Se
percorriamo la via Aurelia, verso la Costa Azzurra, a una decina di
chilometri dal confine francese, in prossimità di centri noti
come Sanremo e Bordighera, ci capiterà di incontrare il comune
di Vallecrosia. Anche questa località beneficia appieno dei
favori del clima che ha segnato la fortuna della Riviera dei fiori.
Oggi Vallecrosia è una località affollata nel periodo
estivo, una meta fra le tante del turismo balneare in terra di Liguria
e probabilmente la si può apprezzare di più fuori
stagione. In una villa di Vallecrosia, poco più di un anno fa,
è morto Uppaluri Gopala Krishnamurti – comunemente e
amichevolmente chiamato con le sole iniziali UG –, un pensatore
indiano le cui posizioni quantomai originali e oltremodo radicali in
materia di religione continueranno a sconcertare anche dopo la sua
scomparsa.
U.G. Krishnamurti era nato ottantotto anni prima nell’India del
sud. È stato definito come il modello dell’anti-guru, a
causa della critica verso ciò che lui definiva
“l’ipocrisia del mercato spirituale”. Dirà, ad
esempio: “Per secoli ci hanno insegnato ad interpretare tutto
quanto in termini religiosi e questo ha creato una condizione di
miseria per tutti noi. E più continuate a interpretare le cose
in termini di religione, più aggiungete miseria alla vostra
vita”. A leggere i testi dei colloqui di UG con i vari
interlocutori si rimane infatti spiazzati. Qualcuno l’ha dipinto
come un Rudra ambulante (Rudra è una divinità dai tratti
minacciosi e distruttivi del pantheoninduista).
La stampa indiana l’ha apostrofato come “l’ultimo dei
nichilisti” o addirittura nei termini di un “terrorista
spirituale”. In effetti, il rifiuto di un’autorità
incombente sopra di sé ha caratterizzato l’intera vita di
UG fin dagli inizi.
La provocazione dell’anti-guru
Pur conducendo una vita tutto sommato appartata, UG negli anni
si era costruito non poche antipatie, con una schiera di critici e
detrattori, che lo accusavano (più in forma polemica, senza
entrare nel vivo delle questioni sollevate) di demolire
sistematicamente la speranza e la fede insite nella natura umana, a
causa degli attacchi da lui rivolti a qualsiasi tradizione spirituale e
a ogni genere di confessione religiosa. Viceversa, si è
costituito e si è andato consolidando uno schieramento di
sostenitori del valore delle parole di questo anti-guru. Per molti i
suoi discorsi hanno costituito una salutare e fertile provocazione
(prendendo tale parola nell’accezione etimologica: “pro-vocare”,
letteralmente “chiamare fuori”), un invito, quindi, ad
abbandonare pregiudizi e preconcetti; anche se bisogna riconoscere che
alcuni hanno finito con l’idolatrare proprio colui che, nel corso
della vita, si è proposto con una determinazione assoluta di
voler distruggere ogni idolo.
D’altro canto non sarebbe un segno di onestà intellettuale
ignorare proprio quegli aspetti problematici presenti in tanti
interventi di UG. Anzi, le questioni più acute e disturbanti,
rimaste aperte, costituiscono – come i koan del
buddhismo zen (le domande paradossali volte ad ottenere un cambiamento
improvviso) – probabilmente l’eredità più
stimolante della testimonianza di UG. Sarebbe un tradimento voler
offrire al lettore una versione addomesticata del personaggio,
facendone una sorta di icona da consumare a beneficio degli orfani e
degli insoddisfatti dell’universo della spiritualità
contemporanea, come molti new agers desidererebbero.
Da questa angolatura l’apporto di UG costituisce una traccia
significativa per una spiritualità laica a venire, una
spiritualità divenuta adulta, svincolata dai lacci e laccioli di
un rapporto di dipendenza con le istituzioni religiose, oggi sempre
più in crisi (sull’argomento ricordo un interessante
saggio, tradotto l’anno passato, del francese André
Comte-Sponville, dal titolo Lo spirito dell’ateismo).
A chi gli si rivolgeva dichiarando di voler scrivere una biografia su
di lui, UG sorrideva, dicendo che non era possibile raccontare la vita
di chi è convinto di non avere affatto una storia e che comunque
le biografie sono tutte menzognere. Aggiriamo il problema della
biografia, limitandoci ad alcune notizie telegrafiche. Educato in
maniera tradizionale, UG si dimostrò ben presto recalcitrante ai
principi dell’induismo. La frequentazione di alcuni guru non
modificherà il suo pensiero. Divenuto adulto, abbandonerà
l’India, viaggiando molto, sia in Europa che in America.
Significativo sarà il periodo di tempo – siamo negli anni
Sessanta – vissuto alla deriva, fra Londra, Parigi e Ginevra.
Questo momento critico costituisce il preludio per quella fase
trasformativa, che ebbe poi luogo in maniera improvvisa e inaspettata
in Svizzera e che venne da lui definita come “esperienza della
calamità”. Tale termine venne adoperato per sottolineare
che quest’esperienza di profondo rivolgimento interiore non
possedeva certo i tratti dello stato di beatitudine, come molti amanti
del misticismo desiderano pensare, ma era simile a una condizione
sgradevole, a una vera e propria calamità fisica e psichica. Non
uno stato di grazia, ma una disgrazia!
“Nessuno può insegnarvi...”
In seguito si diffuse la voce sulle strane vicende occorse a
questo uomo, piccolo di statura e dall’espressione accattivante,
con idee spiazzanti pressoché su tutto, ma in particolare sulla
religione. Qualcuno cominciò a frequentarlo. Nacquero
così gli incontri con chi desiderava conoscerlo e parlare con
lui. Tali incontri, che si svolsero nell’arco di diversi anni,
non furono mai pubblici e sempre di natura fortemente informale; UG
Krishnamurti non vi si sottrasse mai, ma neppure li incoraggiò.
Spesso, accoglieva chi si ripresentava dicendogli che il solo fatto di
ritornare era una delusione, perché rivelava che
l’interlocutore non aveva afferrato la sostanza di quanto
discusso insieme in precedenza, in cui sicuramente c’era
l’invito a camminare sulle proprie gambe, senza dipendere da
nessuno. “Voi dovete toccare la vita in un punto dove non
è mai stata toccata da nessuno prima d’ora. E nessuno
può insegnarvi come si fa”, è un’affermazione
che rispecchia bene il suo pensiero. O quest’altra: “Non vi
sto dando delle risposte. Se fossi così stupido da fornirvi
risposte, voi dovreste capire che proprio queste stesse risposte
distruggono la possibilità che le domande scompaiano”.
Alcune di queste conversazioni vennero registrate e successivamente
trascritte e pubblicate in alcuni volumi tradotti in varie lingue,
anche se UG non dimostrò grande interesse verso queste
pubblicazioni, giungendo a dichiarare che chiunque era libero di
riprodurre e diffondere le sue parole, senza che vi fosse bisogno di
copyright, né del consenso dell’autore, anzi uno poteva
anche appropriarsi di quelle affermazioni e farne ciò che meglio
desiderava.
Nei discorsi di UG si parla spesso di uno “stato naturale”.
È un’espressione che gli era particolarmente cara, ma
insisteva nel dire che non andava intesa come sinonimo di
“illuminazione” o “realizzazione.” Anzi, nel
continuare a parlare di uno “stato naturale” vi vedeva il
pericolo di ingessare il discorso dentro una terminologia coniata ad hoc,
riportando all’interno di categorie conosciute qualcosa di
costitutivamente irriducibile al pensiero cosciente e
all’elaborazione del linguaggio. Infatti, nel dire “stato
naturale” non intendeva riferirsi a uno “stato”, ma,
al contrario, a qualcosa di intrinsecamente dinamico,
l’immersione in un movimento perpetuo senza centro o direzione;
né era da intendere per “natura” la ricerca
nostalgica di una lontana condizione di innocenza, contrapposta alla
nevrotica vita contemporanea. Secondo UG l’umanità a un
certo punto del percorso evolutivo ha sperimentato la separazione dalla
totalità della vita, percependosi scissa in modo radicale
proprio dalla vita nella sua complessità, sentendosi isolata,
conoscendo così la paura. Allora, il bisogno di ritornare a
questa condizione di pienezza ha creato un intenso bisogno di assoluto,
sperando che gli obiettivi di tipo spirituale – Dio, la
verità o la realtà ultima – aiutassero l’uomo
a tornare a far parte di quel tutto. Ma lo stesso sforzo di integrarsi
nuovamente nella totalità della vita, pianificando il tutto, ha
allontanato l’uomo ancora di più da ciò che
cercava, generando nuova violenza. In una conversazione UG dirà:
“Se vogliamo usare un termine politico crudo, il pensiero
è fascista: per nascita, contenuto, espressione e azione. Non
c’è via di uscita, è un meccanismo che si
autoalimenta.” (E non a caso c’è chi, in America, ha
provato a mettere in relazione le posizioni di UG Krishnamurti con le
tesi primitiviste di John Zerzan sui nodi fondamentali
dell’evoluzione e dell’alienazione umana; a questo
proposito sarebbe opportuno integrare simili riflessioni, visitando le
posizioni meno note, ma più articolate, di Jacques Camatte o di
Giorgio Cesarano).
Il senso dell’anarchismo religioso
“La maggior parte dei maestri religiosi trascorrono il
loro tempo nel tentativo di dimostrare l’indimostrato con
l’indimostrabile”. Questo è una dei tanti
irresistibili aforismi provocatori che fecero la fama e anche la
sfortuna di Oscar Wilde. Non ci sarebbe da stupirsi se UG avesse
sottoscritto una simile definizione. Aggiungiamo allora in chiusura un
pensiero. È una forma di eresia totale, quella di UG, come nel
caso di Giordano Bruno o di Spinoza? La parola ‘eresia’
è stata coniata per indicare la diffusione di idee erronee e
pericolose all’interno di un comune sentire religioso. Il termine
indica già condanna e persecuzione, e nelle poche lettere che
danno corpo alla parola sentiamo salire il fumo dei roghi. Ma, volendo
approfondire, il significato originario della parola
‘eresia’ vuol dire ‘scelta’. E tale scelta non
è l’opposto di quella domanda di senso radicale presente
anche in tanti percorsi religiosi, in quel cammino di ricerca che
decide di rinnovarsi costantemente, con una messa in gioco, attraverso
tentativi ed errori, senza imitazioni, ripetizioni o formalismi.
C’è una forbice che stringe religione ed eresia, norma e
trasgressione, che sa confrontarsi con aperture e rotture di orizzonti.
Qui sta il senso dell’anarchismo religioso: da un lato il rifiuto
del principio di autorità e di comando, che rigetta
un’autorità imposta, estranea, statica e arbitraria, fonte
essa stessa di ingiustizie, disordine e violenza; dall’altro la
tensione verso un ordine con una fisionomia ben differente:
intrinsecamente dinamico, organico, scaturito dalla capacità
autentica di “essere lampada a sé stessi”. E con UG
Krishnamurti siamo senz’altro in buona compagnia. Ma non basta:
anche noi siamo chiamati a impugnare queste forbici e stabilire quanto
siamo disposti a mettere davvero in gioco.
Concludo con un breve racconto, proveniente, come UG, dall’India.
Da qualche parte del vasto territorio indiano c’è un uomo
che ha acquisito la fama indiscussa di maestro. E ci sono anche dei
giovani, i quali – come succede spesso quando si è giovani
– non sopportano l’aura che aleggia intorno a un adulto
ritenuto importante. Decidono perciò di screditare quella
presunta saggezza: poiché la gente reputa che l’uomo
possegga anche qualità che definiremmo extrasensoriali, come la
lettura del pensiero, i ragazzi così pensano: “Prendiamo
un pulcino e tenendolo fra le mani andiamo dall’uomo per
chiedergli se questo pulcino sia vivo oppure morto. Se dirà che
è vivo, basterà una leggera stretta della mano per far
morire la bestiola, viceversa se afferma che è morto, apriremo
la mano per mostrare a tutti che è vivo e in buona salute.
Qualunque risposta darà, risulterà errata”. Detto
fatto si recano dall’uomo, pregustando la vittoria. Ascoltata con
attenzione la domanda, l’uomo in silenzio guarda per un po’
alternativamente prima la mano serrata, poi gli occhi nervosi dei due
giovani. Dopodiché si limita a dire: “Amico, la risposta
sta lì, è nelle tue mani”.