,
della nostra proposta alternativa, della nostra volontà autogestionaria.
Dico ancora noi, ma non è un noi reale, collettivo. Penso che certe persone
lavorino alle "Tables" perché è un posto simpatico, con dei rapporti di
lavoro relativamente tranquilli; perché il ristorante rappresenta una
"famiglia", un luogo in cui si può fare qualcosa (è forse un modo
d'esprimersi). Questi atteggiamenti non sono negativi in sé e ci insegnano
moltissime cose sul bisogno di vivere diversamente, anche se mi sembra che
esse siano limitative e che creino spesso una frattura nel ristorante.
Come riparare questa frattura? Già le discussioni del lunedì e l'importanza
che alcuni tra noi danno all'intervento di tutti ai dibattiti, serviranno
forse a fare evolvere le cose. Così, gli articoli, gli studi comparsi sulla
nostra esperienza di lavoro porteranno, ne sono sicuro, i membri del
collettivo ad una maggiore riflessione su quello che si sta facendo. La
ricerca di una struttura interna basata su dei principi autogestionari,
struttura che è lontana dall'essere interamente delineata, ci porterà ad
apprezzare di più certe mansioni e alla possibilità-dovere di intervenire
tutti e direttamente quando si porranno dei problemi.
(1) In questo articolo non mi pongo la domanda politico-ideologica: "l'autogestione è possibile in un sistema economico e sociale di tipo capitalista?". Queste pagine vi mostreranno semplicemente degli aspetti del lavoro collettivo autogestito in una piccola impresa quale è il ristorante "Les Tables Rabautes".
(2) Tesi di psicologia sociale sulle "Tables Rabautes" di CorinneTraverso e Anne Champagne. Una tesi molto interessante, che anche se contiene qualche inesattezza (di secondaria importanza) costituisce un lavoro serio fatto sul ristorante nella primavera '79. Si deve sottolineare anche che io ho letto il lavoro alla fine di agosto del '79 e mi sono reso conto che i cambiamenti di vita - struttura - organizzazione del lavoro si susseguono ad una velocità tremenda. Così, quel che ho scritto in questo mese di agosto, sarà forse superato alla fine del '79...
(3) Perché ci sono dei volontari? La nostra politica sarebbe di dichiarare tutti quelli che lavorano; ma ci sono dei volontari che lavorano e che hanno lo stesso statuto degli altri lavoratori all'interno del collettivo per quel che concerne le mansioni...
(4) Occorre precisare che altri ristoranti gestiti collettivamente esistono in certe città come Parigi, Nimes, Bordeaux, Nizza, Nantes, ecc... e che ci sono state già due riunioni a livello nazionale, in cui si sono incontrati una dozzina di ristoranti, e che ci sono stati tra di noi degli scambi di lavoro.
(5) Questo gruppo se ne è andato dalle "Tables" per la sola ragione che cercava un locale più disponibile per le riunioni del gruppo.