Al cinema
«Amadeus», sagra della mediocrità
Dell'Amadeus di Milos Forman s'è trattato a piene pagine su tutti i giornali: fra tributi d'ogni genere è stato definito con grande enfasi «capolavoro».
Dal punto di vista strettamente «tecnico» non v'è certo nulla da eccepire. Fare la storia di un musicista è sicuramente un lavoro ingrato e l'averla resa «godibile» non sarà stata opera da poco, ma tutto ciò non basta a chiarire i motivi e le implicazioni di un tale successo. Proviamo ad azzardare qualche ipotesi.
Il filo conduttore delle vicende che ci vengono raccontate pare segnatamente intimistico, la lettura parziale dei fatti storici che il regista ci propone sembra interamente legata a questo percorso. Fin qui non v'è niente di strano, anche se è pur lecito supporre che i motivi di una tale scelta non siano del tutto casuali, visto che oggi i soggetti che raccolgono maggiori consensi sono sempre quelli in cui si possa «riflettere» l'io sognante, il narciso che vaga per sfuggire a sé stesso e che quindi rifiuta l'implicazione «oggettiva». La critica di questo film non credo debba partire dai canoni dell'iper-realismo o da processi ideologici. Ciò che invece occorre sottolineare sono le dinamiche che sostanziano un certo modo di trattare «il personale» nel linguaggio filmico.
Ma andiamo per ordine. Innanzi tutto viene da chiedersi di «quale Mozart» si sta parlando dal momento che, tanto per cominciare, alcune opere fondamentali come «Il flauto magico» paiono agli occhi dello spettatore quali meschini prodotti delle necessità economiche di un personaggio già dipinto sotto una luce grottesca, si presume per compiacere i bassi istinti dell'americano medio che del «genio» ha naturalmente una visione hollywoodiana (ora neo hollywoodiana). Una pesante concessione, se si considera che il soggetto in questione fu il primo a mettere in discussione, consapevolmente, il ruolo fino ad allora assegnato al compositore, giullare di corte, e che perciò rifiutò di indossare l'abito che fisicamente veniva imposto a chi componeva ed eseguiva a palazzo. E grande, invece, fu il suo tentativo di portare l'opera al popolo, non certo per «volgarizzarne» i contenuti, ma per reinventare il ruolo della cultura, in linea con i principi innovatori che scuotevano la giovane borghesia. Al contrario, nel film non emerge scelta e coscienza alcuna, a monte di tali comportamenti, quasi che l'artista non avesse nutrito aspirazioni in proposito. Proprio come per un Benny Goodman qualunque, che rubava la musica ai neri per il proprio prestigio personale e ne adattava i contenuti alle esigenze pecuniarie ed alle mode del momento.
La stessa contraddizione esistenziale che scuoteva il Mozart-uomo pare essenzialmente concentrata sul lato estetico, in uno struggimento legato solo a prorompenti esplosioni creative, in cui l'etica non sembra trovare spazio, se si esclude un ormai trito e ritrito cipiglio dissacratorio «di maniera» rispetto all'aristocrazia viennese, che on dice certo nulla di nuovo. Scontato quindi che non venga alla luce la rimeditazione delle sagre popolari che contraddistinse il lavoro del musicista laico, rimeditazione che s'inserirà a pieno merito nel processo di formazione di una cultura nazionale tedesca, nel periodo pre-romantico e romantico. Proprio su queste basi avvenne l'incontro fra «Amadeus» e la corte di Vienna, nel riconoscimento reciproco di un comune ascendente germanico: da ciò la «tolleranza» del sovrano e le contraddizioni con un Mozart però già proiettato idealmente nel solco dell'illuminismo.
L'unica cosa che appare è il contrasto tra il mondo «tradizionale» d'intendere la produzione artistica e le esigenze di una cultura che si rinnova, ma anche in questo caso il tutto viene mediato dalla trasposizione del regista, che usa pretestuosamente il compositore di corte Salieri per introdurre elementi di rivalità personale in luogo delle differenze sostanziali, con la gratuita denigrazione di quest'ultimo, il quale pur incarnando il vecchio mondo con le sue regole di castità ed abnegazione, non fu mai invero, almeno a sentire gli storici, individuo vanaglorioso, tanto che, portata a termine un'opera in comune con Gluck, non volle venire menzionato quale autore. Né fu compositore da poco.
Come concludere? L'ottica di Forman, polacco ma in questo caso più «americano» degli statunitensi «purosangue», non può essere la stessa di chi non si accontenta della banalità, di chi non usa abbandonarsi alla sterile fruizione di storie ridotte unilateralmente da visioni stereotipate, rese avvezze alle regole del moderno conformismo di una cultura lobotomizzata in cui tutto deve per forza ammantarsi dei segni del luddismo spensierato, della proiezione impossibile, della spersonalizzazione, del disimpegno. Il «genio» viene rappresentato per rendere meno pesante la «normalità» nell'evasione dell'immagine e confinato in angusti spazi affinché ogni riferimento «problematico» si stemperi, o lieviti a mezz'aria nella scarna luce di una «trascendenza» acefala, costruita su basi astoriche ed aliene, magari «tardo-materialistiche».
Questo «Amadeus» confidenzialmente chiamato «Wolfy» da una mogliettina capricciosa, «naturale» complemento di un dissoluto libertino rimasto eterno «bambino prodigio» e cieco strumento del «Creatore» non ci convince.
Ciò è quanto. Ma resta pur sempre un dubbio: che la confessione di mediocrità che fa di Salieri nell'ultima scena ed il suo atteggiarsi a rappresentante dell'umana limitatezza ed a difensore dei suoi valori, l'invidia in primo luogo, sia, così come l'assoluzione che egli concede con l'ausilio del primo piano alle turbe dei livellamenti e dei repressi, rivolta proprio a quelle masse di spettatori che, richiamati da otto premi «Oscar», troppo spesso abuliche ed acritiche, affollano le sale ove si proietta questa pellicola?
Stefano Fabbri d'Errico