Autogestione e cooperazione
di Roberto Ambrosoli

Dall'epoca dei "probi pionieri di Rochdale", il movimento cooperativo ha fatto innegabilmente parecchia strada, ma ha perso, nel contempo, buona parte del mitico alone che lo circondava agli inizi della sua storia. È diventato un elemento determinante nell'economia tardo-capitalista, ma ha smarrito nelle pieghe della sua espansione le speranze di progresso sociale, di emancipazione, di libertà, che un tempo aveva saputo suscitare.
Ma un grande movimento, dalle origini così nobili, non vive solo nella propria potenza economica. Ha bisogno anche di una giustificazione ideale, di una "filosofia" con cui presentarsi in pubblico per chiedere apprezzamento e consenso. Ed è così che la cooperazione tende oggi, in armonia col mutare dei tempi e dei gusti, a ricostruire la propria immagine interno alla concezione autogestionaria, legittimando con essa il proprio solido, non conflittuale inserimento nel "sistema". La cooperazione, si dice, è un esempio concreto di "autogestione realizzata", un canale immediatamente accessibile, non relegato nel domani dell'utopia, verso cui prò indirizzarsi proficuamente la crescente domanda di autogestione che caratterizza la nostra epoca.
Per la verità, una tradizione propriamente autogestionaria, nel senso di una consapevole attenzione per i problemi della partecipazione decisionale, manca nel movimento cooperativo. Questo, piuttosto, ha sempre proposto come proprio elemento caratterizzante l'associazionismo mutualistico, cioè l'associarsi per la realizzazione ed il godimento del vantaggio economico derivante da tale associazione e non altrimenti ottenibile. In altri termini, una cooperativa esiste in quanto un gruppo di persone riunisce i propri strumenti produttivi, siano essi capitali (denaro e/o prodotti) o lavoro o entrambi, ma lo scopo di ciò è la ripartizione, in ultima analisi, del profitto dell'attività economica associata, e non, necessariamente, la gestione egualitaria degli strumenti stessi. Cionondimeno, la rivalutazione in chiave autogestionaria della cooperazione parte proprio da questa concezione. I soci, si afferma, si trovano ad essere, in quanto tali, accomunati da un medesimo interesse, e possono quindi partecipare paritariamente all'organizzazione della produzione: il mutualismo garantisce la diffusione tra i soci dell'attività imprenditoriale, il che permette nei fatti, anche se non programmaticamente, la loro autogestione. Perché una tale impostazione sia valida, è per lo meno necessario, oltre ad una verifica della dichiarata "uguaglianza" tra i soci, che i soci stessi siano le uniche figure presenti all'interno delle cooperative. In effetti, i moderni teorici della cooperazione tendono spesso a "scontornare" la figura del socio dal contesto generale in cui è inserita, in modo da farla apparire come preminente: le cooperative sono fatte di soci, quindi l'organizzazione della produzione non può essere che funzione, espressione, del loro associarsi, quali che siano le modalità tecniche con cui viene esercitata. Anche quando si ammette che tale situazione ideale non è sempre pienamente realizzata, e si riconosce la necessità di migliorare la qualità della partecipazione sociale alla vita dell'impresa, la struttura cooperativistica è comunque considerata adatta all'accoglimento di queste istanze autogestionarie: una struttura certamente imperfetta, ma perfettibile, che può essere utilizzata nel suo insieme, per la costruzione di quell'autogestione "concreta" di cui si è detto. Tutto ciò è ben lungi dall'essere vero. Al contrario, è nostra opinione che la struttura attuale della cooperazione sia esattamente antitetica all'autogestione. Nelle note che seguono, cercheremo di dimostrarlo, con un esame forzatamente generale, ma realistico, di tale struttura.

La divisione del lavoro

Al di là delle attribuzioni moderne, l'ambizione tradizionale della concezione cooperativistica è sempre stata l'abolizione degli effetti disegualitari del profitto capitalistico, perseguita attraverso l'equa ripartizione dell'utile conseguente all'associazione dei mezzi di produzione. A tale ripartizione è stata affidata tutta la "carica" ugualizzatrice della cooperazione. Si può già obiettare che ripartizione "equa" non è necessariamente sinonimo di "ugualitaria". È noto infatti che il vantaggio mutualistico realizzato, viene normalmente suddiviso tra i soci in modo proporzionale al valore (variamente calcolato) dei mezzi di produzione conferiti, confermando, e non eliminando, le eventuali disuguaglianze iniziali. Ma da ciò possiamo anche prescindere, visto che quest'ultime sono frequentemente poco accentuate e noi abbiamo accettato di abbandonare l'utopia per restare nel campo del "possibile". Resta però il fatto che non è, appunto, possibile ridurre la problematica della produzione alla sola considerazione del profitto. Vi sono anche, con buona pace degli apologeti del mutualismo, i problemi connessi con la divisione del lavoro, ché produrre non significa solo tenere i costi al di sotto dei ricavi, ma anche esecuzione tecnica, commercializzazione, amministrazione, e via dicendo.
In altri termini, il vantaggio mutualistico (il profitto) non è frutto esclusivo dell'associazionismo, del conferimento alla cooperativa di un certo quantitativo di strumenti produttivi, ma comporta, per realizzarsi, una serie di attività "pratiche", manuali e intellettuali, senza le quali, a fine anno, non ci sarebbe alcun vantaggio da ripartire, equamente o egualitariamente che sia. La composizione interna della cooperativa, quindi, non è affatto omogenea: accanto alla funzione del socio in quanto tale, conferitore di mezzi di produzione, altre funzioni sono necessarie, ben differenziate tra loro, tanto da far ritenere improponibile l'affermazione che nelle cooperative "sono tutti soci". Tali funzioni possono essere anche svolte da soci (nonostante ciò, nella realtà, accada con sempre minore frequenza) ma questo non ha nulla a che vedere con una presunta preminenza della figura del socio sulle altre. Di conseguenza, la verifica delle possibilità autogestionarie della cooperazione non può essere limitata all'esame dei rapporti tra i soci, né l'associazionismo può essere considerato l'elemento caratterizzante di essa. La "natura", autogestionaria o meno, della cooperazione risulta invece dall'insieme dei rapporti organizzativi che vengono ad instaurarsi tra le varie funzioni che concorrono alla creazione del vantaggio mutualistico, cioè, appunto, dal modo con cui viene affrontato il problema della divisione del lavoro.
A tale proposito, possiamo osservare che l'ideologia cooperativistica, tutta centrata sulla mutualità e quindi tesa a privilegiare l'importanza dei rapporti tra i soci, non ha in sé elementi originali per affrontare la divisione del lavoro, la quale appare, anzi, spesso riguardata con nessuna attenzione. Ed è così che, lasciata a se stessa, l'organizzazione della produzione cooperativa risulta indipendente dai principi mutualistici, e prende una strada che con essi non ha nulla a che vedere.

Ma c'è la tecnocrazia aziendale

Le operazioni tecniche e amministrative che, successivamente al momento associativo, devono essere espletate per la creazione del vantaggio mutualistico, si realizzano concretamente in una struttura aziendale, la quale rappresenta la cooperativa fisicamente intesa. Essa, nel suo complesso, ha la funzione di "gestire" gli strumenti produttivi conferiti dai soci, si tratti di procedure alla trasformazione tecnica dei beni, alla loro commercializzazione diretta, all'organizzazione del lavoro fornito dai soci (nelle cooperative di lavoro), o anche alla pura e semplice amministrazione.
Nelle prime forme di cooperazione, tale struttura era generalmente poco rilevante, essendo limitate le manipolazioni da eseguire sui beni conferiti, ed essendo il vantaggio mutualistico, il più delle volte, realmente frutto principale dell'associazione, della messa in comune degli strumenti produttivi. Non così oggi, come è noto. L'espansione gigantesca delle cooperative si è realizzata attraverso il potenziamento di questa che abbiamo chiamato la "gestione" dei beni conferiti dai soci, aumentando le trasformazioni, espandendo l'area dell'intervento commerciale, appaltando lavori di vasta portata. Sicché la struttura aziendale cooperativa è diventata qualcosa dall'apporto produttivo determinante, organizzativamente complessa e anche fisicamente estesa.
Inoltre, nelle cooperative del buon tempo antico il funzionamento della struttura aziendale era affidato ai soci stessi, dimodochè il momento associativo veniva praticamente a confondersi con la gestione. Al contrario, l'azienda cooperativa moderna conta in buona parte sul lavoro di personale "dipendente", non proveniente dai soci, sia per quanto riguarda le mansioni intellettuali che per quelle manuali, il che significa che i soci sono estranei a questa struttura dalla quale, dipende la ragion d'essere del loro associarsi.
Diciamo subito che, quand'anche ciò non avvenisse, e le operazioni di gestione fossero interamente eseguite da soci, le cose non cambierebbero, poiché ognuno potrebbe controllare solo una frazione della gestione, a causa della sua complessità. Il fatto è che la struttura cooperativa resta qualcosa di separato dai soci in quanto tali, non avendo la gestione nulla a che vedere col momento associativo. I soci esplicano ed esauriscono la propria funzione attiva, il proprio "fare i soci", solo nel momento in cui conferiscono alla cooperativa i mezzi di produzione stabiliti: da quando questi ultimi vengono "catturati" dalla struttura aziendale, l'iter a cui vengono sottoposti (in fondo al quale c'è il vantaggio mutualistico) non è più determinato dall'associazionismo, dall'esser soci, ma è funzione esclusiva del funzionamento della struttura, della gestione, Il vantaggio mutualistico percepito diventa così una sorta di "regalo" della struttura, sul quale l'essere socio non ha potere di condizionamento, non dissimile in ciò dal dividendo passivamente percepito dall'azionista di una società per azioni. La struttura aziendale assolve dunque, nei fatti, la funzione imprenditoriale che la concezione mutualistica vorrebbe, invece, egualitariamente distribuita tra i soci: reperisce gli strumenti produttivi (quelli conferiti dai soci ed altri eventualmente necessari), li coordina in modo "intelligente", trasformando l'ammasso bruto dei beni in produzione economicamente redditizia.
Tale funzione è ben lungi dall'essere anonima e impersonale (e quindi, presumibilmente innocua, ai fini del potere). Nella realtà, infatti, la struttura aziendale cooperativa ha un'organizzazione piramidale, formata, al vertice, da una tecnocrazia aziendale e via via, al di sotto di essa, della schiera stratificata degli esecutori delle sue decisioni. Non entreremo qui nel merito della descrizione dettagliata degli organi (Consiglio di Amministrazione, Comitati Tecnici, ecc.) E delle modalità attraverso cui i tecnocrati delle cooperative esercitano il proprio potere. Ciò è già stato fatto, in modo esauriente, ed esula comunque dall'impostazione di queste note. Non entreremo neppure nel merito del problema riguardante l'estrazione della tecnocrazia, se provenga cioè dai soci o dall'esterno, poiché, per esso, valgono le osservazioni precedentemente fatte sull'irrilevanza funzionale di tale estrazione.
Notiamo però che è queta tecnocrazia che esercita concretamente la funzione imprenditoriale espropriata ai soci dalla struttura aziendale, e ciò avviene proprio in virtù dell'assetto organizzativo piramidale, che delega le decisioni ai vertici dell'azienda. Si può quindi sostenere che la struttura aziendale cooperativa si configura come un organismo finalizzato non alla pura e semplice gestione tecnica del mutualismo, ma all'esercizio di un potere tecnocratico sul mutualismo, di un potere che si realizza privando i soci della loro capacità decisionale. Ciò è dimostrato anche dalla mancanza di adeguate istituzioni organizzative disponibili ai soci per esercitare il proprio controllo sulla gestione della cooperativa. Di fronte alla sempre minore trasparenza delle operazioni di gestione, per la crescente complessità ed articolazione di esse, i soci hanno soltanto l'Assemblea, ritualmente convocata, per interpretare e valutare le scelte aziendali. Essa è l'unico punto ufficiale di contatto organizzativo tra il momento associativo e la gestione, e si riduce pertanto ad una ratifica passiva delle decisioni della tecnocrazia aziendale, fenomeno del quale esiste ormai un'ampia documentazione.
A nostro giudizio, qui sono chiaramente visibili i limiti della concezione mutualistica, per quanto riguarda la partecipazione decisionale. Come si è detto, il mutualismo non possiede elementi per determinare, in modo a sé funzionale, l'organizzazione della produzione. Quest'ultima, lasciata alla propria "spontaneità", tende ad assumere un assetto gerarchico, basato sulla divisione del lavoro. È questa divisione del lavoro che espropria gli associati della propria autonomia decisionale, condizionando il mutualismo anziché esserne condizionata.

Una piramide con tanti gradini

Il quadro che abbiamo delineato non è necessariamente sempre generalizzabile. Esistono ancora, infatti, piccole cooperative dove si realizza un'accettabile approssimazione di partecipazione ugualitaria alle decisioni, nonostante l'esistenza di una struttura aziendale formalmente gerarchica. Ma ciò non toglie validità alle considerazioni fatte, poiché in esse la partecipazione è consentita solo dalla semplicità delle operazioni di gestione, non da un assetto organizzativo ad essa finalizzato. Conosciamo tutti, d'altronde, la vita stenta che queste organizzazioni di modeste dimensioni conducono, e come siano continuamente sollecitate ad ingrandirsi (attraverso il potenziamento o la fusione) per poter sopravvivere. Ed è proprio man mano che l'espansione dimensionale si realizza, che l'assetto gerarchico, inizialmente innocuo, va esplicitando la sua opera disugualizzatrice ed "eterogestionaria" , fornendo la trama intorno a cui si tesse il potere di una embrionale, e poi consolidata, tecnocrazia. Ma quand'anche, per avventura e miracolo, ciò non avvenisse, il discorso continuerebbe a non cambiare nella sostanza. Perché l'esproprio decisionale dei soci non è preparato esclusivamente all'interno delle cooperative, ma anzi, è soprattutto dall'esterno di esso che si realizza il controllo dell'associazionismo mutualistico.
L'espansione del movimento cooperativo, infatti, non è avvenuta soltanto attraverso la dilatazione produttiva delle singole aziende, ma è stata caratterizzata dall'instaurarsi di una serie di rapporti, sempre più complessi e intrecciati, tra le cooperative stesse. In altri termini, sono venuti a crearsi livelli superiori di aggregazione organizzativa, il cui massiccio potenziamento è, ad un tempo, causa ed effetto dell'attuale rilevanza economica della cooperazione. Anche questo è un fenomeno noto e ampiamente studiato, per cui eviteremo di descrivere la struttura di questi livelli superiori, il loro articolarsi a piramide su base territoriale e settoriale, collegandosi sia verticalmente che orizzontalmente, per confluire in quelle che sono dette le "Centrali" della cooperazione. Per tutto ciò, rimandiamo il lettore alle numerose pubblicazioni sull'argomento, dalle quali avrà modo di verificare, ove ce ne fosse bisogno, l'estensione, l'ampio campo di interventi e di competenze, di questo massiccio organismo che sta al di sopra di queste singole aziende cooperative.
Formalmente, i vari gradini della piramide sono anch'essi cooperative, come quelle che ne costituiscono la base. Si parla infatti di cooperative di secondo grado (la parte intermedia della piramide), quando i "soci" sono cooperative vere e proprie, e di terzo grado (il vertice, cioè le Centrali) che derivano dall'associazione delle precedenti. Nella realtà, le cose stanno diversamente, perché mentre negli organismi di primo ordine la creazione e il godimento del vantaggio mutualistico, ancorché condizionato, come si è visto, dalla struttura di gestione, costituisce lo scopo e il presupposto dell'associarsi, qui (se si eccettuano i gradini più bassi della piramide, cioè i consorzi e le associazioni locali) non esiste un vero e proprio conferimento di strumenti produttivi da sottoporre ad ulteriore elaborazione tecnico-economica. La funzione effettiva dei livelli medio-alti delle organizzazioni di secondo e terzo ordine è, invece, di coordinamento e controllo delle cooperative di primo ordine associate. Non siamo, cioè, in presenza di una mutualità di secondo o di terzo ordine, ma di una struttura che serve a dare le indicazioni per l'esercizio della mutualità di primo ordine. Una struttura, dunque, che è un "prolungamento" della gestione, non dell'associazionismo: questi livelli superiori di aggregazione esprimono e realizzano l'esigenza delle tecnocrazie aziendali (che controllano la gestione) di esercitare con maggiore efficienza il proprio potere, coordinando le proprie attività in modo da sfruttare più razionalmente la potenzialità produttiva fornita dai soci. Lo prova il fatto che, mentre nell'associazionismo di primo ordine il socio-individuo resta estraneo alla gestione (esaurendo il suo rapporto con essa nel conferimento dei mezzi di produzione) qui il socio-cooperativa non si limita ad una passività decisionale, ma entra a far parte della struttura superiore, in posizione gerarchicamente subordinata: accetta cioè di attenersi alle decisioni che vengono prese ai gradini più elevati della piramide e che, peraltro, sono prese proprio in previsione di tale attitudine esecutiva. È sempre l'assetto piramidale presente nelle singole aziende che consente ciò: la fedeltà alle decisioni dei vertici dell'organizzazione è garantita, a livello di cooperativa, dal monopolio delle decisioni che i dirigenti della cooperativa posseggono.
Insomma, la gestione dei mezzi di produzione forniti dai soci, cioè l'attività imprenditoriale ad essi espropriata, viene globalmente esercitata da questa super-struttura dirigenziale, i cui funzionari costituiscono, nel loro complesso, la tecnocrazia cooperativa. I dirigenti delle cooperative (in quanto tali) rappresentano solo l'ultimo livello di essa, ancora a contatto diretto con gli aspetti concreti della produzione. Ma, man mano che si sale verso la sommità della grande piramide, verso i dirigenti delle Centrali, si osserva facilmente come le funzioni svolte siano sempre più schiettamente manageriali, di pura direzione, nel senso decisionalmente più ampio del termine.
L'espansione del movimento cooperativo è, nella realtà, l'espansione di questa tecnocrazia. Il movimento cooperativo possiede oggi una capacità di intervento economico, di interlocuzione diretta con la classe politica, in una parola una potenza all'interno della società tardo-capitalista, che non è frutto della mera dilatazione del mutualismo (anche se per tale viene fatta passare), quanto della disponibilità operativa della struttura dirigenziale, vale a dire della possibilità di avere "ai propri ordini" una schiera sterminata, operosa ed obbediente di aziende cooperative. Tale disponibilità, da un lato consente alla tecnocrazia della cooperazione di proseguire l'estensione della propria rilevanza sociale, dall'altro relega il mutualismo, con le sue pretese autogestionarie, nel limbo della dipendenza e dell'emarginazione decisionale.

Al servizio dell'autogestione

In conclusione, crediamo di aver delineato abbastanza chiaramente come la cooperazione, anche facendole grazia di approssimazioni e limitazioni, non sia affatto in grado, nel modo con cui oggi è attuata, di accogliere e interpretare la domanda di autogestione. Al contrario, essa dimostra di essere organizzativamente impostata sui principi dell'eterogestione e a ciò finalizzata. Eterogestione che, pur non essendo voluta dal mutualismo stesso, in quanto resa possibile dall'incapacità di questo di generare una ricomposizione egualitaria della divisione del lavoro. L'accettazione della divisione del lavoro fa del mutualismo uno strumento passivo al servizio delle dirigenze tecnocratiche. Così stando le cose, ogni forma di proposta autogestionaria, ogni offerta di partecipazione decisionale dei soci, si trasforma, in seno al movimento cooperativo, in cogestione asimmetrica tra dirigenti e diretti, non risultando mai messa in discussione l'esistenza e le competenze della struttura di controllo.
Tutto ciò è inevitabile? Non è, cioè, possibile concepire una diversa "applicazione" del mutualismo, tale da riflettere i propri teorici principi di solidarietà e collaborazione sull'organizzazione della produzione, sì da "modellarla" in senso, magari parzialmente, ma genuinamente autogestionario?
Così formulata, secondo l'ottica dei mutualisti ad oltranza, la domanda non può avere che una risposta negativa, per le considerazioni fin qui fatte. Cionondimeno, non si può negare che l'associazionismo offra alcuni vantaggi non indifferenti, come mezzo per il superamento di forme di produzione antieconomica, per aumentare il potere contrattuale di fronte ai grandi complessi produttivi e/o sociali, per migliorare le condizioni di lavoro o la qualità dell'esistenza. Vantaggi propri dell'associazionismo, e non necessariamente utilizzabili per la sopraffazione e l'esercizio del potere. In altri termini, l'associazionismo potrebbe diventare uno strumento per la costruzione, qui e subito, dei nuclei di collaborazione popolare, capaci di opporsi validamente ai condizionamenti della società tardo-capitalista. Ma perché ciò accada, è necessario che sulla concezione mutualistica si innesti una vigorosa concezione organizzativa ugualitaria, che preveda e impedisca gli effetti perversi della divisione gerarchica del lavoro. L'autogestione non può essere creata nel mutualismo, deve essere reperita altrove. Ma una volta trovata, può convivere con esso: la cooperazione potrebbe diventare una sorta di "cornice istituzionale" all'interno della quale realizzare, in un mondo ancora nemico e violento, l'autogestione concreta, il massimo possibile di partecipazione decisionale. Allora, forse, l'associazionismo potrà "servire" all'autogestione, nel senso di permettere l'attuazione di una pratica organizzativa che altrimenti non avrebbe vera rilevanza sociale.