Come tutte le forme
politiche la democrazia non esiste in natura, ma è una squisita creazione
umana, un tipico prodotto culturale che fu pensato e cominciò a prendere
forma a civiltà pienamente compiuta: in Grecia, nel momento del massimo
splendore della civiltà ellenica.
I primi a sviluppare una riflessione ampia ed approfondita furono Platone ed
Aristotele ed entrambi, non a caso, ne diedero un giudizio sostanzialmente
negativo. Platone, per il quale la miglior forma di governo è quella
aristocratico/filosofica, vede la democrazia come la meno buona delle forme
buone e la meno cattiva delle forme cattive e la definisce “governo del
numero”, o “governo dei molti”, o ancora “governo della moltitudine”.
Aristotele invece la presenta come una delle tre possibili forme del
governo, secondo la tripartizione classica costituita da monarchia (di uno
solo) oligarchia (di pochi) democrazia (di tutti), considerandola una
degenerazione dell’ideale politeia, che corrisponderebbe al governo armonico
della maggioranza nell’interesse di tutti.
Penso che sia Platone che Aristotele ne avevano una visione negativa perché,
oltre alla loro personale considerazione delle cose, furono influenzati dal
funzionamento della democrazia ateniese. Tutti gli uomini liberi della città
si radunavano nell’Agorà e tutti insieme prendevano le decisioni in grandi
assemblee di popolo. Ad Atene la quantità assembleare poteva raggiungere
attorno ai 5000 individui, cifra ragguardevole per quei tempi. Al di là
dell’atto formale, non poteva che essere una condizione altamente
problematica, perché era praticamente impossibile che tutti potessero
esprimersi compiutamente e liberamente. Per farlo c’è bisogno di situazioni
che favoriscano la comunicazione diretta, che non riesce a manifestarsi
nelle grandi quantità. Aristotele denuncia che vi trionfava facilmente la
demagogia, che falsava la limpidezza delle decisioni facendo emergere chi
aveva l’abilità di imporsi sugli altri ottenendone il consenso.
Ciò che per noi è di grande importanza è che viene introdotto il concetto e
la visione che per il popolo sia possibile governarsi da solo, senza più
essere governato. Lo svela con chiarezza la stessa etimologia della parola
con cui i greci la definirono: demos, che equivale a popolo, e kratos, che
equivale a potere. Potere del popolo. Quindi il popolo, che comprende
indistintamente tutti i componenti della società, in democrazia è l’unico
titolare del governo di sé, è cioè l’unico vero e legittimo detentore della
sovranità e della titolarità di decidere su ciò che lo riguarda. Questa e
non altra è la base concettuale su cui si fonda il senso genetico della
democrazia, la quale in origine fu appunto pensata, concepita e sperimentata
nella convinzione di realizzare il governo di tutti.
Dobbiamo passare al medioevo, con Marsilio da Padova, per trovare un’analisi
approfondita capace di chiarire il concetto di sovranità e di introdurre
quello di rappresentanza, distinguendo tra titolarità ed esercizio del
potere e creando una separazione tra l’una e l’altro. Il titolare del potere
sovrano resta sempre il popolo, mentre l’esercizio del potere è demandato ai
suoi rappresentanti, che vengono eletti con un mandato revocabile ed hanno
il compito specifico di eseguirlo. Si introduce così nella democrazia il
principio della separazione del potere. Il concetto iniziale, che si
rifaceva alle decisioni assembleari, si è dilatato e ha cambiato di qualità.
L’esercizio del potere non avviene più direttamente, in prima persona, ma
per seconda persona, delegata a farlo da una quantità definita di individui
che accettano di essere rappresentati. In questa visione però il
rappresentante deve rispettare il mandato perché se non lo fa è revocabile.
Dopo la stagione ateniese bisogna arrivare alla rivoluzione francese,
preparata culturalmente dal secolo dei lumi, che, dopo aver scardinata la
monarchia e il regime delle caste per censo, mise in moto le istanze
popolari dal basso e preparò il terreno affinché prendesse piede la visione
liberaldemocratica, quale superamento contemporaneo della logica e dello
strapotere dei nobili impostisi col feudalesimo fin dal medioevo. Con
alterne vicende c’è poi voluto più d’un secolo e mezzo affinché nell’intero
occidente si stanziasse e diventasse stabile in modo irreversibile
l’istituzionalizzazione di regimi democratici, unica realtà vigente anche là
dove formalmente esistono monarchie o stati nobiliari, i quali sono ormai
solo rappresentanze di facciata temperate, espropriate dell’antico potere da
costituzioni democratiche a tutti gli effetti.
Purtroppo ciò che ha preso avvio e si è stabilizzato, diventando fatto
compiuto, è ben lontano dai presupposti di senso per cui originariamente era
stata concepita, cioè la messa in opera di forme decisionali capaci di
restituire veramente il potere alla conclamata legittima sovranità popolare.
Fin dal momento in cui il popolo aveva bussato con forza alle porte,
dimostrando di voler finalmente contare seriamente, i nuovi poteri borghesi
emergenti, che avevano contribuito alla vittoria della rivoluzione per
decapitare una monarchia tremebonda che li umiliava, presi dalla paura di
perdere immediatamente i nuovi privilegi acquisiti, si resero conto che non
potevano permettere né la costituzione né l’istituzionalizzazione di
un’autentica gestione dal basso. Dovevano andare incontro alla richiesta
popolare e, nello stesso tempo, garantirsi l’instaurazione del nuovo potere,
eteronomo al pari di quello abbattuto, ma che, a differenza di quello,
avesse l’apparenza dell’autonomia come a gran voce richiedevano gli eventi.
Trascinati dalla richiesta popolare di istituire un nuovo assetto politico
sociale che avesse le caratteristiche della democrazia, cioè di una
partecipazione del popolo attiva e verace, misero in atto forme di
mistificazione del consenso, con un’operazione culturale e istituzionale di
progressiva deprivazione di senso, per preparare una sostituzione di senso.
Se avessero permesso al popolo di avere il controllo effettivo delle
decisioni attraverso gli organismi che si era creato spontaneamente non
sarebbe stato possibile imporre un potere in grado di ridefinire la nuova
forma di dominio. È fatto di storia: in ogni rivoluzione che ha imposto una
svolta, da quella francese a quella russa, si sono imposti nuovi poteri
castrando le strutture popolari sorte spontaneamente (club, comitati,
consigli, soviet) che avevano definito in vera autonomia l’ambito e i modi
del proprio intervento.
Tolto con spudorata finezza sofistica il vero e autentico controllo di base,
ogni rappresentanza cessa di rappresentare veramente, mentre acquista la
supremazia di un potere separato che al contempo è legittimato a decidere
indipendentemente e al di là di chi lo sceglie per essere rappresentato. Se
la delega, come supposto nelle analisi medioevali, non viene supportata da
un mandato revocabile, che sia veramente un mandato ben definito e veramente
revocabile, da delega tecnica si trasforma de facto in mandato di potere,
per cui non ti delego più a rappresentare la comune volontà delegante, ma ti
eleggo dandoti il potere di decidere al posto mio. In questo modo la
rappresentanza prima impoveriva il proprio senso originario, per poi
sostituirlo con un altro completamente diverso che lo negava ed affossava.
Inventata per ripristinare la divisione gerarchica del comando, su queste
ceneri del principio diretto nasceva la democrazia rappresentativa,
eliminando tutte quelle forme che permettono l’esercizio effettivo del
potere decisionale popolare, come le deleghe con mandato, il controllo sui
mandati e la revocabilità immediata nel caso che il mandato non venga
rispettato.
Da allora, nel tempo e con l’esperienza, hanno preso forma di pensiero e di
molteplici esperimenti tre modi, diversi fra loro fino alla
contrapposizione, che si collegano al principio democratico pensato in
origine: che cioè il popolo possa essere e sia in grado di governarsi da
solo senza essere governato. Può anche essere inteso come un percorso
lunghissimo e molto intricato verso la meta, sempre presente nei sentimenti
più reconditi, di un’autentica emancipazione dall’imposizione, dalla
costrizione, dalla non libertà. Non è affatto semplice, né tantomeno
lineare, scrollarsi di dosso le logiche e il senso del dominio, che dal
tempo dei tempi hanno preso forma dominante nella costruzione del controllo
di tutti gli ambiti delle relazioni umane, ma che continuano a non
soddisfare e a generare l’esigenza della rivolta e della non rassegnazione.
Il primo modo è quello dominante, sotto gli occhi di tutti e che tutti,
volenti o nolenti, dobbiamo subire e ad esso conformarci. È la democrazia
rappresentativa, che istituisce nei parlamenti nazionali l’organo del potere
decisionale, i quali affidano l’esecuzione delle proprie decisioni a
strumenti d’imposizione, di controllo, di coercizione. Le relazioni sociali
vi vengono regolate attraverso la definizione di obblighi e divieti, che
devono essere rispettati se non si vuole incorrere in sanzioni, più o meno
pesanti a seconda del reato. Le leggi non vi sono più sancite per volontà
arbitraria di un monarca o di oligarchi con potere inappellabile, ma da
apparati istituzionali, impersonali e strutturati burocraticamente. Tali
istituzioni si giustificano con la filosofia di essere al servizio dei
cittadini, che li delegherebbero a comandarli per realizzare un presunto
“bene comune”.
È intuitivo che se sono al servizio non vivono una relazione partecipata con
i cittadini, gli utenti cui erogano i servizi per cui si sentono demandati.
La democrazia rappresentativa si regge così su un potere separato, non
partecipato, come invece pretenderebbe teoricamente. Non vi è infatti che un
unico momento di partecipazione, quello elettorale del voto, che però ha
l’unica funzione istituzionale di definire una delega di potere. Il problema
di fondo della sua incongruenza rispetto ai presupposti originari risiede
nelle premesse su cui trova fondamento.
Essa è stata impostata in modo tale da garantire un potere centralizzato
demandato a decidere ed al contempo un consenso di base che lo legittimi. La
preoccupazione principale di chi l’ha pensata e impostata non era come far
si che la base trovasse il modo di essere direttamente partecipe alle
decisioni comuni, bensì di mantenere le distanze tra i decisori e gli altri,
assicurandosi al contempo che i cittadini, fruitori passivi delle decisioni,
partecipassero limitandosi a scegliere chi lo doveva fare. Così in
democrazia rappresentativa si sceglie chi deve avere il potere senza
condividerne le funzioni, contrariamente agli intenti originari che avevano
invece la preoccupazione di realizzare la condivisione delle funzioni
decisionali. In altre parole, col rito generalizzato del voto non si chiede
agli elettori di partecipare al governo che ci riguarda tutti, ma di
designare collettivamente l’oligarchia di comando cui tutti poi dovranno
sottostare. Gli eletti non hanno un mandato tecnico cui devono rispondere,
bensì sono insigniti del potere di governare senza mandato di alcun tipo. È
per questo che, correndo il solo rischio di non esser più rieletti la volta
successiva, si possono permettere di non mantenere le promesse che fanno in
campagna elettorale.
Il secondo modo è la democrazia partecipativa. Concezione recentissima, è
sgorgata con discrezione all’interno dei new-global, il movimento di
contestazione globale del capitalismo neoliberista, ovviamente concepita
dall’ala che ci piace definire neoriformista, perché è ancora convinta che
si possa agire all’interno delle regole del sistema che dichiara di voler
affossare. La sua non casuale denominazione ha lo scopo precipuo di
distinguerla dalla vigente democrazia rappresentativa ed intende
sottolineare, fin dall’atto della propria definizione, che il carattere
specifico che la distingue è appunto la partecipazione.
Già qui c’è una prima incongruenza teorica. La democrazia in quanto tale,
infatti, si definisce e si qualifica per la qualità e il tipo di gestione
messi in campo, indipendentemente dalle forme procedurali prescelte e,
proprio per la concettualità che esprime, deve comunque essere esercitata
dall’insieme societario. La partecipazione così è un elemento indispensabile
e non può che essere già compresa nella realizzazione e nel concetto
originari. A livello di definizione perciò non potrebbe esistere una
specifica democrazia partecipativa distinta da altre forme di essa, in
quanto, a rigor di logica, non può che essere sempre partecipata, altrimenti
non può che essere qualcosa d’altro. Ciò che distingue la tipologia
democratica non è la partecipazione, bensì il tipo di decisionalità, perché,
comunque intesa, per poter esserci presume sempre da un minimo ad un massimo
di partecipazione. Se ha dunque senso parlare di democrazia rappresentativa
e all’inverso di democrazia diretta, non ne ha affatto riferirsi ad una
presunta nuova definita partecipativa, in quanto qualsiasi democrazia non
può che essere sempre partecipata in qualche modo.
La teoria partecipativa della democrazia ha origine da esperienze di
gestioni locali in Brasile, in particolare nell’ormai simbolica Porto Alegre
che ne è diventata il centro irradiatore, che però con le ultime elezioni ha
perso il governo di sinistra, per cui l’esperienza è di fatto andata a
puttana. I social forum di tutto il mondo, che erano alla ricerca di nuove
forme di rappresentanza capaci di diventare modello per sé e per il mondo
intero, non potendo accettare in toto nella sua essenza il messaggio e le
modalità gestionali del Chiapas perché troppo rivoluzionari, una volta
entrativi in contatto se ne sono innamorati e l’hanno fatta propria. Ma è
proprio indagando nelle modalità pratiche di funzionamento brasiliane che i
suoi insiti limiti saltano evidenti.
Il presupposto su cui si fonda l’esperienza brasiliana è quello dell’ascolto
di organismi popolari da parte dei poteri costituiti. La partecipazione
popolare promossa è soprattutto un modo di gestire lo stato tentando di
rimanere in relazione con gli abitanti. Di fatto, un continuo esercizio di
tolleranza per i rappresentanti istituzionali, i quali stessi affermano che
si tratta di uno spazio di dialogo per discutere con gli abitanti sulle
trasformazioni importanti del territorio che riguardano tutti, non per
decidere insieme a loro. Decideranno poi se tener conto dei suggerimenti che
ne potrebbero scaturire in base alle loro sensibilità e disponibilità. Iria
Charão, assessore dello stato di Rio Grande do Sul, sostiene che
«formalmente questi istituti partecipativi non potrebbero avere che un
potere consultivo: sta al patto d’onore tra istituzioni e cittadini renderli
realmente dei “centri di deliberazione”, le cui decisioni abbiano valore
vincolante…»
Non abbiamo perciò la costruzione di organismi e strutture popolari di base
finalizzate a tentare di mettere in piedi il governo della città gestito dai
cittadini stessi. Le strutture e gli organismi decisionali, invece, sono
sempre quelli che abbiamo ora, eletti con le stesse identiche procedure
partitocratiche e clientelari. La differenza risiede nell’ipotesi di
riuscire a mettere in piedi organismi collaterali, con la capacità e la
possibilità di affiancare il normale lavoro dei tradizionali e usurati
centri di potere, in modo da venir loro in aiuto per non esser sganciati
dall’umore e dalla volontà dei cittadini che dovrebbero rappresentare. In
altre parole, è la messa in opera di una condivisione consultativa tra gli
organismi dirigenti ed i diretti, in modo tale che gli elettori vengano
coinvolti direttamente nella responsabilità decisionale, rimanendo però
esclusi dalle decisioni. Una truffa politica insomma, che prima illude e poi
inevitabilmente delude.
Il terzo modo è la democrazia diretta. Non mediata e non filtrata da
rappresentanze e deleghe di potere di alcun tipo, annulla totalmente la
separazione di potere tra chi ha la facoltà di decidere, i decisori, e tutti
gli altri, fruitori delle decisioni, i cittadini cui sono destinate. La
modalità tecnica fondamentale di applicazione della democrazia diretta è
l’autogestione, o autogoverno, che si esplica nell’autonomia condivisa da
tutti i componenti la società, secondo un rapporto di completa parità e
reciprocità, per l’esercizio della funzione di governo, cioè per gestire le
decisioni che riguardano l’intera collettività di appartenenza e le loro
applicazioni.
Con la democrazia diretta, in uno stato diffuso di autogestione, non ha più
senso l’istituzione di ruoli gerarchici, in quanto non hanno più senso le
relazioni di comando-obbedienza e di imposizione-subordinazione. Ciò che ne
definisce il senso e la coerenza non sono le formule procedurali né tanto
meno le strutture burocratiche, ma il metodo, secondo il quale la
partecipazione a tutti i momenti e a tutte le fasi di decisione e di
realizzazione non è costretta, ma sentita e voluta, non è imposta, ma
pensata e discussa sulla base di un confronto paritario che coinvolge tutti,
e soprattutto non è legata e condizionata da interessi di parte perché c’è
spazio solo per la convergenza degli interessi e delle differenti volontà.
Le procedure e le modalità applicative della democrazia diretta non possono
essere rigide, dal momento che dipendono dalla decisione comune degli
individui che vi partecipano. Per questo sono sottoposte a continue
verifiche e possibilità di cambiamenti, sempre però all’internodi prese di
decisioni condivise e secondo il presupposto della consensualità, anche
quando si verifichino divergenze che non trovano accordi di realizzazione.
La guerra nasce quando la divergenza è vissuta come conflitto
inconciliabile, quando le parti si sentono l’una nemico dell’altra e sentono
perciò il bisogno d’imporsi l’una sull’altra attraverso uno scontro
risolutivo per cui chi vince sottomette chi perde. Ma quando i contendenti
hanno la possibilità di sperimentarsi entrambi contemporaneamente, oppure di
discutere fino ad arrivare ad un appianamento, oppure di non partecipare se
non sono d’accordo senza per questo mettere in discussione i presupposti
della convivenza, allora le divergenze perdono l’aspetto della
conflittualità inconciliabile per assumere quello del confronto dinamico e
problematico, che può esistere e funzionare solo all’interno di un contesto
che non sia rigido, ma perennemente sperimentale e autocorrettivo.
Forme e situazioni di autogestione ci sono sempre state e ci sono tuttora in
ogni parte del mondo (comitati, collettivi, consigli, soviet, club e gruppi
politici rivoluzionari). Sono sorte e sorgono ogniqualvolta gli oppressi
hanno la possibilità, la forza e la volontà di emanciparsi dal giogo della
sottomissione, anche solo per brevi periodi. Essendo dirompenti e
contrastanti con gli assetti politici vigenti, sono costrette ai margini e
delegittimate dai poteri costituiti. Per loro natura si pongono in maniera
tale che mettono in discussione le vigenti strutture di potere, hanno cioè
in sé il germe della rivoluzione sociale. Per questo, se non intervengono
rivolgimenti generali e generalizzati, hanno sempre una durata limitata e, o
vengono assorbite e normalizzate dal sistema perdendo il senso e la
propulsione per cui si distinguevano, smettendo anche di essere autentiche e
innovative forme di autogestione, o esauriscono la loro funzione sovversiva
e concludono l’esperienza.
Anche dove erano riuscite ad essere forma istituente della società che si
autogoverna, come nelle rivoluzioni francese, russa e spagnola, appena i
nuovi poteri statali si sono insediati le hanno affossate,
istituzionalizzate e inglobate, annullandone l’impatto rivoluzionario e
riducendole a istituti impossibilitati ad autogestirsi. Se la gestione dal
basso, diretta e non mediata, prende piede e diventa forma istituita
funzionante e diffusa, la centralizzazione statale perde senso e scompare,
proprio perché riesce ad esserci solo quale alternativa inconciliabile con
le logiche burocratiche e centralizzatrici statuali.
La democrazia diretta autogestionaria è dunque la realizzazione più radicale
e conseguente dell’assunto originario su cui si fonda il concetto
democratico: il potere del popolo, ovvero il popolo che si governa da solo
senza essere più governato. Gli altri due modi d’intenderla ne travisano il
senso e la trasformano o nel suo contrario o in mostri concettuali
snaturanti. La democrazia rappresentativa, attraverso l’alibi della
rappresentanza per delega elettorale, ha ripristinato in pieno il potere
separato e le strutture gerarchiche del comando, annullando di fatto ogni
possibilità di vera partecipazione alla decisionalità dal basso. La
democrazia partecipativa, quasi via di mezzo tra rappresentanza e
autogoverno, rendendosi conto che la rappresentativa è il fallimento più
completo di una democrazia autentica, non mette in discussione la
rappresentanza elettorale e le sue strutture separate, mentre, in una logica
e con degli intenti che considero conservativi, cerca di ravvivarla e di
salvarla con momenti di consultazione popolare che lasciano intatto però il
potere separato.
Il fatto è che i sistemi vigenti, cosiddetti democratici, in realtà non
funzionano, perlomeno dal punto di vista dei presupposti per cui il “potere
del popolo” è stato concepito. La distanza tra il basso che elegge e l’alto
che viene eletto è sempre maggiore, ormai una vera e propria separazione
incolmabile. Funzionano invece molto bene dal punto di vista della
centralizzazione del potere separato. Nella situazione attuale fra l’altro,
dove vige un capitalismo liberista globale in grado di condizionare
ampiamente stati e governi, anche i rappresentanti delegati si trovano
sottoposti e sono costretti a scelte determinate da occulti poteri forti e a
rispettare condizioni oggettive da cui non possono prescindere, se vogliono
mantenere la poltrona conquistata. Nel mondo globalizzato la distanza è
veramente abissale e le democrazie in atto, invece di realizzare il
superamento della separazione tra chi è governato e chi lo governa, com’era
nei presupposti per cui sono sorte, non fanno altro che contribuire
all’aumento di questo fossato, al punto che ormai è impossibile riuscire a
vedere l’altra sponda.
Ma l’illusione sta crollando. L’obsoleto popolo, che oggi preferisco
chiamare l’insieme di quelli che non contano, che sono la stragrandissima
maggioranza degli individui, anche quando segue con brava costanza tutti i
rituali dell’integrazione nel sistema è sempre più secolarizzato e si fida
sempre meno dell’empireo della politica che incombe dall’alto su tutti.
Quelli che non contano sono sempre più insubordinati. Con sempre maggior
frequenza formano comitati e collettivi autonomi di cittadini contro gli
inceneritori, le discariche, le centrali a combustione ed ogni altra
nefandezza che i poteri costituiti cercano d’imporre, oppure si ritrovano in
centri sociali e luoghi di aggregazione politica e culturale sganciati dagli
stereotipi istituzionali. È iniziata una rivolta underground, i cui confini
e il cui senso non sono ancora chiari, ma che denota con chiarezza
l’emergere di bisogni mai sopiti di autentica autonomia da un politico
opprimente che non ha nessuna intenzione di riconoscerla.
Bisogna attivare dei processi di autogestione e di sperimentazione
libertaria, fino a riuscire a creare una società nella società, fino a far
si che la società emergente scalzi e si sostituisca a quella esistente ora.
La modificazione radicale dei sistemi decisionali in senso libertario è
fondamentale per la realizzazione di una nuova società possibile. Il potere
di decidere dev’essere espropriato e, senza trucchi né fraintendimenti,
trasferito dall’alto delle oligarchie parlamentari al basso delle
collettività. Ogni compromesso tra la democrazia diretta, gestita
direttamente dalla società, e quella parlamentare, gestita dagli eletti cui
il mandato decisionale ha dato il potere, è destinata a diventare
esclusivamente uno strumento in mano alla seconda.