Violenza è
sostantivo che deriva dal verbo violare, il quale indica
un’azione capace di alterare significativamente lo stato
d’integrità di altri esseri viventi, di assetti, di
cose, ecc. È intuitivo che in politica la parola
violenza è strettamente connessa a sopraffazione,
imposizione, coazione, prevaricazione. In questo senso è
anche strettamente connessa all’azione dei detentori del
potere, che da sempre ricorrono all’uso della forza, sia
legittimo sia illegittimo dal punto di vista giuridico,
al fine di esercitare il dominio di cui sono detentori.
Nell’esercizio del potere politico l’uso della violenza
è infatti sistematicamente legato al bisogno
d’imposizione del volere dominante, che è una delle
ragioni di fondo per cui gli anarchici, che sono tali
perché aspirano ad una convivenza sociale e collettiva
fondata sulla libertà reciproca, in cui quindi la
violenza sia bandita nella gestione dei rapporti e delle
decisioni, pensano ed agiscono per realizzare società
nelle quali non esistano più forme centralizzate e
gerarchiche di potere politico.
Di primo acchito, lo sguardo su come vanno le cose del
mondo ci sbatte brutalmente in faccia una constatazione
ineludibile: il divenire quotidiano di cui, volenti o
nolenti, siamo partecipi e, molto più spesso di quanto
ci piacerebbe, protagonisti, senza possibilità di dubbio
è scadenzato dalla violenza, più precisamente è
impregnato di violenza. Lo è nei rapporti obbligati e
obbliganti della burocrazia, nelle relazioni con gli
apparati, nella cultura del potere che con sistematica
determinazione definisce la qualità e la quantità delle
imposizioni di cui è detentrice e portatrice, nella
forza organizzata ed armata di tutto punto dei
militarismi che giustificano le loro pretese con l’alibi
di darci sicurezza e di garantire la conservazione delle
libertà democratiche, nello sfruttamento sistematico e
micidiale di milioni di esseri umani ricattati dalla
fame e dalla miseria cui sono costretti, nella reattiva
voglia di riscatto e nel sacrosanto bisogno indotto di
ribellione che raramente riesce a tramutarsi nel piacere
della ribellione. I bollettini d’informazione, con
immagini e con parole, ci mettono quotidianamente di
fronte ai cimiteri di cui senza sosta è costellato il
pianeta dove alberghiamo noi umani.
Problema non solo
etico
Date per acquisite le considerazioni di cui sopra e
rimanendo nell’ambito della politica, in questo articolo
m’interessa svolgere alcune considerazioni di fondo sul
senso dell’uso di metodi violenti cui possono far
ricorso gli oppressi e gli sfruttati, i sottomessi in
genere, per opporsi ai poteri dominanti, sia come
sacrosanto atto di ribellione contro le sopraffazioni
subite, sia soprattutto spinti dalla consapevolezza del
fine di realizzare principi ed ideali alternativi.
Pur sapendo che rispetto al tema della violenza l’etica
è prioritariamente di casa, per come la vedo io il
problema non è semplicemente etico, o meglio non solo e
soprattutto etico. Bisogna tener presente infatti che,
essendo l’etica a tutti gli effetti un campo minato, è
oltremodo rischioso, ma soprattutto non appropriato,
eleggerla quale unico riferimento fondante per
identificare la validità delle proprie scelte. L’etica
si occupa di ed indaga la giustezza dei comportamenti
umani in riferimento ai due concetti del bene e del
male, i quali non sono affatto scontati a priori, tanto
è vero che nell’identificarli sorgono inevitabilmente
punti di vista non solo diversi, ma facilmente
contrastanti. A ben ragionare, in realtà esistono etiche
diverse, che guarda caso si pongono ognuna in modo
esclusivo, tali che sceglierne una, ovviamente con
ragioni fondate, comporta quasi inevitabilmente
l’esclusione o la condanna di tutte le altre. Esistono
così per esempio più etiche religiose, ognuna
indissolubilmente legata alla religione di riferimento,
un’etica della libertà, un’etica del comando, un’etica
del potere, un’etica della violenza, un’etica della
nonviolenza, ecc. Ognuna ha motivazioni valide e
giustificate, ritenute inoppugnabili da chi le
abbraccia. Nessuna scelta etica viene mai abbracciata in
quanto tale, perché dietro ognuna di esse ci stanno
sempre una o più scelte di senso esistenziale e
filosofico.
In proposito il principale problema di fondo che bisogna
essere in grado di comprendere è se ha senso ciò che
facciamo. Nel caso in questione, se l’uso consapevole e
programmato di forme violente di ribellione contro le
strutture oppressive che ci piacerebbe abbattere sia
funzionale, se cioè sia effettivamente in grado di
sortire effetti consoni e coerenti, anche dal punto di
vista etico, con quei presupposti ideali che dovrebbero
motivare i nostri atti e spingerci a sceglierli.
Per comprenderlo ritengo sia innanzitutto vincolante
chiarirsi bene le ragioni di fondo che possano motivarne
la scelta eventuale. Dobbiamo cioè essere pienamente
consapevoli che prima di scegliere per agire ci è
indispensabile pervenire ad una certezza del senso, dal
momento che qualsiasi azione dichiaratamente e
manifestamente violenta è di per sé portatrice di una
buona dose di potere contro chi viene esercitata, in
quanto a tutti gli effetti tende ad annientarlo, nel
migliore dei casi si limita a sottometterlo. L’uso della
violenza contiene infatti come prerogativa di fondo la
volontà di annichilire l’avversario, di immobilizzarlo,
di punirlo, di assoggettarlo, di renderlo inoperante. E
quale maggior potere c’è oltre la possibilità e la
capacità di annientare? Una simile scelta perciò in
nessun caso può essere presa sottogamba, con leggerezza
o faciloneria, mentre necessita di essere ben meditata
ed adeguatamente vagliata.
Un punto di vista
anarchico
Il mio è un, non il, ma un, punto di vista anarchico.
Quindi contiene le caratteristiche tipiche della visuale
anarchica che, pur essendo parziale, relativa e non
assoluta, come tutte le visuali che non si limitino ad
uno specifico campo d’azione, rappresenta una chiave di
lettura capace di abbracciare valori universali,
proposti con la consapevolezza di una validità
estensibile a tutti ed a tutte le situazioni. Ed il
punto di vista anarchico principe presuppone sopra ogni
altra cosa il rifiuto incondizionato di ogni genere di
sopraffazione di potere e di ogni forma di dominio, in
nome del riconoscimento di fatto di un’eguaglianza
sociale diffusa, di pratiche costanti di libertà e del
ripudio di qualsiasi esercizio della violenza
nell’espletamento delle decisioni e della volontà
collettive, rese operanti attraverso strutture
orizzontali, non gerarchiche e non rigide.
Qual è il problema di fondo rispetto all’auspicabile
possibilità della realizzazione di una futura società
anarchica? A mio modo di vedere corrisponde al
superamento e all’abbattimento delle barriere
storicamente consolidate, strutturali senza dubbio, ma
soprattutto culturali, che mantengono in piedi la
stabilità degli assetti di potere del vigente dominio.
L’istituzionalizzazione del potere in atto, infatti, che
legittima la necessità del comando gerarchico e della
sua esecuzione attraverso l’uso della forza costituita,
ha in sostanza due tipi di giustificazione: 1. la più
antica ed ancestrale è di tipo religioso, secondo la cui
credenza dio o più dei, dal momento che non si fidano
dell’imperfezione umana da essi stessi creata, dall’alto
del loro potere superumano obbligano l’umanità ad
obbedire ad alcuni uomini scelti da loro per eseguire la
volontà divina, rivelata e in genere sancita da sacre
scritture; 2. l’altra, di carattere laico, è l’homo
homini lupus hobbessiano, secondo cui, dal momento
che fin dalle origini dello stato di natura ogni uomo è
ostile agli altri uomini, per poter vivere in sicurezza
e in armonia la società ha necessità di trovare chi la
comanda, capace d’imporre con la forza quell’ordine
indispensabile al vivere comune, che per una diffusa
convinzione altrimenti verrebbe meno.
Il compito degli anarchici allora è quello di proporsi e
di agire per dimostrare e convincere che le motivazioni
storicamente determinatesi, della volontà di dio e della
necessità del comando dall’alto, altro non sono che
semplici credenze umane, imposte e legittimate nel tempo
dalla volontà dei potenti di turno. Non solo sono
eludibili, ma perfettamente sostituibili con una visione
fondata su principi di libertà, su una conduzione delle
cose collettive non governata dall’alto, sulla
possibilità di organizzarsi senza gerarchie di comando e
con forme di gestione orizzontale. Possiamo benissimo
non essere governati, ma autogovernarci, sostituendo il
potere della forza d’imposizione con la reciprocità, la
solidarietà e un’effettiva partecipazione alle
decisioni, che non avranno perciò più la necessità di
essere imposte con la forza e la legittimità giuridica
di corpi armati addetti alla sicurezza ed all’ordine
pubblico, cioè da esecutori della volontà di istituzioni
autoritarie.
Assenza di violenza
Anarchicamente insomma, le cose tendenzialmente
debbono essere decise e fatte col concorso di tutti,
perché non possono e non debbono essere imposte, ma
consensualmente volute da tutti gli individui coinvolti
e componenti la società di riferimento. È uno dei
principi fondanti che ci distingue. Per questo non basta
ed è oltremodo illusorio limitarsi a sopprimere gli
sbirri e chi li comanda. Innanzitutto invece bisogna
riuscire ad eliminare la necessità, interiorizzata e di
fatto, dei loro compiti e della loro presenza. Ciò può
avvenire soltanto sostituendo alla violenza autoritaria
di un governo centrale, che s’impone protetto dagli
sbirri, l’assenza di violenza di forme di autogoverno
libertarie, che non hanno nessun bisogno degli sbirri.
Lo stesso Malatesta lo aveva ampiamente capito e spese
più di un ragionamento per farlo comprendere ai compagni
ed a tutti quelli che erano interessati alle proposte
anarchiche. “La soppressione della costrizione
fisica non basta perché uno assurga a dignità di uomo
libero, impari ad amare i suoi simili, a rispettare in
loro quei diritti che vuole rispettati per sé e si
rifiuti tanto a comandare quanto ad essere comandato.…
Il gendarme non è propriamente il violento, ma è lo
strumento cieco a servizio del violento.” (1)
Ha dunque senso, ai fini della realizzazione delle
proposte politiche anarchiche, l’uso di mezzi e
strumenti violenti per combattere le oppressioni e le
imposizioni degli stati e degli sfruttatori? Val la pena
ed è consono e coerente con i principi di riferimento
mettere a repentaglio la propria vita e quella altrui
per combattere per la libertà? Di primo acchito verrebbe
di rispondere no in ogni caso. “Gli anarchici sono
contro la violenza. È cosa nota. L’idea centrale
dell’anarchismo è l’eliminazione della violenza dalla
vita sociale; è l’organizzazione dei rapporti sociali
fondati sulla libera volontà dei singoli, senza
l’intervento del gendarme.” (2)
In realtà la risposta non è né semplice né immediata né
scontata, come sempre di fronte a questioni altamente
complesse, perché per gli anarchici è fondamentale tener
conto del problema resistenziale. Cioè del fatto che è
immorale subire e non ribellarsi e, oltre che immorale,
è dannoso, in quanto non fa altro che confermare
l’oppressione senza determinare nessuna possibilità di
liberarsene. Per gli anarchici è fondamentale ed
indispensabile insorgere e contrastare la violenza dei
poteri costituiti, ai fini di debellarla ed eliminarla
quale strumento di regolazione politica. “La
violenza è giustificabile solo quando è necessaria per
difendere se stesso e gli altri contro la violenza. Dove
cessa la necessità comincia il delitto... Lo schiavo è
sempre in istato di legittima difesa e quindi la sua
violenza contro il padrone, contro l’oppressore, è
sempre moralmente giustificabile e deve essere regolata
solo dal criterio dell’utilità e dell’economia dello
sforzo umano e delle sofferenze umane.” (3)
Ecco che rientra in pieno la problematica etica. Ma
rientra solo dopo aver definito il senso ed il fine
generali ed universali cui si deve ispirare. Il
riferimento principale cui ispirarsi non è affatto
quello etico, bensì lo scopo ultimo di fondo cui
pervenire, cioè la società autogestita secondo i
principi anarchici della libertà sociale, che diventa
perciò il fondamento di un’etica conseguente. Malatesta
definisce il senso ed i limiti dell’uso della violenza
ai fini del trionfo dell’anarchismo. Essendo questi
contrario alla violenza, ma anche a subirla, è giusto e
giustificato ribellarsi anche in modo violento per
liberarsi dall’oppressione. Però, siccome lo scopo
fondamentale non è la liberazione da questa o quella
oppressione in particolare, ma dall’oppressione in
quanto tale che si fonda sulla violenza, una volta
usatala e raggiunto lo scopo primario di essersene
liberati, l’uso della violenza è bandito del tutto. Non
essendo stato possibile altro mezzo di liberazione, è
stata usata solo per liberarsene quale strumento di
relazione sociale. Strumento quindi esclusivamente di
difesa dal potere del dominio, in quanto tale violento,
ma non di gestione e costruzione sociale. Per gli
anarchici la violenza è antisociale.
Necessità di
difendersi
Malatesta enuncia e formula un principio universale,
capace di dare il senso alla scelta dell’azione: la
violenza è una triste necessità ed è giustificata solo
dalla necessità di difendersi e di non subire. Condivido
pienamente e, ammesso che sia possibile racchiudere in
una formuletta ad effetto una problematica tanto
complessa, mi sento di affermare che gli
anarchici sono antiviolenti senza essere nonviolenti.
Come tutte le enunciazioni di principio, che per loro
natura abbracciano piani di riflessione molto vasti, per
essere ben compresa anch’essa ha bisogno che se ne
identifichi appieno lo spirito ed il senso, altrimenti
c’è il rischio che venga strumentalizzata, se non
addirittura mistificata. A tal uopo vorrei spendere
qualche parola sull’approccio malatestiano, perché
ritengo debba essere contestualizzato ai fini della
comprensione. Il nostro Errico era un convinto
insurrezionalista e lo è stato fino alla fine dei suoi
giorni, anche se nelle sue riflessioni finali cominciò
ad affiorare qualche critica, che però non intacca
minimamente la sua convinzione. Lo è stato sul piano
dell’azione diretta vissuta, ma ancor più sul piano
teorico. Dalla Banda del Matese alla
Settimana Rossa, per citare i fatti storici più
noti, col cuore col pensiero e con grande generosità,
pagando sempre in prima persona, è stato in prima linea
nell’organizzare e portare avanti l’insurrezione
popolare che nelle intenzioni avrebbe dovuto evolversi
in rivoluzione sociale. Come pure ha riempito pagine e
pagine di attenta riflessione teorica per chiarire quale
debba essere l’apporto anarchico alla lotta
insurrezionale, soprattutto proponendo come ci si
dovrebbe comportare in caso di vittoria. Se vi è un
limite al suo pensiero, è riscontrabile nel fatto che in
tutta la sua vita non è mai riuscito ad identificare
altra strada possibile per la rivoluzione che non fosse
l’insurrezione, per cui ogni suo ragionamento segue con
consapevolezza uno schema preciso: per riuscire a
costruire l’anarchia, prima non si può fare a meno di
insorgere, il famoso male necessario da cui non si può
prescindere, per abbattere il sistema di potere
oppressivo.
Ma aveva le idee estremamente chiare su che cosa sia
l’insurrezione cui tendeva. L’insurrezione è il popolo
che insorge, l’insieme degli sfruttati, dei reietti,
degli emarginati e di tutti gli oppressi, i quali, non
più disposti a subire, decidono coralmente di spezzare
le catene e di travolgere i loro oppressori. È vera
lotta di popolo, se necessario guerra di popolo. Nulla
di avanguardistico, di elitario, di minoranza cosciente
che arbitrariamente agisce in nome di. Si è sempre
schierato contro i bombaroli, gli attentatori, gli
imitatori di Ravachol, coloro che, pur con generosità,
di propria mano perseguono lo scopo di attaccare il
nemico, di fargli la guerra che, come tutte le guerre, è
fatta per essere vinta e richiede l’annientamento
dell’avversario. La violenza necessaria è solo quella
della difesa, comprendendo per difesa anche l’insorgenza
per liberarsi dall’oppressione, mentre non può essere
quella che, pur in nome di una volontà di liberazione,
si pone in una logica di guerra d’attacco al nemico per
distruggerlo. Tanto è vero che per lui, ma anche per
ogni anarchico convinto, deve cessare non appena
l’insurrezione sarà riuscita a rendere inoperanti
oppressori e carnefici, proprio per non dar adito ad
orrendi sfoghi di violenza dovuti ad odi e rancori
sopiti che, in preda al delirio della vittoria,
potrebbero esplodere.
Scontro tra poteri
Non è difficile rapportarsi all’oggi, mentre è
crescente un uso dirompente di violenza da parte di
frange sovversive di varia ispirazione. Dalle BR ed
altre formazioni combattenti di casa nostra al
fondamentalismo islamico che agisce a livello globale.
Pur con motivazioni ideologiche diverse, agiscono tutte
seminando terrore, sia tra le fila del nemico che
vogliono colpire sia tra le persone dei territori
colpiti. Secondo i criteri anarchici cui ci stiamo
rifacendo, le azioni violente di attacco sovversivo che
quotidianamente abbiamo davanti agli occhi non hanno
nulla a che fare con una volontà insurrezionale. Per
quanto riguarda l’Occidente mi sembrano invece
espressione di élite militanti, che tentano di
condurre una guerra spietata, sostanzialmente recepita
dalle masse dei popoli che vorrebbero coinvolgere come
indistinta ed estranea. È una guerra loro personale che,
al di là delle intenzioni, in alcuni casi dichiarate in
altri no, ha tutto il sapore dello scontro tra poteri
contrapposti e si svolge sopra la testa
dell’ottocentesco famoso popolo, il quale, invece di
insorgere al loro fianco, guarda terrorizzato e chiede
protezione a uomini forti delle istituzioni vigenti in
grado di contrastarli. Per quanto riguarda l’Oriente e
il Medio Oriente c’è una situazione culturale e sociale
del tutto diversa che andrebbe analizzata a parte con
serietà e qui non è il caso.
Personalmente preferisco non identificare l’insurrezione
come l’unica possibilità rivoluzionaria. Lo trovo
restrittivo e limitante. Anzi, più passa il tempo e più
sono convinto che non sia quella la strada principe da
perseguire, nel senso di non convogliare tutte le forze
e le energie per favorire l’insorgenza di popolo. Dal
mio punto di vista l’anarchia si qualifica per il tipo
di società e per il metodo autogestionario che propone,
non perché si pone innanzitutto contro. Il suo esser
contro è infatti diretta conseguenza del porsi
inequivocabilmente in modo alternativo al dominio. Non
viceversa, per cui saremmo alternativi al dominio come
conseguenza dell’essergli innanzitutto contro. Il che
non vuol dire che sono contrario alle insurrezioni di
popolo. Queste ci saranno sempre fino a quando ci
saranno ingiustizie, oppressioni e sfruttamento. E
quando si scateneranno e ne avrò l’occasione, come ogni
altro anarchico, vi parteciperò con convinzione e farò
la mia parte, perché la rivolta contro le prepotenze del
potere è in sé giusta. Ma la mia consapevolezza mi
suggerisce che non è quella, in quanto tale, la strada
per la realizzazione di una società liberata e libera.
La storia è troppo piena di esempi di insurrezioni
vittoriose in seguito alle quali si sono instaurati
poteri totalitari terrificanti. Per cui so, o penso di
sapere, che la via insurrezionale, di per sé, è del
tutto insufficiente come vero mezzo di liberazione e di
costruzione della società altra cui quale anarchico
aspiro.
Gestione senza
autorità
L’anarchia si qualifica e si distingue per il metodo
d’azione autodecisionale e per il principio di gestione
senza autorità costituita dall’alto che impone il
proprio volere, non per il tipo di rivolta che propugna.
Si è anarchici non perché si sente semplicemente il
bisogno di ribellarsi, bensì perché si vuole costruire
qualcosa di alternativo che abbia il sapore della
maggior libertà politica, sociale ed esistenziale
possibili. Le insurrezioni ed i diversi tipi di
ribellione non sono in alcun modo una specificità
nostra, non ci distinguono. Tutti, compresi i
bolscevichi, gli islamici, perfino i fascisti se
oppressi ed impediti ad esistere, tendono a ribellarsi,
a liberarsi da ciò che li opprime. Ma la loro ribellione
e, quando c’è, la loro insurrezione, hanno un sapore del
tutto diverso dal nostro, addirittura contrario. Essi,
pur con giustificazioni e motivazioni ideologiche e
ideali differenti tra loro, vogliono l’instaurazione di
nuovi poteri forti, assolutisti, totalitari, teocratici.
Si ribellano al potere vigente perché vogliono
sostituirvisi e dominare le genti al suo posto. Noi,
quando riusciamo ad insorgere, al contrario, vogliamo
non solo abbattere il potere vigente, ma ogni altra
forma di dominio, perché vogliamo costruire società
fondate sull’assenza di gerarchie e di poteri dominanti.
Non proponiamoci perciò soprattutto come ribelli ed
insurrezionalisti, ma innanzitutto come amanti fanatici
della libertà, tutta la libertà possibile,
dell’autogoverno, della voglia di non essere governati
dall’alto e di vivere e convivere con gli altri senza
violenze d’imposizione, nella solidarietà, nella
reciprocità scambievole e nell’accordo consensuale più
completi.
Non dobbiamo spaventare, ma essere accattivanti pur
rimanendo inflessibili nella coerenza. Dovremmo invece
creare luoghi di sperimentazione libertaria, dove si
possano vivere e sperimentare forme di autogoverno e di
solidarietà sociale, non all’insegna di un unico
modello, ma di più modelli. Luoghi polivalenti,
policentrici e acentrici, senza gerarchie e burocrazie
all’interno, capaci di produrre innovazione e
sovversione culturale, di essere creativi e
spregiudicati, di essere esempio di un nuovo modo di
fare ed essere società. Momenti di autorganizzazione
collettiva, centri sociali libertari, scuole libertarie,
municipi libertari di base, per chi lo desidera comuni
sperimentali e quant’altro venga in mente che
rappresenti e sperimenti la società altra cui aspiriamo.
Una società nella società insomma, capace di sovvertire
i modelli e l’immaginario collettivo vigenti. Se si
affermerà diffondendosi e verrà attaccata dai poteri
costituiti, allora si difenderà ed insorgerà per
affermare il diritto alla libera scelta, al libero
pensiero, alla libertà di sperimentazione. È possibile!
E, credetemi, è molto più potente ed esplosivo di
qualsiasi detonazione d’arma o di bomba, di qualsiasi
guerra, di qualsiasi azione violenta.
Andrea Papi
Note
1. Errico Malatesta, Scritti scelti, a
cura di C. Zaccaria e G. Berneri, “Umanità Nova”
20 luglio 1920, Edizioni RL, Napoli, 1947.
2. Errico Malatesta, Pagine di lotta
quotidiana, 1° Volume, “Umanità Nova” 25
agosto 1921, pag. 195, Edito a cura del
Movimento Anarchico Italiano, Carrara, 1975.
3. Id., pag. 196. |
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