insuscettibili di
ravvedimento
L’opposizione degli anarchici al fascismo è stata istintiva e
immediata fin dal primo manifestarsi dei fasci di combattimento. La
controversa esperienza degli Arditi del Popolo. Il confino, le carceri,
l’esilio, la partecipazione alla rivoluzione spagnola del ’36, la
Resistenza armata contro i nazifascisti: queste le tappe principali
dell’impegno antifascista libertario. I rapporti con le altre componenti
dell’antifascismo organizzato.
Nel ’20 gli anarchici in Italia erano una forza rivoluzionaria con
cui si dovevano fare i conti, una forza con cui dovevano fare i conti
padroni, governo e fascisti. Essi avevano un quotidiano, “Umanità Nova”,
che tirava cinquantamila copie e numerosi periodici. L’USI, il sindacato
rivoluzionario influenzato dagli anarchici (segretario ne era
l’anarchico Armando Borghi), contava centinaia di migliaia di iscritti.
Dopo il fallimento dell’occupazione delle fabbriche, gli anarchici,
riconoscendo nel fascismo la “controrivoluzione preventiva” (come la
definì bene Luigi Fabbri) con cui i padroni avrebbero cercato di
impedire il ripetersi di una situazione prerivoluzionaria, gettarono
tutte le loro energie nella mischia contro il giovane ma già robusto
figlio del capitalismo. La volontà ed il coraggio degli anarchici non
poteva però bastare di fronte allo squadrismo, potentemente dotato di
mezzi e di armi e spalleggiato dagli organi repressivi dello stato.
Tanto più che anarchici ed anarcosindacalisti erano presenti in modo
determinante solo in alcune località ed in alcuni settori produttivi.
politica disfattista
Purtroppo la politica disfattista del Partito Socialista e della CGL
che già aveva ostacolato lo sviluppo rivoluzionario e dunque contribuito
al fallimento dell’occupazione delle fabbriche, seminò confusione ed
incertezza nel movimento operaio in un momento che già era per molti
aspetti di riflusso delle lotte. E questo proprio di fronte al
moltiplicarsi ed aggravarsi delle violenze fasciste, soprattutto dopo il
’21.
Ovunque in Italia le squadracce di Mussolini assaltavano le sedi
politiche, le redazioni, i militanti più attivi, tutto quanto “puzzasse”
di “sovversivo”. Lo stato liberale fu diretto complice sia delle
attività criminali sia dell’intera strategia politica del fascismo nella
comune lotta contro la combattività dei lavoratori.
Pur essendo essi stessi vittime delle violenze squadriste, i socialisti
si limitarono a denunciare le “illegalità” fasciste, senza dedicare
tutte le loro energie alla lotta popolare rivoluzionaria contro il
terrorismo padronale. Non solo, ma il PSI giunse al punto di stipulare
con i fascisti un Patto di Pacificazione (agosto 1921) che contribuì a
disarmare il movimento operaio sia psicologicamente sia materialmente,
nel momento stesso in cui si intensificavano le violenze squadriste (che
continuarono a crescere... in barba al patto!).
Quello che ci interessa sottolineare è che, mentre i vertici politici e
sindacali invitavano alla “calma” e alla non violenza, furono gli stessi
lavoratori, organizzatisi autonomamente, a dare alcune storiche lezioni
ai fascisti. Le insurrezioni di Sarzana (luglio ’21) e di Parma (agosto
’22) sono due esempi della validità della linea politica sostenuta dagli
anarchici, allora, sulla stampa e nelle lotte: contro il disfattismo
delle burocrazie politico-sindacali, gli anarchici sostenevano infatti
l’urgente necessità di battere con la lotta il movimento fascista,
stimolando la combattività dei lavoratori. Coerentemente con questo
programma gli anarchici si batterono sino in fondo senza quei
tentennamenti e quella ricerca di compromessi che caratterizzarono
l’attività dei socialisti. Significativa al riguardo la differente
posizione assunta da socialisti e comunisti da una parte ed anarchici
dall’altra, di fronte al movimento degli Arditi del Popolo.
gli arditi del popolo
Questo movimento, sorto nel 1920 per iniziativa di elementi
eterogenei, si sviluppò rapidamente assumendo caratteristiche
marcatamente antifasciste ed antiborghesi, e fu caratterizzato da un
marcato decentramento autonomo delle organizzazioni locali. Gli Arditi
del Popolo assunsero quindi colorazioni politiche talvolta differenti da
un posto all’altro, ma sempre li accomunò la coscienza della necessità
di organizzare il popolo per resistere violentemente alla violenza delle
camicie nere. Gli anarchici aderirono entusiasticamente alle formazioni
degli Arditi e spesso ne furono i promotori individualmente o
collettivamente; per restare ai due episodi già accennati basti pensare
che in maggioranza anarchici furono i difensori di Sarzana e che a
Parma, fra le famose barricate erette per resistere agli assalti delle
squadracce di Balbo e Farinacci, ve n’era una tenuta dagli anarchici.
Completamente diverso fu l’atteggiamento sia dei socialisti sia dei
comunisti (questi ultimi costituitisi in partito nel gennaio 1921).
Nonostante la vasta e spontanea adesione di molti loro militanti agli
Arditi del Popolo, entrambe le burocrazie partitiche presero le distanze
e cercarono di sabotare lo sviluppo di quel movimento. Gli organi
centrali del neonato PCd’I giunsero al punto di imporre ai propri
iscritti di evitare qualsiasi contatto con gli Arditi, contro i quali fu
imbastita anche una campagna di stampa a base di falsità e di calunnie.
Intervistato negli anni settanta alla televisione il comunista Umberto
Terracini cercava ancora di giustificare quella scelta politica. E
ancora oggi noi, come già ottant’anni fa i nostri compagni, vediamo
proprio in quella scelta un esempio tipico della volontà comunista di
subordinare la lotta antifascista alla coincidenza con le proprie mire
di egemonia sul movimento operaio. È evidente che questa dura critica
alla politica dei vertici dei partiti di sinistra di fronte alle
violenze fasciste non coinvolge i militanti di base, che – anche se su
posizioni da noi molto differenti – dettero il loro contributo di lotta
e di sangue alla lotta contro il fascismo.
Il disfattismo socialista ed il settarismo comunista resero impossibile
una opposizione armata generalizzata e perciò efficace al fascismo ed i
singoli episodi di resistenza popolare non poterono unificarsi in una
strategia vincente.
il confino e l’esilio
Gli anarchici che, in prima fila nella resistenza al fascismo, si
erano esposti generosamente senza calcoli personali o di partito,
subirono più duramente degli altri antifascisti (in proporzione alle
forze) le violenze squadriste prima e quelle legali poi. All’incendio
delle sedi anarchiche e delle sezioni USI, alle devastazioni di
tipografie e redazioni, agli ammazzamenti, seguirono i sequestri, gli
arresti, il confino... Ai superstiti, perseguitati, disoccupati,
provocati, spiati, non restava che la via dell’esilio. Si può dire che
nel ventennio fascista ben pochi militanti anarchici (esclusi gli
incarcerati ed i confinati) rimasero in Italia e quei pochi guardati a
vista ed impossibilitati per lo più anche a svolgere attività
clandestina.
Continuano singoli episodi di ribellione a testimoniare, nonostante
tutto, l’indomabilità dello spirito libertario. Bastano alcuni esempi.
Il 21 ottobre 1928, l’anarchico Pasquale Bulzamini, a Viareggio, mentre
rincasa, viene aggredito da un gruppo di fascisti e ferocemente
bastonato. In un caffè, aveva poco prima, deplorato la fucilazione
dell’antifascista Della Maggiora. Muore tre giorni dopo, all’ospedale.
Il 7 ottobre 1930, il compagno Giovanni Covolcoli spara contro il
Podestà e il segretario del suo paese – Villasanta (Milano) – che lo
hanno a lungo perseguitato fino a farlo internare nel manicomio.
Riconosciuto sano di mente e rilasciato in libertà, ha voluto vendicarsi
contro i suoi tenaci persecutori.
Nell’aprile del 1931, a La Spezia, il giovane anarchico Doro Raspolini
spara alcuni colpi di rivoltella contro l’industriale fascista De Biasi
per vendicarsi contro uno dei maggiori responsabili dell’assassinio di
suo padre, Dante, attivo anarchico, massacrato nel 1921 a Sarzana
colpito da innumerevoli revolverate e da 12 colpi di pugnale e quindi –
legato ancor prima che morisse ad un’automobile – così trascinato per
diversi chilometri). Doro Raspolini muore nelle carceri di Sarzana in
conseguenza delle sofferenze e torture inflittegli dai fascisti.
Il 16 aprile 1931, i compagni Schicchi, Renda e Gramignano vengono
condannati dal Tribunale Speciale, a Roma, rispettivamente ad anni 10, 8
e 6 di reclusione. Erano imputati di essere rientrati dall’estero per
svolgere attività contro il fascismo.
la Resistenza
Il ’43 vede dunque gli anarchici della generazione
prefascista sparsi tra esilio, confino e galere. Poche tracce sono
rimaste dell’influenza anarchica ed anarcosindacalista. I pochi
militanti liberi dapprima e gli ex confinati poi riprendono con immutato
vigore i loro posti di combattimento, chi nella lotta armata, chi
nell’organizzazione della resistenza operaia, chi nella propaganda
clandestina al nord e semiclandestina al sud nelle zone “liberate” (si
fa per dire), dove gli alleati non concedono la libertà di stampa agli
anarchici, preoccupati (giustamente dal loro punto di vista) che la
lotta antitedesca ed antifascista potesse diventare rivoluzione sociale.
Per quanto riguarda la partecipazione degli anarchici alla lotta armata
partigiana, essa avvenne per lo più all’interno di formazioni
politicamente miste. Solo in quelle poche località in cui la presenza di
anarchici e simpatizzanti era nonostante tutto sufficientemente
numerosa, i compagni organizzarono formazioni proprie, inquadrate però
anch’esse, spesso a seconda della situazione locale, nelle divisioni
Garibaldi (controllate dai comunisti) Matteotti (socialiste) e Giustizia
e Libertà (espressione dei “liberalsocialisti” del Partito d’Azione).
La mancata autonomia (che quasi sempre, dati i rapporti di forza,
significò dipendenza) dalle formazioni partigiane partitiche fu dovuta
non solo alla quasi generale esiguità numerica del superstite movimento
anarchico, ma anche al fatto che gli alleati si rifiutavano (sempre
giustamente, dal loro punto di vista) di rifornire di armi e munizioni
le formazioni anarchiche.
In questo contesto il valore e spesso l’estremo sacrificio di tanti
anarchici furono sfruttati da altre forze politiche e poterono così
servire ben poco alla radicalizzazione rivoluzionaria del movimento
partigiano. Scarsa risultò in definitiva l’influenza politica anarchica
nella Resistenza, che venne incanalata dai partiti antifascisti (dai
liberali ai comunisti) verso quella restaurazione “democratica borghese”
che è ancora oggi sotto i nostri occhi.
Paolo Finzi
i cavalieri erranti
“Abituati” all’esilio, gli anarchici di lingua italiana vissero
numerosissimi una vera e propria diaspora, durante il nero ventennio. I
più si rifugiarono in Francia, ma anche in USA, Svizzera, Belgio,
Inghilterra, ecc.
La tragica sorte di quanti cercarono rifugio nella Russia dei soviet e
si ritrovarono perseguitati dal regime comunista.
Primissimo pensiero degli anarchici nell’esilio fu la stampa per
continuare anche dall’estero gli attacchi al regime fascista.
Il 1° maggio del ’23 esce a Parigi “La voce del profugo”, ed il 3 giugno
il quindicinale “Il profugo”.
Cominciarono intanto le provocazioni criminali dei fascisti: il 3
settembre sempre a Parigi il giovane anarchico Mario Castagna viene
aggredito da una banda di fascisti e nella colluttazione contro i suoi
aggressori ne uccide uno.
Pochi mesi dopo, il 20 febbraio 1924, il giovane anarchico Ernesto
Bonomini uccide, in un ristorante di Parigi, con alcuni colpi di
rivoltella, il gerarca fascista Nicola Bonservizi, segretario dei fasci
all’estero, corrispondente del “Popolo d’Italia” e redattore del
giornale fascista di Parigi “L’Italie Nouvelle”. Il nostro compagno
dichiarerà di aver voluto protestare contro i delitti impuniti dei
fascisti e dei loro complici. Verrà condannato ad otto anni di galera.
Un altro giornale vedrà la luce il primo maggio, sempre a Parigi, a cura
di compagni italiani: “L’Iconoclasta”; inoltre sempre in quell’anno
alcuni anarchici danno vita ad un giornale clandestino intitolato
“Compagno, ascolta!” dove vengono date indicazioni per una lotta
energica e spietata, nell’eventualità di una insurrezione in Italia.
Dopo pochi giorni dal delitto Matteotti si costituisce a Parigi un
comitato animato dagli anarchici e che darà vita in seguito ad un altro
giornale dal titolo “Campane a stormo”, la cui redazione verrà affidata
al compagno Alberto Meschi. Per il delitto Matteotti gli anarchici
italiani in Francia danno inizio anche ad una campagna nazionale
generale che culmina nella distribuzione di migliaia e migliaia di
volantini in cui venivano denunciati i crimini dei fasci (luglio 1924).
Durante l’anno 1925 gli anarchici italiani continuano la loro attività
antifascista, mentre prosegue la pubblicazione di giornali e riviste;
basterà qui ricordare “La tempra” e “Il monito”.
In questi anni le persecuzioni, le privazioni di ogni genere, le più
vili angherie nei confronti degli anarchici continuano da parte di
agenti fascisti in Francia.
Comunque essi non piegarono. Proprio in quei giorni (11 ottobre 1927)
Luigi Fabbri, insegnante, dopo essersi rifiutato di prestare giuramento
al fascismo ed essere riuscito a rifugiarsi in Francia, pubblica a
Parigi, con Berneri e Gobbi, il giornale “Lotta umana”.
via individuale
Continuano intanto le persecuzioni e gli arresti e le espulsioni. Nel
marzo del 1928 a Parigi viene arrestato il compagno Pietro Bruzzi; altri
due compagni, Carlotti e Centrone (che morirà valorosamente in Spagna)
vengono prima arrestati e dopo espulsi.
La risposta il più delle volte è opera di coraggiosi militanti che
agiscono sempre in via individuale. Il 22 agosto a Saint Raphael
(Francia) il console, noto fascista, marchese Di Mauro viene fatto segno
di un attentato. Pochi mesi dopo novembre, il giovane anarchico Angelo
Bartolomei, con un colpo di rivoltella, uccide il prete fascista don
Cesare Cavaradossi. Questi, vice console, gli aveva proposto, per
evitare l’espulsione dalla Francia, di tradire i compagni e di diventare
suo confidente. Il Bartolomei riesce a fuggire da Nancy e a rifugiarsi
in Belgio, dove però verrà arrestato nel gennaio del 1929.
Anche in altri paesi gli anarchici italiani continuano a subire
persecuzioni ed arresti per la loro attività antifascista. Nel luglio
del 1928 in Belgio l’anarchico Gasperini ricorre allo sciopero della
fame per ribellarsi all’estradizione chiesta dal governo italiano (aveva
ferito, assieme ad altri compagni, alcuni fascisti nel 1921). Il governo
belga concederà invece l’estradizione del compagno Carlo Locati.
L’espulsione è una sorte che colpirà moltissimi compagni. Infatti pochi
mesi dopo, il 13 agosto, a Liegi, il compagno Gigi Damiani viene prima
arrestato e poi espulso (Tunisia). A questa ondata di persecuzioni che
vede gli anarchici italiani colpiti sempre in prima fila, il movimento
cerca di rispondere come può.
Ormai, però, diventa difficile anche la pura sopravvivenza, per le
continue espulsioni che colpiscono chiunque faccia una energica attività
antifascista: nel gennaio del ’29 i compagni Gobbi, Berneri, Fabbri e
Fedeli, in seguito alle forti pressioni del governo italiano, vengono
arrestati a Parigi e condotti alla frontiera con il Belgio. È questo
l’inizio della odissea di Berneri e di tanti altri compagni. Arrestati
in una parte ed espulsi, non resta che cambiar nome e attività,
attraverso la Francia, il Belgio, il Lussemburgo, la Svizzera, sempre
braccati e senza posa.
Nel settembre del 1929 a Saarbrucken (Germania) il giovane anarchico
Enrico Manzoli (Morano), aggredito da un gruppo di fascisti appartenenti
ai “caschi di acciaio”, si difende e ne uccide uno. Altri anarchici,
però, cadranno sotto i colpi dei fascisti: nel gennaio del 1930, a
Nizza, è ucciso da un ex carabiniere il compagno Vittorio Diana, a causa
del suo intransigente atteggiamento in occasione delle manifestazioni
fasciste per l’inaugurazione di un gagliardetto. Pochi mesi prima era
morto in seguito ai patimenti e privazioni, presso Parigi, il giovane
anarchico Malaspina, braccato senza posa dalle polizie di vari paesi.
Era stato imputato di aver lanciato una bomba contro la Casa del fascio
di Juan-les-pins. Assolto per insufficienza di prove, era stato in
prigione e più volte torturato.
Il 1929 vede gli anarchici ancora in prima fila nella lotta al fascismo,
anche se tale lotta è affidata, data la scarsità pressoché totale di
mezzi, alla sola volontà e al solo coraggio. Nel giugno del 1929 i
compagni raccolti attorno alla redazione della rivista “Lotta
Anarchica”, fanno arrivare in Italia, clandestinamente, un giornale di
piccolo formato e stampato su carta velina.
Si tenta anche di passare all’azione: nell’agosto dello stesso anno
l’anarchico Paolo Schicchi (compie in quell’anno 65 anni!) si imbarca
dalla Francia e poi in Tunisia per la Sicilia, dove vuole suscitare con
il proprio esempio un movimento di ribellione contro il fascismo; ma al
suo arrivo a Palermo viene immediatamente arrestato assieme al compagno
Gramignano. Vennero condannati rispettivamente a 10 e a 6 anni di
galera. Il compagno Renda, anch’egli partecipante all’impresa, venne
condannato a 8 anni.
Nel gennaio del 1931 a Parigi si tiene un convegno di anarchici per
intensificare la lotta clandestina in Italia, lotta che porterà molti
compagni ad essere arrestati e deportati al confino. Questo non impedì
di continuare a spedire materiale in Italia portato da vari compagni.
Gli anarchici comunque in quegli anni collaborarono anche con altre
formazioni antifasciste, soprattutto con Giustizia e Libertà, senza
interrompere la serie di continue azioni individuali.
Anche in America gli anarchici svilupparono una forte attività
antifascista. Già il 16 giugno del ’23 il governo fascista premeva su
quello americano per far chiudere il foglio anarchico “l’Adunata dei
Refrattari”. La risposta degli anarchici non si fece attendere: il 24
novembre scoppia una bomba al consolato italiano mandandolo
completamente in rovina. Tutto l’anno 1924 segna una serie continua di
manifestazioni antifasciste organizzate ed animate dagli anarchici. A
Cuba, per esempio, gli anarchici organizzarono uno sciopero generale in
occasione dell’arrivo di una nave italiana (27 settembre 1924).
Non si contano le provocazioni fasciste di quegli anni, sebbene il più
delle volte i fascisti ricevano delle lezioni durissime, come nel caso
di una provocazione fascista ad un comizio anarchico (16 agosto 1925) a
New York. Certo gli anarchici, sebbene pochi e sempre perseguitati e
soprattutto senza nessun appoggio esterno, furono in quegli anni una
spina non indifferente per il governo americano. Non passava giorno che
alle provocazioni fasciste, appoggiate e protette, certe volte dalle
autorità americane, gli anarchici non rispondessero per le rime. Il ’26
e il ’27 sono due anni infuocati per il movimento anarchico negli Stati
Uniti. Infatti, in quegli anni, alla protesta contro i fascismo, si
assomma la protesta contro la criminale condanna a morte di Sacco e
Vanzetti.
È praticamente impossibile enumerare qui tutte le manifestazioni, gli
attentati, e gli scontri sia contro le autorità americane che contro i
fascisti. Son gli anni in cui gli anarchici venivano presi molte volte a
pistolettate sulla pubblica via, sia da poliziotti americani che da
agenti fascisti.
Anche negli anni seguenti, fino al ’36, continuarono da parte degli
anarchici manifestazioni e attività antifasciste che culminarono in
arresti e deportazioni in Italia. Molti compagni, come Armando Borghi,
vissero lunghi anni clandestinamente, a causa di tali persecuzioni.
Altri, sfuggiti miracolosamente a tante peripezie, morirono
valorosamente in Spagna, o fatti prigionieri, vennero poi deportati in
Italia.
coatti e baldi
Nelle varie isole di confino gli anarchici costituirono una vivace
comunità, secondi per numero solo ai comunisti.
L’8 novembre 1926 fu pubblicato sulla “Gazzetta Ufficiale” il decreto
che istituiva il “Tribunale Speciale per la difesa dello Stato” e le
“Commssioni provinciali per l’assegnazione al Confino di Polizia”. Ma
fin da prima di quel decreto molti anarchici furono relegati su quelle
isole sperdute nel Mediterraneo che già erano state utilizzate alla fine
dell’800 per tenervi raccolti (ed isolati dal mondo esterno) i
sovversivi.
Al confino, gli anarchici costituirono sempre un gruppo compatto e
battagliero, e seppero combattere la dittatura fascista anche in quelle
dure condizioni. Basti pensare alle condanne al carcere subite da 152
confinati politici che nel 1933 organizzarono a Ponza le proteste contro
i continui soprusi della direzione della Colonia; numerosi, fra questi
condannati, gli anarchici (Failla, Grossuti, Bidoli, Dettori, ecc.).
L’anno successivo l’anarchico Messinese, confinato ad Ustica, prese a
schiaffi il direttore della Colonia che voleva obbligarlo a fare il
saluto romano. La ribellione contro simili soprusi si estese
progressivamente ad altre isole, in particolare a Ventotene ed a
Tremiti, portando a nuove condanne contro compagni nostri.
Uniti da stretti vincoli di solidarietà, gli anarchici riuscirono a far
giungere e circolare clandestinamente fra i compagni alcuni testi
anarchici e sostennero nel contempo vivaci polemiche con gli altri
confinati. Particolarmente tesi furono sempre i rapporti fra confinati
comunisti ed anarchici poiché i primi, ligi alle direttive politiche
provenienti dal Partito e da Mosca, fecero sempre di tutto per
ostacolare l’attività politica dei libertari. Ad acutizzare questa
polemica giunsero, a partire dal 1936, le notizie dal fronte spagnolo,
che, seppur senza precisione, riferivano di scontri armati fra anarchici
e stalinisti.
Ribelli ad ogni autorità, gli anarchici tennero costantemente un
comportamento fiero e deciso, e furono sempre ritenuti i più pericolosi
e sediziosi dalle autorità del confino; questa pessima (e meritata) fama
presso le alte gerarchie fasciste fu causa di nuove persecuzioni e
condanne e spesso dell’allungamento della pena di confino senza neppure
una parvenza di processo. Accadde così che alcuni compagni, pur
condannati inizialmente a pochi anni, dovettero restare sulle isole fino
al 1943, quando, con la caduta del fascismo in luglio, esse furono
“smobilitate”.
Significativa al riguardo la liquidazione del confino di Ventotene, dove
era stato concentrato un numero elevato di anarchici. Quando giunse la
notizia della caduta del fascismo i primi ad esser liberati furono i
militanti di Giustizia e Libertà, cattolici, repubblicani e testimoni di
Geova; per cui in un primo tempo rimasero a Ventotene solo comunisti,
socialisti e anarchici. Quando però il maresciallo Badoglio chiamò al
governo Roveda per i comunisti e Buozzi per i socialisti, questi
pretesero ed ottennero la liberazione dei carcerati comunisti e
socialisti, trascurando gli anarchici ed i nazionalisti sloveni. Si
ruppe così quel vincolo di solidarietà che, al di là delle accese
polemiche, aveva pur sempre legato le varie comunità politiche di
confinati di fronte al comune nemico fascista. Nonostante alcuni
militanti dei partiti di sinistra cercassero di rifiutarsi di partire
per non lasciar soli gli anarchici, il grosso dei confinati se ne andò
libero, noncurante di quelli che erano costretti a restare sull’isola.
Gli anarchici, dopo una decina di giorni dalla partenza degli altri,
furono trasportati, per nave e poi in treno, fino al campo di
concentramento di Renicci d’Anghiari (Arezzo). Durante questo lungo
viaggio di trasferimento molti compagni cercarono di fuggire, eludendo
la stretta vigilanza di poliziotti e carabinieri, ma solo uno riuscì nel
suo intento. Appena giunti nel campo gli anarchici ebbero a scontrarsi
con le autorità e due compagni nostri furono immediatamente segregati in
cella; questo diede l’avvio alle proteste ed alla continua agitazione
degli anarchici (fra i quali ricordiamo Alfonso Failla, la cui
testimonianza riportiamo qui di seguito) che giunsero a scontrarsi
violentemente con le forze dell’ordine del campo. Successivamente,
comunque, alcuni riuscirono a fuggire ed andarono a costituire le prime
bande partigiane delle zone circostanti. Solo nel settembre le guardie
se la squagliarono ed i compagni lasciarono il campo, appena prima che
arrivassero tedeschi.
Camillo Levi
nel campo di Renicci
Nella testimonianza (tratta da “L’Agitazione del Sud”, settembre
1966) di uno dei protagonisti delle lotte nelle isole di confino e nelle
carceri fasciste, la storia del campo di concentramento di Renicci d’Anghiari,
nel 1943.
Dopo il 25 luglio 1943 – data della caduta del fascismo – la
liberazione dei confinati politici che si trovavano in quella data
nell’isola di Ventotene ebbe inizio soltanto oltre due settimane dopo
che il governo Badoglio, rifacendosi alle tradizioni dell’Italia
borghese e monarchica, iniziò la liberazione degli antifascisti
incominciando, nell’ordine di precedenza, dai moderati fino ai giellisti,
repubblicani, socialisti e comunisti.
Coerentemente ai contatti avuti e con gli impegni presi con i vari
partiti dello schieramento parlamentare tradizionale, noi anarchici,
esclusi dalla liberazione di fronte al progressivo avanzare nel Sud
degli eserciti angloamericani – fummo invece trasferiti al campo di
concentramento di Renicci di Anghiari in provincia di Arezzo.
Con noi furono pure esclusi dalla liberazione comunisti e nazionalisti
jugoslavi e albanesi ed alcuni antifascisti italiani. C’imbarcarono
intorno al 20 d’agosto su una corvetta della regia marina non attrezzata
al salvataggio di centinaia di persone nel caso di un probabile attacco
di sottomarini. Quando la nave uscì dal porticciolo di Ventotene, prima
di virare per Gaeta, gridammo ripetutamente il nostro saluto al compagno
Gino Lucetti prigioniero nell’ergastolo dell’isola di Santo Stefano.
Dopo alcune ore di sosta a Gaeta, dove avemmo i primi saluti dal
compagno Salvatore Vellucci, dai suoi figli e da sua moglie, incominciò
il nostro viaggio verso il campo di concentramento. Eravamo scortati da
carabinieri ed agenti della PS.
Non eravamo ammanettati tanto che fu facile a parecchi compagni tra i
quali i fratelli Girolimetti, Giorlando, ecc. di evadere. In tutte le
stazioni improvvisammo comizi, affacciati dai finestrini, incitando alla
lotta radicale contro il fascismo ed il nazismo. A Roma il nostro treno
fu sballottato da una stazione all’altra, si disse per proteggerci dai
bombardamenti aerei ma in realtà per impedire i nostri contatti con i
compagni romani e le nostre proteste per la nostra mancata liberazione.
Ricordo con dispiacere un tentativo di evasione del mio compagno Arturo
Messinese fallito per un casuale incontro con un gruppo di nostri
guardiani che rientravano in stazione dopo essersi allontanati
temporaneamente. Lungo tutto il viaggio, nelle soste delle varie
stazioni i nostri inviti alla lotta contro il fascismo incontrarono lo
stupore e l’indecisione popolare. Fu ad Arezzo che notammo una diffusa e
simpatica comprensione solidale da parte di centinaia di persone che si
trovavano in quella stazione. Fu qui che vedemmo per l’ultima volta il
compagno Zambonini. Era stato un forte e deciso militante, ferito nella
guerra di Spagna ed ospite, con noi, nell’isola di Ventotene durante la
seconda guerra mondiale.
“Sparate vigliacchi!”
Alla partenza da Ventotene, di fronte alle nostre proteste per la
mancata liberazione c’era stato promesso che saremmo stati liberati nei
giorni seguenti, in terra ferma. Il compagno Zambonini alla stazione di
Arezzo si rifiutò di proseguire per il campo di concentramento, perciò
venne condotto in carcere. Dopo, durante la resistenza, sarà fucilato
dai nazifasciti nel poligono di Reggio Emilia.
Arrivati, sull’imbrunire, alla stazione di Anghiari fummo ricevuti da
alcune centinaia di carabinieri e soldati ai quali sentimmo
distintamente rivolgere dai loro ufficiali l’ordine di caricare le armi.
Protestammo energicamente.
In un alterco con gli ufficiali che ci insolentivano minacciando
fucilazioni, i compagni Marcello Bianconi e Arturo Messinese gridarono:
“Sparate vigliacchi!”. Perciò furono immediatamente condotti in cella di
sicurezza. Così ebbe inizio la nostra agitazione contro il regime
interno del campo di concentramento.
Questo era stato fino ad allora uno dei peggiori del genere. I
prigionieri erano in massima parte partigiani jugoslavi e con essi erano
centinaia di minorenni e ragazzi di pochi anni. Il regime alimentare era
stato sempre più scarso e pessimo; centinaia di internati, specialmente
bambini e ragazzi erano morti a causa del pessimo trattamento. In cambio
la sorveglianza era feroce e bestiale. Guardavano i prigionieri
centinaia di soldati e carabinieri, richiamati, quest’ultimi, dalle
regioni Toscana e limitrofe. Il comandante in seconda, maggiore
Fiorenzuoli, ed il tenente Panzacchi si distinguevano per i loro
arbitrii. Era perfino proibito che gli internati delle varie sezioni in
cui era diviso il campo si avvicinassero alle reti metalliche divisorie
per conversare reciprocamente. Il mattino seguente il nostro arrivo i
nostri aguzzini fecero una dimostrazione di forza. Le minacce degli
ufficiali rivolte a noi con lo spiegamento dei picchetti armati seguendo
l’arresto dei compagni Bianconi e Messinese volevano conseguire lo scopo
di intimidirci e renderci alla loro mercé. Costituivamo, insieme ai
compagni reduci dalle lotte combattute nell’esilio in Spagna, l’aggrupamento
più provato dalle lotte che in carcere e al confino ci erano costate
ulteriori condanne ad anni di carcere e di confino supplementari, oltre
che la vita di parecchi compagni, per difendere la nostra dignità umana
dagli arbitrii della milizia e della polizia fasciste. E l’odore di
polvere era per noi un maggiore incentivo a non desistere dalla lotta
iniziata contro gli aguzzini del campo di concentramento di Renicci di
Anghiari. Reclamammo libertà di comunicazione tra i prigionieri dei vari
settori, la cessazione degli arbitrii perpetrati specialmente dal
tenente Panzacchi coadiuvato da alcuni soldati come lui dichiaratamente
fascisti. E il ritorno tra noi dei compagni Bianconi e Messinese. Dopo
alcuni giorni di dure schermaglie il comandante del campo, il colonnello
Pistone, decise di togliere il divieto di intercomunicazione tra i
prigionieri dei vari raggi ed ai ragazzi fu raddoppiata la razione
alimentare che era costituita da qualche centinaio di grammi di pane e
di poca minestra, alternativamente di carota o di patate non sbucciate e
di acqua pompata direttamente dal sottostante fiume Tevere, che
provocava epidemie di coliti e dissenteria.
I nostri rapporti con i custodi rischiarono di arrivare ad una rottura
tragica. Si pretendeva che all’appello mattutino noi si fosse allineati
militarmente e che uno di noi stessi, in funzione di caporeparto, ci
avesse contati e presentati all’ufficiale di ispezione.
solidarietà internazionale
Continuammo per parecchi giorni a rifiutarci. Il nervosismo, tra gli
ufficiali specialmente, era al parossismo. Il compagno Emilio Canzi,
quando stavamo arrivando all’urto, intervenne. Ci pregò di non
formalizzarci e si assunse egli l’ingrato compito. Così ci allineavamo
alla meglio e gli ufficiali dal canto loro accettarono il compromesso.
Però gli occhi di Emilio Canzi, nel presentarci senza formalità
all’ufficiale lo superavano in altezza morale molto più di quanto glielo
consentiva la sua già alta statura fisica.
Qualcuno, tra noi, masticava amaro sulla “incoerenza” di Emilio Canzi
che allora aveva già nella mente la costituzione dei primi nuclei
partigiani che nella sua nativa zona di Piacenza, sul finire della
guerra, costituivano un insieme di circa diecimila uomini. Le migliaia
di partigiani jugoslavi che popolavano il campo, comunisti o
nazionalisti, avevano fino allora conosciuto gli italiani come aguzzini
e fascisti e perciò erano animati da profondo odio sciovinista
antiitaliano nonostante che fossero formalmente osservanti della
disciplina al punto che nel presentarsi ogni mattina sembravano un
reparto delle stesse truppe che ci tenevano prigionieri.
La nostra manifestazione di solidarietà internazionale, da essi non
richiesta, impresse uno spirito nuovo nel loro comportamento e l’Italia
da quel momento per essi non fu più soltanto la patria del fascismo che
li opprimeva ma anche di uomini militanti nella lotta internazionalista
per la libertà dei popoli. Questo spirito internazionalista risorto
dall’azione nei cuori e nei canti si confuse anche nel sangue di due
prigionieri, uno slavo e un anarchico italiano, la sera del 9 settembre
1943. Quel giorno avevamo appreso che il fascismo con l’aiuto di Hitler
aveva ricostruito un governo Mussolini nell’Italia centrosettentrionale.
Noi ce ne accorgemmo per i preparativi dei baldanzosi ufficiali e
soldati fascisti che ripresero il sopravvento sulla parte moderata del
comando. In tutte le sezioni del campo i prigionieri jugoslavi che noi
vedevamo ogni mattina allinearsi disciplinatamente si rivelarono
formazioni militari già preparate. Nei comizi che si tennero in tutte le
sezioni chiesero al comando militare le armi per marciare contro i
nazisti. Nella nostra sezione aveva la parola vibrante Ganu Kriezju uno
dei tre fratelli notabili albanesi che dividevano con noi l’internamento
a Ventotene. In quel momento udii la cornetta del posto di guardia che
chiamava il picchetto armato, di corsa. Non dubitai che esso si sarebbe
diretto prima che altrove alla nostra sezione per l’odio che i fascisti
risentivano contro noi anarchici, ultimi arrivati. Mi diressi perciò
all’entrata per osservare ciò che stava per accadere, in tempo per udire
chiaramente l’ordine dato dal maggiore Fiorenzuoli agli uomini del
picchetto di caricare a salve e di sparare subito dopo avere intimato
seccamente agli internati l’ordine di sciogliere il comizio e di
ritirarsi nei cameroni. Non tutti gli internati ebbero il tempo di
rendersi conto di ciò che accadeva. Subito dopo i primi spari di
fucileria del picchetto armato agli ordini di Fiorenzuoli seguirono
quelli incrociati delle mitragliatrici poste circolarmente sulle
torrette di guardia che cingevano il campo.
silenzio apparentemente disarmato
Prima di chiudere questo modesto ricordo dei numerosi compagni che
poi lasciarono la vita nella lotta contro il nazifascismo o negli stenti
derivati dai mali contratti nelle galere e nelle isole di confino del
regime fascista, voglio rievocare la grandezza umana di un ufficiale di
comando di Renicci di Anghiari. Aveva in consegna una quarantina di noi
per condurci alla prefettura di Arezzo da dove avremmo dovuto essere
liberati.
In viaggio gli facemmo osservare che Arezzo era già nuovamente in mano
ai fascisti ed ai tedeschi e condurci là equivaleva a portarci alla
morte.
Quell’ufficiale, nelle quotidiane discussioni che facevamo dimostrava
idealità fasciste però era alieno da atti arbitrari come quelli che
erano cari al tenente Panzacchi, suo collega. Alle nostre insistenze,
arrivati in località S. Firenze pochi chilometri prima di Arezzo ci fece
scendere dal camion e, chiamati in disparte chi scrive e Mario Perelli,
ci consegnò l’elenco del nostro gruppo dicendomi: “Voi siete
responsabili di questi uomini”! Quindi fece girare il camion e ritornò
con i soldati della scorta al campo. Era il tenente Rouep, fiorentino,
veniva dagli alpini.
Io e Perelli bruciammo il foglio. Quel gruppo di compagni si sciolse e
ciascuno si avviò in direzioni diverse verso tutte le strade che
ricordano vivi e morti, la loro presenza nella storia vera della lotta
per la libertà. Storia che deve sempre essere “fatta” prima che gli
altri, quelli che di solito scrivono e sistemano arbitrariamente i fatti
della storia, possano scrivere la “storia” che non hanno “fatta”.
E questo è un discorso che può anche essere valido in relazione agli
episodi che ho ricordato. Ed ai molti altri che restano da ricordare.
Alfonso Failla
Spagna 1936
Tra i primi ad accorrere in Catalogna all’indomani del golpe del
generale Franco, gli anarchici italiani costituirono uno dei gruppi più
impegnati al fronte.
E soprattutto furono tra i più decisi oppositori della politica
staliniana sostenuta dai vari Togliatti, Vidali, ecc. La tragica e
simbolica vicenda di Camillo Berneri.
La notizia che in Spagna era scoppiata la rivolta popolare contro il
“golpe” di Franco fu come lo scoppio di una bomba, negli ambienti
dell’emigrazione antifascista italiana a Parigi. Gli esuli, da anni
costretti a lottare sulla difensiva, videro subito che in terra di
Spagna si osava finalmente dire chiaramente no al fascismo, e si
impugnavano le armi per impedirne il trionfo.
Mentre alcuni compagni partirono immediatamente per andare a combattere
a Barcellona, molti altri si preparavano a partire e si riunivano
frequentemente per decidere il da farsi. Ad un convegno appositamente
indetto, di tutte le forze politiche antifasciste italiane a Parigi, sia
Longo per i comunisti sia Buozzi per i socialisti dichiararono che i
loro partiti erano disposti ad inviare aiuti sanitari e a dare un
appoggio morale al popolo spagnolo, ma non erano d’accordo per un
intervento armato. Il rappresentante dei repubblicani restò sulle
generali, evitando qualsiasi impegno, per cui gli anarchici ed i
“giellisti” (militanti del movimento Giustizia e Libertà) furono gli
unici a sostenere la necessità di un’immediata partenza per la Spagna. E
così fecero.
Il 18 agosto 1936, infatti, meno di un mese dopo l’insurrezione popolare
(19 luglio), partì per il fronte d’Aragona un primo scaglione di
antifascisti italiani, arruolatisi volontariamente nella sezione
italiana della colonna Ascaso, organizzata e formata da militanti
anarchici della FAI e anarcosindacalisti della CNT. La maggior parte di
questi primi volontari italiani erano anarchici (un centinaio).
Altri anarchici italiani, giunti in Spagna successivamente, si
aggregarono alla colonna Durruti (CNT-FAI), alla colonna Tierra y
Libertad (CNTFAI), alla colonna Ortiz (CNT-FAI) e ad altre formazioni.
Secondo una stima documentata dai registri di arruolamento della sezione
italiana, depositati presso la CNT-FAI, gli anarchici italiani
combattenti in Spagna furono seicentocinquantatre.
Nei primissimi mesi dell’inizio della rivoluzione moltissimi compagni
italiani furono trascinati da un entusiasmo rivoluzionario che li portò
sempre in prima fila: è in questo periodo che morirono e rimasero feriti
la maggior parte di essi. Molti compagni feriti ritornarono al fronte a
combattere nuovamente. Questo, per esempio, è il caso del compagno Pio
Turroni, che ferito una prima volta in ottobre ritornò dopo pochi mesi
al fronte, dove rimase nuovamente ferito; rientrò quindi a Barcellona,
dove fu commissario politico per gli italiani, nella caserma Spartacus.
Gli anarchici italiani mantennero sempre una posizione coerente,
soprattutto di fronte alla controrivoluzione comunista, come nelle
giornate del maggio ’37 a Barcellona. Non è un caso che gli stalinisti
in quei giorni assassinarono gli anarchici italiani Camillo Berneri (che
redigeva a Barcellona il periodico in lingua italiana “Guerra di
classe”) e Francesco Barbieri.
Anche di fronte al processo di militarizzazione la loro posizione
intransigentemente rivoluzionaria fu espressa in modo pressoché unanime.
Già il 10 ottobre prima, e il 13 novembre poi, stilarono rispettivamente
due documenti in cui denunciavano il pericolo di involuzione
controrivoluzionaria, se fosse passato, come poi passò, il processo di
militarizzazione (documenti firmati, per la sezione italiana della
colonna Ascaso, da Rabitti, Mioli, Buleghin, Petacchi, Puntoni, Serra,
Segata). Anche se durante le tragiche giornate della controrivoluzione
comunista essi si trovarono in disaccordo con la “dirigenza” della FAI e
della CNT e nonostante avessero ormai compreso che le sorti della
rivoluzione volgevano al peggio, essi continuarono a combattere e a
morire.
Sono circa sessanta gli anarchici italiani morti in Spagna e
centocinquanta i feriti, di cui molti morirono più tardi a causa delle
privazioni sopportate nei campi di concentramento in Francia.
il senso di una presenza
Il contributo anarchico alla Resistenza non si limitò solo alle
azioni militari. Ove possibile, i militanti anarchici si impegnarono
nell’organizzare e difendere la vita delle popolazioni duramente colpite
dalla brutalità della guerra istituendo spacci e cooperative di
produzione e consumo, embrioni di quella società più libera e giusta
alla cui costruzione avevano dedicato la loro vita.
Nel corso degli ultimi anni numerosi storici hanno intrapreso una
revisione critica rispetto alle forze ed agli ideali che hanno agitato
la prima metà del secolo scorso. Ciò che accomuna tutti questi lavori è
la costante rimozione dell’antifascismo, della sua tensione
rivoluzionaria e delle sue componenti ideologiche. Al contrario il
fascismo, quello storico, è stato oggetto di una rivalutazione
storiografica, che trova l’esempio più fine, sistematico ed acuto
nell’opera di Renzo De Felice, e in quella dei suoi collaboratori
raccolti attorno alla sua collana “I fatti della storia” edita da
Bonacci. Questa interpretazione elude e manipola le responsabilità
storiche e politiche del fascismo, ne minimizza la natura reazionaria,
antiproletaria ed antidemocratica e accomuna un regime distruttivo,
liberticida e totalitario ai governi autoritari ai quali era abituato il
nostro gracile sistema liberale. La Resistenza, di cui volutamente si
ignora la dimensione europea, viene vista solamente nell’ottica
italiana, come crudele guerra civile dove gli uni e gli altri vengono
posti sullo stesso piano.
Questa revisione storica – un fenomeno che coinvolge tutta l’Europa, si
pensi al revisionismo storico dei Nolte, dei Rassinier, degli Irving che
negano la realtà dell’Olocausto o ne riducono la portata fino ad
annullare le responsabilità del regime nazista – si esprime anche
attraverso la rimozione dagli studi e dalle analisi della consistenza e
del ruolo che svolsero in quegli avvenimenti le minoranze, quelle
minoranze agenti, come furono gli anarchici o i militanti di Giustizia e
Libertà, o quelle minoranze guida, come cercarono di essere i comunisti
e i socialisti.
Una colpa, questa, imputabile anche alla storiografia ufficiale della
Resistenza, che più preoccupata di istituzionalizzare e di sacralizzare
la lotta antifascista, ha sistematicamente censurato o mistificato
quelle esperienze difficilmente riconducibili entro le scelte politiche
dettate dalla ricostruzione o dalla guerra fredda, liquidando
sbrigativamente la scomoda opposizione di quei movimenti e gruppi
rivoluzionari che lottarono contro il Fascismo per compiere quella
rivoluzione sociale che avevano da sempre preconizzato.
inferiorità psicologica
Non è un caso dunque che, se si escludono pochi accenni in alcune
pagine di Ferruccio Parri, nelle lezioni di Carlo Francovich e negli
scritti di pochi altri, non vi sia traccia nella storiografia della
Resistenza della presenza anarchica nella lotta partigiana. Eppure la
Resistenza, senza citare coloro che caddero in Spagna donando la propria
vita per la libertà di tutti, prende anche i nomi delle brigate
Malatesta e Bruzzi che operarono in Lombardia, della formazione Amilcare
Cipriani a Como, delle pistoiesi, Squadre Franche Libertarie, delle
formazioni libertarie liguri, del Battaglione Lucetti e della Elio di
Carrara.
Gli anarchici parteciparono alla Resistenza in maniera massiccia e
pagarono un alto tributo di uomini e di sangue, ma subirono l’egemonia
delle altre forze della sinistra, in particolare per l’assenza di
un’organizzazione specifica e di un comando militare unico che
inquadrasse tutto il movimento nella lotta di liberazione. Naturalmente
si organizzarono in proprie formazioni partigiane, ma di regola si
trovarono inquadrati nelle Garibaldi, nelle Matteotti, nelle formazioni
di Giustizia e Libertà. “Le loro formazioni di combattimento – scrive
Gino Cerrito in merito alla partecipazione anarchica alla Resistenza –
rimangono legate al Partito comunista, al Partito socialista, al Partito
d’azione. Nei CLN ai quali partecipano con delegati qualificati non
riescono mai ad imporre una linea politica rivoluzionaria, un
atteggiamento in qualche modo orientato in senso libertario. Anche se
essi non sono secondi a nessuno nella lotta armata contro il
nazifascismo non riescono a superare il gradino di inferiorità
psicologica in cui li pone la loro carenza organizzativa e la mancanza
di un programma politico uniforme”. Una situazione questa che trova una
spiegazione nella storia stessa dell’anarchismo nell’avversione verso il
militarismo e la gerarchia nella convinzione che qualsiasi forma di
governo è negazione della libertà umana.
dispersione e ritardi
Eppure gli anarchici dettero un contributo cospicuo alla lotta contro
il fascismo. Fin dal 1921 quando la violenza fascista iniziò a colpire
la stampa e i militanti, la risposta fu la resistenza ad oltranza
attraverso l’organizzazione di manifestazioni, la partecipazione agli
scioperi generali e l’adesione agli Arditi del popolo, movimento
politicamente eterogeneo che cercherà di reagire colpo su colpo alle
prepotenze squadristiche. L’ascesa al potere di Mussolini e del suo
governo segna una svolta nella storia degli anarchici italiani in quanto
ne determina la dispersione. Il movimento subisce più duramente degli
altri partiti antifascisti (in proporzione naturalmente alle forze) le
violenze squadriste prima e quelle legali poi. All’incendio delle sedi e
delle sezioni dell’USI, il sindacato di tendenza anarcosindacalista alle
devastazioni di tipografie e redazioni, alle uccisioni seguono i
sequestri, gli arresti, il confino. L’anarchismo italiano entra in una
fase di clandestinità, ma le sue forze si vanno sempre più
assottigliando. Ai superstiti, perseguitati, disoccupati, spiati non
resta che la via dell’esilio. Coloro che in Italia erano scampati alla
galera e alla morte trovano rifugio soprattutto in Francia.
Anche all’estero la vita degli anarchici come del resto quella di tutti
i fuoriusciti, non fu facile. La repressione era dura anche nei paesi
ospitanti. La guerra di Spagna poi si prese coloro che erano sfuggiti al
carcere o al confino.
La sconfitta del movimento anarchico in Spagna fu dura e si ripercosse
anche sui fuoriusciti italiani. Quest’ultimi non fecero nemmeno in tempo
a riorganizzarsi che lo scoppio della guerra mondiale e la caduta della
Francia li disperse ancora una volta. Fu quello il momento più grave.
Quelli che non riuscirono a darsi alla macchia o a fuggire furono
rastrellati dalle autorità tedesche e francesi e spediti nei campi di
concentramento o consegnati alle autorità italiane. Non c’è dunque da
meravigliarsi se la caduta del fascismo trovò il movimento anarchico
disperso, mantenuto vivo più che altro nella memoria di molti lavoratori
e nell’atteggiamento individuale dei militanti rimasti. Il movimento
anarchico giunge così in ritardo e fortemente limitato nelle sue
possibilità di azione partigiana. Queste carenze si aggravarono dopo il
25 luglio del ’43, quando di fronte al succedersi degli avvenimenti ci
sarebbe stato un bisogno ancora maggiore dell’apporto dei vecchi e più
prestigiosi militanti che affollavano le isole di confino. Ma mentre
alla caduta di Mussolini i militanti di tutti gli altri partiti venivano
liberati dal governo Badoglio gli anarchici vengono trattenuti in un
primo tempo a Ventotene e successivamente trasferiti al campo di
concentramento di Renicci di Anghiari vicino ad Arezzo da dove riescono
a fuggire solo dopo 1’8 settembre.
Carente di quadri politici, dispersi nell’esilio nelle persecuzioni,
morti in Spagna, privo di aiuti da parte degli alleati, stretto nella
logica della politica dei due blocchi, il movimento anarchico può
confidare solo nelle proprie forze e in ciò che i militanti riescono a
conquistarsi in battaglia, sia per quanto riguarda le armi che i
rifornimenti.
non solo lotta armata
Per tutte queste ragioni gli anarchici preferirono nella maggioranza
dei casi aggregarsi a formazioni controllate dai partiti comunista,
azionista e socialista, anche in quelle località dove la presenza
anarchica era sufficientemente numerosa da consentire formazioni di soli
anarchici. Il contributo anarchico alla Resistenza non si limitò alle
azioni militari, ovunque i militanti anarchici si impegnarono
nell’organizzare e difendere la vita delle popolazioni duramente colpite
dalla brutalità della guerra istituendo spacci e cooperative di
produzione e consumo, embrioni di quella società più libera e più giusta
alla cui costruzione avevano dedicato la loro vita.
Furio Biagini
anarchici a Carrara
In nessun’altra località come a Carrara, l’antifascismo anarchico
ha avuto simili radici popolari e tanta influenza sociale.
Fin dal suo sorgere, il movimento operaio locale era stato fortemente
influenzato dal socialismo libertario, a tal punto che Carrara divenne
fin dai primi anni del secolo un importante centro di propaganda
anarchica.
Furono soprattutto le lotte anarcosindacaliste dei lavoratori delle cave
– che organizzati dall’anarchico Alberto Meschi ottennero per primi in
Italia le sei ore e mezza di lavoro – ad indicare ai lavoratori la
validità dell’attività politica degli anarchici: e così Carrara fu
sempre in prima linea nelle lotte di popolo contro il militarismo,
contro la tracotanza padronale, contro la repressione di stato e quindi
oppose fin dall’inizio decisa resistenza al fascismo. L’intera provincia
del carrarino con quelle vicine di La Spezia, Pisa e Livorno, fu uno
degli epicentri del terrorismo squadrista. Basti ricordare la sparatoria
contro un gruppo di anarchici da parte di una squadraccia fascista
appoggiata dai carabinieri, a Carrara (giugno 1921). E poi lo sciopero
generale nella stessa città in risposta all’aggressione fascista contro
il compagno Alberto Meschi, allora segretario della Camera del Lavoro
(18 ottobre 1921), ed il ferimento sempre da parte delle camice nere
dell’anarchico Bonnelli a Bedizzano (Carrara). Tanti simili episodi
costellano l’opposizione antifascista dei lavoratori della zona, che
sempre portarono il loro aiuto anche agli altri centri vicini assaliti
dai fascisti, come durante i fatti di Sarzana, in seguito ai quali una
cinquantina di anarchici furono processati sotto l’imputazione di
“associazione a delinquere” (19 gennaio 1922).
Durante il ventennio della dittatura fascista l’opposizione popolare al
fascismo si mantenne viva, anche se non vi furono episodi clamorosi a
testimoniarla (a parte il fallito attentato al duce degli anarchici
carraresi Lucetti e Vatteroni.
la formazione Lucetti
Quando, all’indomani dell’8 settembre 1943 seppero che i tedeschi
stavano disarmando i soldati italiani nella caserma Dogali di Carrara,
molti anarchici (fra cui Del Papa, Galeotti, Pelliccia, ecc.) si
recarono sul posto e riuscirono ad impossessarsi di molte armi, formando
squadre di partigiani.
La partecipazione degli anarchici alla Resistenza propriamente detta
assunse proporzioni determinanti nel carrarino, più che in qualsiasi
altra zona d’Italia. Non si tratto infatti né della presenza d singole
individualità né fu caratterizzata dall’adesione degli anarchici a
formazioni partigiane non anarchiche, in maniera disorganica. Fu
veramente un fenomeno di massa, che coinvolse la grande maggioranza
della popolazione e che vide in prima fila sempre formazioni anarchiche.
Dal settembre 1943 i compagni stesero una valida rete di contatti che
comprendeva anche Sarzana ed altri centri, ed il primo rastrellamento
operato dai carabinieri e dalla milizia fu appunto attuato contro i
primi tentativi organizzati di resistenza anarchica. Ma l’azione
repressiva non sortì l’effetto sperato, poiché il movimento di
resistenza era saldamente radicato; furono compiuti alcuni arresti fra
gli anarchici. Dopo meno di due mesi comunque fu rapito il figlio del
direttore delle carceri di Massa, ed in cambio della sua liberazione fu
ottenuta la scarcerazione dei compagni arrestati.
Ricostituita la sua piena organicità, il movimento anarchico si sviluppo
ulteriormente sia in città sia nei piccoli centri, prendendo contatti
con gli altri raggruppamenti antifascisti. La formazione anarchica Gino
Lucetti si trovò ad operare nella stessa zona di altre formazioni; si
stabilì di costituire un comando unificato della Brigata Apuana pur
lasciando autonomia alle singole componenti politiche (anarchici,
comunisti, ecc.). Questa decisione fu conseguente alla necessità,
fortemente sentita, di coordinare tecnicamente le operazioni belliche
contro i nazifascisti, che – con il progressivo stabilizzarsi della
Linea Gotica – si erano fatti ancora più numerosi e più spietati nel
reprimere il movimento partigiano. In generale i rapporti fra la Lucetti
e le altre formazioni erano buoni, anche se la recente traumatizzante
esperienza della guerra di Spagna spingeva ad una grande diffidenza nei
confronti dei comunisti, ed in particolare della loro formazione Giacomo
Ulivi.
l’episodio di Casette
Quanto questa diffidenza non fosse infondata lo dimostra l’episodio
di Casette, finora assolutamente inedito, e sconosciuto al di fuori
della cerchia di coloro che vi parteciparono. Si avvicinava l’inverno
del ’44, e la situazione era veramente difficile sia a causa della
crescente repressione nazifascista sia per il mancato arrivo degli aiuti
alleati. In compenso Radio Londra continuava a trasmettere inviti ai
partigiani a tornarsene a casa, per trascorrervi l’inverno. Ma le
vendette nazifasciste attendevano chi fosse tornato a casa dai monti e
dalle valli, per cui i partigiani preferirono restare alla macchia,
preparandosi alla prossima primavera. Fu stabilito di cercare di
superare la linea Gotica attraverso i monti, e di cercare di riparare a
Lucca, città tenuta dagli alleati.
In un’unica colonna si trovarono a marciare partigiani della Lucetti e
quelli comunisti della formazione Giacomo Ulivi, con i rispettivi
comandanti Ugo Mazzucchelli (che ci ha narrato questo episodio di
Casette) e Guglielmo Brucellaria. Quando giunsero nei pressi di un ponte
che, vicino al paesino di Casette, congiunge due vallate, i comandanti
comunisti chiesero con insistenza agli anarchici di prendere la testa
della colonna, e di passare per primi sul ponte. Era notte fonda, e
quando Ugo Mazzucchelli per primo si accinse ad attraversare il ponte,
il cupo silenzio dell’oscurità fu rotto dal crepitare infernale di una
mitraglia, che, posta in una casamatta antistante il ponte, poteva
fortunatamente colpire solo una parte del ponte.
Così il nostro compagno, e altri anarchici, poterono mettersi in salvo,
contrariamente a quelle che certamente erano le speranze dei comunisti.
La loro precedente insistenza fece subito sorgere gravissimi
interrogativi fra gli anarchici, che stesero un duro rapporto al comando
unificato della Brigata Apuana: questi interrogativi ebbero una precisa
risposta quando si venne a sapere con certezza che i dirigenti comunisti
sapevano con anticipo della presenza di una mitraglia in quella
casamatta, ma sul tutto venne subito steso il silenzio più assoluto, con
la solita giustificazione della necessità dell’unità (sic!)
antifascista.
la difesa di Carrara
Oltre alla Lucetti, operarono nel carrarino la formazione anarchica
Michele Schirru, parallela alla Lucetti, la divisione Garibaldi Lunense,
formata soprattutto da anarchici e la formazione Elio Wockievic, il cui
vicecomandante, l’anarchico Giovanni Mariga, fu talmente valoroso da
vedersi concessa la medaglia d’oro al valor militare, che naturalmente
rifiutò per restare coerente alle idee anarchiche.
Sia sulle Apuane sia nella pianura costiera operarono costantemente
numerosi raggruppamenti anarchici, che ovunque si trovarono ad
affrontare la criminale repressione nazifascista. Il carrarino fu
infatti teatro di alcune delle stragi più efferate commesse dai tedeschi
e dai loro servi repubblichini: basti pensare ai massacri delle
popolazioni del paesino di Sant’Anna di Stazzena (560 morti, 12 agosto
1944), di Vinca (173 morti, 24 agosto 1944) e di San Terenzo Monti (163
morti, 19 agosto 1944). E l’elenco non finisce certo qui. In questa
tragica realtà di guerra, distruzioni e rappresaglie, gli anarchici del
carrarino ebbero il grande merito di organizzare e di difendere la vita
della popolazione nella città di Carrara. Soprattutto i compagni si
incaricarono di assicurare il regolare flusso degli approvvigionamenti,
e di far funzionare l’Ospedale, continuando nel contempo la lotta armata
contro il nemico.
Indispensabili erano i fondi, ed il loro reperimento resta una delle
pagine più belle scritte dagli anarchici carraresi. Il metodo adottato
fu quello d convocare i ricchi possidenti, e di obbligarli a versare
ingenti somme ai partigiani, sotto la minacci delle armi e dietro
regolare... ricevuta di versamento! Di questa anzi venivano stilate tre
copie una per il versatore, una per il Comitato di Liberazione Nazionale
(CLN) ed una per il compagno Ugo Mazzucchelli, comandante della Lucetti,
presso la cui sede avvenivano queste convocazioni.
Così fu possibile aiutare le famiglie più bisogno se, finanziarie le
formazioni partigiane e l’Ospedale, rinsaldando quella forte unita fra
popolo e partigiani anarchici, che resta la lezione più importante della
resistenza anarchica nel carrarino.
anarchici ad Imola
Gli anarchici imolesi dal primo sorgere del movimento fascista
fino e durante la Resistenza.
Il 1920 segna la riorganizzazione definitiva degli anarchici imolesi
che danno vita a due folti gruppi: il gruppo giovanile anarchico e
l’USI. In tutto i giovani che si impegnavano attivamente erano una
ottantina: organizzavano dibattiti, conferenze, comizi e cercavano di
realizzare una stretta unità con i giovani socialisti.
L’attività sindacale era diretta soprattutto verso quelle categorie come
i muratori, gli infermieri, gli imbianchini, i barbieri, i metallurgici
ed i camerieri che non erano seguiti dalla Camera del Lavoro (aderente
alla CGL) impegnata com’era nell’agitazione agraria e quindi
nell’organizzazione delle categorie agricole.
La preparazione rivoluzionaria degli anarchici cresceva ogni giorno, per
cui non si trovarono sprovvisti di fronte al fascismo.
Infatti il 28 ottobre 1920 Dino Grandi, allora giovane avvocato di
Mordano (comune vicino ad Imola), poi uno dei più grandi gerarchi
fascisti, subisce un attentato: gli vengono sparati contro quattro colpi
di rivoltella che, (purtroppo) non lo colpiscono. Si attribuisce il
fatto agli anarchici e i socialisti declinano ogni responsabilità. In
effetti gli autori dell’attentato risultano essere veramente anarchici
che, nel momento in cui il fascismo nascente si appoggia a giovani
studenti infiammati di patriottismo e di spirito reazionario e di odio
verso il socialismo, hanno intuito in Grandi un possibile futuro nemico.
Il 1920 si conclude con il tentativo, da parte dei fascisti di crearsi
le premesse per poter penetrare in Imola, ma fino al giugno del 1921 i
fascisti ad Imola non hanno voce in capitolo.
Gli anarchici partecipano, con i giovani socialisti, che poi passeranno
in massa al PCd’I, alla formazione delle “guardie rosse” a cui è
affidato il compito di difendere Imola dalle squadracce provenienti da
Bologna. I fascisti infatti avevano già “assoggettato” Castel S. Pietro
e si servivano di questo comune come base per le incursioni nei paesi
vicini e soprattutto per distruggere il mito di “Imola rossa” e della
combattività degli imolesi, dovuta alla cinquantennale propaganda
anarchica e socialista e al grande prestigio che aveva avuto Andrea
Costa. I fascisti bolognesi fanno vari tentativi fin dal novembre,
sempre sconsigliati però dalla autorità locale e dagli stessi capi
socialisti perché l’eccezionale livello di mobilitazione del popolo
avrebbe provocato una “carneficina”. Ma il 14 dicembre una colonna di
fascisti in camion tenta di venire ad Imola. Il servizio di informazione
scatta immediatamente e tutta la popolazione armata, chiamata dal
campanone comunale che suona a stormo, scende in piazza. Le cinque
squadre di “guardie rosse” si dispongono nei punti strategici della
città e gli anarchici collocano due mitragliatrici all’ingresso di
Imola, sulla Via Emilia, in modo da prendere i fascisti in un fuoco
incrociato. Anche questa volta i fascisti non vengono, pare che Romeo
Galli, socialista, telefonasse al Sindaco di Ozzano per pregarlo di
dissuaderli. Ma i fascisti avevano intuito quale era il mezzo più
efficace per entrare a Imola: lasciare che una snervante attesa
fiaccasse la difesa degli imolesi.
Figure squallide
Così, con l’appoggio dei popolari, fanno le loro prime apparizioni
fino a lanciare un attacco in grande stile. Il 10 aprile, durante una
processione organizzata dal Partito Popolare, arrivano i fascisti
provenienti da Castel S. Pietro: l’esercito e i carabinieri occupano il
centro per difendere dal popolo gli squadristi. Il 28 maggio i fascisti
danno l’assalto al Circolo ritrovo socialista, naturalmente di sera. Un
gruppo di essi, nascosto nell’ombra dei giardini pubblici, si prepara ad
attaccare con pugnali, bombe a mano e rivoltelle. Mentre parte di essi
entrano nel circolo, altri, fuori, sparano all’impazzata per impedire
alla gente di accorrere.
Il bilancio dell’assalto e di sette feriti e la distruzione di parte
delle suppellettili, registri, ecc., poste nei locali in cui aveva sede
anche la redazione del settimanale socialista “La lotta” e la sezione
socialista.
La reazione comincia a prendere piede apertamente anche ad Imola, i capi
socialisti fuggono a S. Marino e torneranno solo a settembre, a bufera
momentaneamente passata.
Così la reazione armata fascista colpisce le avanguardie mentre la massa
è disorientata e impaurita.
Il 26 giugno i fascisti con Dino Grandi, Gino Baroncini, ecc. inaugurano
il gagliardetto di combattimento sotto gli occhi soddisfatti della
gretta borghesia locale.
I fascisti locali, figure squallide, in alcuni casi addirittura malati
di mente, trovano appoggio negli agrari che li esaltano, li ubriacano
con soldi e vino, e lo stretto collegamento col gruppo già forte del
fascismo bolognese li fa sentire improvvisamente padroni della piazza
quando in 100 contro uno protetti dalla polizia, si scagliano contro le
avanguardie rivoluzionarie. I primi ad essere colpiti sono gli
anarchici, poi i socialisti ed infine la reazione si abbatte su tutto il
proletariato.
Il 10 luglio vi sono i fatti della Birreria Passetti in cui, fallito il
tentativo di alcuni fascisti di uccidere l’anarchico Primo Bassi
(1892-1972), si costruisce una montatura per accusarlo della morte del
rag. Gardi, estraneo ai fatti e rimasto ucciso nella sparatoria.
Racconta Primo Bassi: “Il 10 luglio 1921 una squadra di fascisti imolesi
iniziava le prime azioni di violenza indiscriminata. Alle ore 10 di
sera, incontrato un muratore – tal Campomori – lo colpirono con
randellate al capo sino a che, sanguinante, poté rifugiarsi nella
birreria Passetti, in quel momento affollata di clienti. Fu allora che
notai un giovincello che, battendomi un giunco sulla spalla, mi invitava
ad uscire. Accondiscesi, ma dopo pochi passi nell’ampio cortile fui
circondato dalla squadra che pretese perquisirmi e quando, palpate le
tasche, furono persuasi fossi inerme, iniziarono la bastonatura. Con una
spinta mi aprii il passo verso l’uscita e, guadagnando l’uscita sotto le
percosse, fui raggiunto da una randellata allo zigomo sinistro che per
poco non mi abbatté al suolo. Voltandomi di scatto fu allora – solo
allora – che l’istinto di conservazione prevalse in me. Il fascista
Casella mi era quasi addosso con l’arma in pugno ed io – già estratta la
pistola dalla cintura dei pantaloni – gli sparai contro colpendolo ad
una gamba. Sparai ancora in aria un colpo e mentre attorno era tutta una
sparatoria fuggii per via Aldovrandi per consegnarmi ai carabinieri
sopraggiunti, ferito da una pallottola di rimbalzo. Accompagnato in
caserma prima ed all’ospedale poi, fui tempestato di pugni sino a che un
infermiere, il socialista Maiolani, non intervenne a redarguirli.
Intanto all’interno della birreria un cittadino – voluto poi fascista –
era stato colpito dal basso all’alto da un colpo di rivoltella,
decedendo. I fascisti si impadronirono di quel morto ed iniziarono una
violenta reazione contro uomini e cose.”.
La stessa sera numerose squadre di fascisti percorrono le vie della
città, sparando all’impazzata con lo scopo di impaurire.
Caccia al sovversivo
Poi assalgono la sede dell’Unione Sindacale, distruggendo
sistematicamente tutto ciò che trovano: devastano gli uffici delle
leghe, la redazione del giornale anarchico “Sorgiamo”, il circolo
ritrovo, la ricca biblioteca. Tutto ciò che non si può dare alle fiamme
nel piazzale sottostante è reso completamente inservibile. Il lunedì
continua per le vie di Imola la caccia al sovversivo.
Viene arrestato il maestro anarchico Ciro Beltrandi per aver sparato
all’ex repubblicano Mansueto Cantoni, diventato segretario del fascio
locale. Viene picchiato selvaggiamente coi calci di moschetto alla
schiena, tanto da morire nel 1941 a Bruxelles in seguito alla
tubercolosi, provocata dalle botte fasciste.
Anche il responsabile de “Il Momento”, giornale della Federazione
Provinciale Comunista Bolognese e organo della Camera del Lavoro di
Imola, Romeo Romei viene aggredito e, ferito gravemente al petto con un
colpo di rivoltella lasciato per terra moribondo; Ugo Masrati,
bracciante agricolo anarchico, mentre è tranquillamente addetto in
un’aia come paglierino ai lavori di trebbiatura, viene assassinato dai
fascisti.
Alla tipografia Galeati, pena l’incendio, si impedisce di stampare il
periodico anarchico “Sorgiamo”. Si vieta alle edicole di vendere
giornali “sovversivi”, come “Umanità Nova” e “Ordine Nuovo”. Ma il
movimento anarchico non è ancora definitivamente abbattuto, bisogna
quindi ancora colpirlo, ancora assassinare.
La sera del 21 luglio ’21 cinque fascisti si recano in un’osteria alle
Case Gallettino con lo scopo ben preciso di colpire un altro anarchico
che si era sempre distinto per il suo coraggio, Vincenzo Zanelli, detto
Banega, muratore, anarchico. Arrestato per i moti del carovita del
luglio 1919, era stato di nuovo arrestato nel 1921 senza un’imputazione
precisa e rilasciato dopo 20 giorni. Da allora non era più stato
lasciato in pace dai fascisti. Raggiunto con altri due anarchici –
Farina e Tarozzi – dai fascisti, viene colpito ma, mentre gli altri due
anarchici disarmati fuggono, egli a terra si difende e uccide il suo
aggressore, il fascista Nanni, di professione ladro. Ormai quasi tutti
gli anarchici imolesi più in vista sono eliminati.
L’uccisione del giovane fascista Andrea Tabanelli serve da pretesto per
manovre contro gli anarchici: caduta la prima accusa contro l’anarchico
Diego Guadagnini, viene accusato il cugino Enrico Guadagnini e i
fascisti fanno altre rappresaglie: compiono un altro assalto alla sede
dell’USI e ammazzano a randellate in testa Raffaele Virgulti, mutilato
di guerra anarchico.
uccisi, carcerati o confinati
Messi in condizione di non nuocere i compagni migliori come Diego
Guadagnini e Primo Bassi (condannato a 20 anni nonostante che la perizia
balistica avesse dimostrato che il proiettile che uccise Gardi non
apparteneva all’arma di Bassi), uccisi tanti dei migliori come Leo
Bianconcini, Vincenzo Zanelli, Raffaele Virgulti, carcerati o confinati
tantissimi altri come Tarozzi, Baroncini, Farina, Errani, i fratelli
Tinti, Tonini, ecc., il movimento anarchico imolese darà il suo
contributo alla lotta di Liberazione in Italia nel 44-45 e,
precedentemente, in Spagna nel 1936.
Gruppi Anarchici Imolesi
anarchici a Piombino
L’attivo impegno degli anarchici piombinesi contro il fascismo,
prima e durante la Resistenza.
Nei primi mesi del 1921, quando già in tutta la Toscana si è
scatenata l’offensiva fascista, Piombino non conosce ancora la violenza
squadrista e ancora per più di un anno resisterà al cerchio nero che la
stringe.
A differenza di altri luoghi, a Piombino il fascismo nasce all’ombra
delle ciminiere con il denaro dei “dirigenti” dell’ILVA e della Magona,
le due fabbriche siderurgiche più importanti della città, occupate nel
’20 dagli operai armati. Questi due colossi industriali non forniscono
solo i finanziamenti, ma anche i gregari per le azioni teppistiche
trasformando in squadracce nere le guardie dei due stabilimenti, gente
abituata da sempre all’odio antioperaio. Tuttavia questi primi fenomeni
del l’ondata fascista non trovano lo spazio per ingrandirsi e attecchire
perché circoscritti da una classe lavoratrice estremamente combattiva e
rivoluzionaria, fortemente influenzata sia dagli anarchici, sia dagli
anarcosindacalisti della locale Camera del Lavoro federata all’USI.
Per avere un’idea di questa influenza basta guardare i risultati delle
elezioni politiche del ’19, con 3.483 schede bianche contro 1.487 voti
socialisti, su un totale di 6.098 votanti ed alla composizione delle
Commissioni Interne dell’ILVA e della Magona con 15 delegati
anarcosindacalisti dell’USI contro i 5 delegati socialisti e comunisti
della FIOM.
È così che alla fatidica “marcia su Roma” nell’ottobre del ’22, il
fascismo piombinese non arriva nemmeno a cento teppisti. Prima del ’22 i
fascisti locali non osano tenere i loro raduni nella città; anzi ogni
volta che lo squadrismo pisano, senese o fiorentino compiva qualche
“impresa” doveva subire l’ira degli anarchici e degli Arditi del Popolo.
Il lento affermarsi del fascismo a Piombino in certa misura è da
attribuirsi anche all’azione sprovveduta della CGL e del Partito
Socialista che, assieme agli esponenti dei vari partiti, degli
industriali e dei fasci di combattimento, forma un Comitato Cittadino
per pacificare la città e risolvere la crisi dell’industria siderurgica
che minacciava di chiudere, licenziando tutte le maestranze.
Questo riconoscimento ufficiale delle forze socialiste verso il nascente
fascismo è l’equivalente locale della stessa politica che a livello
nazionale porterà al Patto di Pacificazione fra fascisti e socialisti.
Sarà proprio il Comitato Cittadino che, purgato dagli elementi
socialisti, prenderà in mano l’amministrazione di Piombino dopo la
conquista della città.
Ovviamente a questo Comitato Cittadino sia gli anarchici che la Camera
del Lavoro federata all’USI rifiutano di partecipare, ribadendo che non
è possibile nessuna pacificazione sia con gli industriali sia con i
fasci di combattimento, ma che anzi è dovere rivoluzionario scendere
nelle piazze e combattere per soffocare la violenza fascista.
Furono infatti proprio gli anarchici e gli anarco-sindacalisti i
maggiori sostenitori e attivisti degli Arditi del Popolo. Per iniziativa
del deputato socialista Giuseppe Mingrino si era costituito a Piombino
il 144° battaglione degli Arditi del Popolo, cui aderivano gli anarchici
e l’ala comunista del Partito Socialista, che dopo poco esce dal partito
per formare il Partito Comunista. Presto però i comunisti usciranno da
queste formazioni operaie di difesa ed anzi una circolare dell’esecutivo
del PCd’I diffida tutti i militanti dall’entrare negli Arditi o anche
solo di avere contatti con loro. Dopo questa defezione, gli Arditi del
Popolo a Piombino saranno costituiti quasi esclusivamente da elementi
anarchici e anarcosindacalisti e saranno loro a sostenere le lotte dure
e spesso sanguinose che impediranno, nella metà del ’22, ai fascisti di
entrare a Piombino.
L’attentato al socialista Mingrino, il 19 luglio 1921, fa scattare per
la prima volta gli Arditi. Essi attaccano il “covo” dei fascisti
piombinesi ma lo trovano deserto, quindi casa per casa e nei luoghi di
lavoro catturano i fascisti e costringono un loro capo, il direttore del
Cantiere navale, a firmare un atto di sottomissione.
Le Guardie Regie corse in aiuto dei fascisti vengono sopraffatte e
disarmate.
Solo dopo alcuni giorni la reazione degli Arditi termina e le forze
dell’ordine riescono a riprendere il controllo della città.
Intanto il 2 agosto socialisti e fascisti firmano a Roma il Patto di
Pacificazione. Gli Arditi affiggono a Piombino un manifesto: “Non vi può
essere nessuna possibilità di pace, in questo momento, tra il
proletariato piombinese e i suoi sfruttatori... gli arditi del popolo
resteranno vigili ed armati contro gli sgherri neri”.
Il 3 settembre l’anarchico Giuseppe Morelli sorpreso ad affiggere
manifesti contro il Patto di Pacificazione reagisce con la pistola alle
guardie regie ed ai fascisti, rimanendo ucciso nel conflitto.
Durante la notte, prevedendo la reazione degli anarchici, la Polizia
irrompe nelle abitazioni e nei luoghi di lavoro (durante i turni
notturni) arrestando oltre 200 compagni. Privati gli arditi e gli
anarchici dei loro militanti politici e sindacali più attivi, i fascisti
capirono che quello era il momento per sferrare il loro attacco. Prima
incendiarono la sezione socialista, poi la Camera Confederale e la
tipografia la Fiamma, e quindi si diressero verso la Camera del Lavoro
sindacale, ma si scontrarono con una pattuglia di giovani anarchici, fra
cui: Landi, Lunghi, Venturini, Marchionneschi, Panzavolta, Franci,
Messena Lucarelli. Giungevano nel frattempo gruppi di operai e la
polizia fu costretta ad arrestare i fascisti per salvarli dalla sana ira
popolare.
Racconta Armando Borghi: “Una conferenza la tenni a Piombino, presente
il deputato comunista Misiano. I fascisti lo avevano scacciato dal
Parlamento, minacciandolo di morte, e lui si era rifugiato sotto la
protezione degli anarchici, nella cittadina toscana, tenuta ancora dai
nostri alla fine del 1921”.
I fascisti tentarono la conquista di Piombino il 25 aprile del ’22, ma
giunti alla periferia della città, trovarono gli anarchici e gli Arditi
che rapidamente misero in fuga le camice nere.
Frattanto, dopo la riapertura degli stabilimenti siderurgici, manovrando
abilmente con le assunzioni discriminate per rendere più debole la
compattezza operaia (Piombino anche allora era una città-fabbrica) le
direzioni aziendali preparavano il colpo definitivo, essendosi anche
assicurata la totale collaborazione del Comitato Cittadino.
Un’altra vittima fu il giovane anarchico Landi Landino (21 maggio 1922),
che i fascisti tenevano presente come il principale artefice delle loro
“ritirate”.
Il 12 giugno (dopo un incidente appositamente creato dove rimaneva
ucciso uno studente fascista e per i funerali del quale giunsero in
città i fascisti di tutta la zona) gli squadristi e le guardie regie
inviate da Pisa a “ristabilire l’ordine” si impadronivano della città.
Dapprima occupano il Comune e la Pretura, poi i fascisti assaltano e
distruggono le sedi del Partito Socialista e della CGL. Per tutta la
notte e tutto il giorno dopo, con centinaia di assalti, le squadracce
tentano la conquista della Camera Sindacale dell’USI e della tipografia
del giornale anarchico “Il martello”, sempre respinti. Solo dopo un
giorno e mezzo di combattimento, fascisti e guardie regie riescono a
piegare anche gli anarchici.
Il fascismo era passato anche a Piombino ed i compagni più in vista
trovarono scampo nell’espatrio; altri dovettero subire persecuzioni e
angherie durante tutto il regime fascista.
Prendiamo ad esempio le vicende di due compagni: Egidio Fossi e Adriano
Vanni.
Egidio Fossi, condannato nel ’20 dalle Assise di Pisa a 12 anni e 6
mesi, 2 anni dei quali trascorsi in segregazione a Portolongone, gli
altri in varie galere. Venne liberato per amnistia nel mese di ottobre
1925, fu poi perseguitato ripetutamente, ammonito e minacciato dai
fascisti, finché espatriò clandestinamente in Francia. Anche all’estero
non sfuggì alla persecuzione e comincio così la vita randagia del
fuoriuscito, braccato anche dalla polizia francese.
Alla notizia che in Spagna il popolo era insorto contro il tentativo di
“golpe” franchista, non mise tempo in mezzo e raggiunse nell’agosto 1936
la colonna italiana Francisco Ascaso; partecipando a tutte le azioni sul
fronte aragonese di Huesca, rimanendo a combattere in Spagna fino al
marzo del 1939; fu poi internato nel campo di concentramento di Gurs e
mandato nelle compagnie di lavoro. Nel 1940 fu fatto prigioniero dai
tedeschi, venne quindi tradotto in Italia e assegnato al confino di
Ventotene per 5 anni. Fu liberato nel settembre 1943; poté rientrare a
Piombino nel 1945, dove riprese il suo posto nelle file anarchiche e
come operaio all’Italsider.
Adriano Vanni, condannato insieme a Egidio Fossi e scarcerato nello
stesso periodo fu subito bastonato a sangue dai fascisti; dovette
riparare all’estero, ma anche qui ebbe vita difficile. Rientrato in
Italia dopo qualche anno, cominciarono di nuovo le persecuzioni del
regime e le bastonature dei delinquenti in camicia nera. Partecipò
attivamente alla sommossa della popolazione contro i nazifascisti del 10
settembre 1943. La lotta partigiana lo vide fra i più validi animatori
della resistenza e assieme ad altri libertari operò in formazioni che
agivano nelle zone all’interno della Maremma; fece parte anche del
nucleo periferico del CLN. A liberazione avvenuta, nonostante si
ritrovasse faccia a faccia con molti dei suoi aguzzini del ventennio,
ebbe la forza morale di non vendicarsi.
Altri compagni dovettero prendere la via del fuoriuscitismo da Piombino,
come Franci Dario, Bacconi, (dirigente dell’USI), Agnarelli Smeraldo, e
altri ancora. A Torino si trasferirono compagni come Guerrieri Settimo,
Baroni Ilio (caduto nelle formazioni GAP), Bellini e Cafiero. I compagni
che riuscirono a rimanere a Piombino non rimasero immuni da ammonizioni
e minacce e, quando venivano personalità del regime, erano prelevati
dalle loro abitazioni e tenuti in carcere per 3 o 4 giorni.
Federazione Anarchica Piombinese
l’analisi di Malatesta sul
fascismo
L’anarchico campano fu uno dei pochi, sia in campo rivoluzionario
che in campo riformista, a comprendere la vera essenza del fenomeno
autoritario in atto. Ecco due suoi scritti, rispettivamente del 1922 e
del 1923.
Mussolini al potere
A coronamento di una lunga serie di delitti, il fascismo
si è infine insediato al governo.
E Mussolini, il duce, tanto per distinguersi, ha cominciato col trattare
i deputati al parlamento come un padrone insolente tratterebbe dei servi
stupidi e pigri.
Il parlamento, quello che doveva essere “il palladio della libertà”, ha
dato la sua misura.
Questo ci lascia perfettamente indifferenti. Tra un gradasso che
vitupera e minaccia, perché si sente al sicuro, ed una accolita di vili
che pare si delizi nella sua abiezione, noi non abbiamo da scegliere.
Constatiamo soltanto – e non senza vergogna – quale specie di gente è
quella che ci domina ed al cui giogo non riusciamo a sottrarci.
Ma qual è il significato, quale la portata, quale il risultato probabile
di questo nuovo modo di arrivare al potere in nome ed in servizio del
re, violando la costituzione che il re aveva giurato di rispettare e di
difendere?
A parte le pose che vorrebbero parere napoleoniche e non sono invece che
pose da operetta, quando non sono atti da capobrigante, noi crediamo che
in fondo non vi sarà nulla di cambiato, salvo per un certo tempo una
maggiore pressione poliziesca contro i sovversivi e contro i lavoratori.
Una nuova edizione di Crispi e di Pelloux è sempre la vecchia storia del
brigante che diventa gendarme!
La borghesia, minacciata dalla marea proletaria che montava, incapace a
risolvere i problemi fatti urgenti dalla guerra, impotente a difendersi
coi metodi tradizionali della repressione legale, si vedeva perduta ed
avrebbe salutato con gioia un qualche militare che si fosse dichiarato
dittatore ed avesse affogato nel sangue ogni tentativo di riscossa. Ma
in quei momenti, nell’immediato dopoguerra, la cosa era troppo
pericolosa, e poteva precipitare la rivoluzione anziché abbatterla. In
ogni modo, il generale salvatore non venne fuori, o non ne venne fuori
che la parodia. Invece vennero fuori degli avventurieri che, non avendo
trovato nei partiti sovversivi campo sufficiente alle loro ambizioni ed
ai loro appetiti, pensarono di speculare sulla paura della borghesia
offrendole, dietro adeguato compenso, il soccorso di forze irregolari
che, se sicure dell’impunità, potevano abbandonarsi a tutti gli eccessi
contro i lavoratori senza compromettere direttamente la responsabilità
dei presunti beneficiari delle violenze commesse. E la borghesia
accetta, sollecita, paga il loro concorso: il governo ufficiale, o
almeno una parte degli agenti del governo, pensa a fornir loro le armi,
ad aiutarli quando in un attacco stavano per avere la peggio, ad
assicurar loro l’impunità ed a disarmare preventivamente coloro che
dovevano essere attaccati.
I lavoratori non seppero opporre la violenza alla violenza perché erano
stati educati a credere nella legalità, e perché, anche quando ogni
illusione era diventata impossibile e gli incendi e gli assassinii si
moltiplicavano sotto lo sguardo benevolo delle autorità, gli uomini in
cui avevano fiducia predicarono loro la pazienza, la calma, la bellezza
e la saggezza di farsi battere “eroicamente” senza resistere – e perciò
furono vinti ed offesi negli averi, nelle persone, nella dignità, negli
affetti più sacri.
Forse, quando tutte le istituzioni operaie erano state distrutte, le
organizzazioni sbandate, gli uomini più invisi e considerati più
pericolosi uccisi o imprigionati o comunque ridotti all’impotenza, la
borghesia ed il governo avrebbero voluto mettere un freno ai nuovi
pretoriani che oramai aspiravano a diventare i padroni di quelli che
avevano serviti. Ma era troppo tardi. I fascisti oramai sono i più forti
ed intendono farsi pagare ad usura i servizi resi. E la borghesia
pagherà, cercando naturalmente di ripagarsi sulle spalle del
proletariato.
In conclusione, aumentata miseria, aumentata oppressione.
In quanto a noi, non abbiamo che da continuare la nostra battaglia,
sempre pieni di fede, pieni di entusiasmo.
Noi sappiamo che la nostra via è seminata di triboli, ma la scegliemmo
coscientemente e volontariamente, e non abbiamo ragione per
abbandonarla. Così sappiano tutti coloro i quali hanno senso di dignità
e pietà umana e vogliono consacrarsi alla lotta per il bene di tutti,
che essi debbono essere preparati a tutti i disinganni, a tutti i
dolori, a tutti i sacrifici.
Poiché non mancano mai di quelli che si lasciano abbagliare dalle
apparenze della forza ed hanno sempre una specie di ammirazione segreta
per chi vince, vi sono anche dei sovversivi i quali dicono che “i
fascisti ci hanno insegnato come si fa la rivoluzione”.
No, i fascisti non ci hanno insegnato proprio nulla.
Essi hanno fatto la rivoluzione, se rivoluzione si vuol chiamare, col
permesso dei superiori ed in servizio dei superiori.
Tradire i propri amici, rinnegare ogni giorno le idee professate ieri,
se così conviene al proprio vantaggio, mettersi al servizio dei padroni,
assicurarsi l’acquiescenza delle autorità politiche e giudiziarie, far
disarmare dai carabinieri i propri avversari per poi attaccarli in dieci
contro uno, prepararsi militarmente senza bisogno di nascondersi, anzi
ricevendo dal governo armi, mezzi di trasporto ed oggetti di
casermaggio, e poi esser chiamato dal re e mettersi sotto la protezione
di dio... è tutta roba che noi non potremmo e non vorremmo fare. Ed è
tutta roba che noi avevamo preveduto che avverrebbe il giorno in cui la
borghesia si sentisse seriamente minacciata.
Piuttosto l’avvento del fascismo deve servire di lezione ai socialisti
legalitari, i quali credevano, e ahimè! credono ancora, che si possa
abbattere la borghesia mediante i voti della metà più uno degli
elettori, e non vollero crederci quando dicemmo loro che se mai
raggiungessero la maggioranza in parlamento e volessero – tanto per fare
delle ipotesi assurde – attuare il socialismo dal parlamento, ne
sarebbero cacciati a calci nel sedere!
Errico Malatesta
(“Umanità Nova”, 25 novembre 1922)
Perché il fascismo vinse
La forza materiale può prevalere sulla forza morale, può anche
distruggere la più raffinata civiltà se questa non sa difendersi con
mezzi adatti contro i ritorni offensivi della barbarie.
Ogni bestia feroce può sbranare un galantuomo, fosse anche un genio, un
Galileo o un Leonardo, se questi è tanto ingenuo da credere che può
frenare la bestia mostrandole un’opera d’arte o annunziandole una
scoperta scientifica.
Però la brutalità difficilmente trionfa, ed in tutti i casi i suoi
successi non sono stati mai generali e duraturi, se non riesce ad
ottenere un certo consenso morale, se gli uomini civili la riconoscono
per quella che è, e se anche impotenti a debellarla ne rifuggono come da
cosa immonda e ripugnante.
Il fascismo che compendia in sé tutta la reazione e richiama in vita
tutta l’addormentata ferocia atavica, ha vinto perché ha avuto
l’appoggio finanziario della borghesia grassa e l’aiuto materiale dei
vari governi che se ne vollero servire contro l’incalzante minaccia
proletaria; ha vinto perché ha trovato contro di sé una massa stanca,
disillusa e fatta imbelle da una cinquantenaria propaganda
parlamentaristica; ma soprattutto ha vinto perché le sue violenze e i
suoi delitti hanno bensì provocato l’odio e lo spirito di vendetta degli
offesi ma non hanno suscitato quella generale riprovazione, quella
indignazione, quell’orrore morale che ci sembrava dovesse nascere
spontaneamente in ogni animo gentile.
E purtroppo non vi potrà essere riscossa materiale se prima non v’è
rivolta morale.
Diciamolo francamente, per quanto sia doloroso il constatarlo. Fascisti
ve ne sono anche fuori del partito fascista, ve ne sono in tutte le
classi ed in tutti i partiti: vi sono cioè dappertutto delle persone che
pur non essendo fascisti, pur essendo antifascisti, hanno però l’anima
fascista, lo stesso desiderio di sopraffazione che distingue i fascisti.
Ci accade, per esempio, d’incontrare degli uomini che si dicono e si
credono rivoluzionari e magari anarchici i quali per risolvere una
qualsiasi questione affermano con fiero cipiglio che agiranno
fascisticamente, senza sapere, o sapendo troppo, che ciò significa
attaccare, senza preoccupazione di giustizia, quando si è sicuri di non
correr pericolo, o perché si è di molto il più forte, o perché si è
armato contro un inerme, o perché si è in più contro uno solo, o perché
si ha la protezione della forza pubblica, o perché si sa che il
violentato ripugna alla denunzia – significa insomma agire da camorrista
e da poliziotto. Purtroppo è vero, si può agire, spesso si agisce
fascisticamente senza aver bisogno d’iscriversi tra i fascisti: e
non sono certamente coloro che così agiscono, o si propongono di agire
fascisticamente, quelli che potranno provocare la rivolta morale,
il senso di schifo che ucciderà il fascismo.
E non vediamo gli uomini della Confederazione, i D’Aragona, i Baldesi, i
Colombino, ecc., leccare i piedi dei governanti fascisti, e poi
continuare ad essere considerati, anche dagli avversari politici, quali
galantuomini e quali gentiluomini?
Queste considerazioni, che del resto abbiamo fatte tante volte, ci sono
rivenute alla mente leggendo un articolo di “L’Etruria Nuova” di
Grosseto, che ci siamo meravigliati di vedere compiacentemente
riprodotto da “La Voce Repubblicana” del 22 agosto. È un articolo del
“suo valoroso direttore”, il bravo Giuseppe Benci, il decano dei
repubblicani della forte Maremma (tanto per servirci delle parole della
“Voce”) il quale a noi è sembrato un documento di bassezza morale, che
spiega perché i fascisti hanno potuto fare in Maremma quello che hanno
fatto.
Sono note le gesta brigantesche dei fascisti nella sventurata Maremma.
Là, più che altrove, essi hanno sfogato le loro passioni malvagie.
Dall’assassinio brutale alle bastonature a sangue, dagli incendi e dalle
devastazioni fino alle tirannie minute, alle piccole vessazioni che
umiliano, agli insulti che offendono il senso di dignità umana, tutto
essi hanno commesso senza conoscere limite, senza rispettare nessuno di
quei sentimenti che, nonché essere condizione di ogni vivere civile,
sono la base stessa dell’umanità in quanto è distinta dalla più infima
bestialità.
E quel fiero repubblicano di Maremma parla loro in tono dimesso e li
tratta da “gente di fede” e mendica per i repubblicani la loro
sopportazione e quasi la loro amicizia, adducendo i meriti patriottici
dei repubblicani stessi.
Egli “ammette che il governo (il governo fascista) ha il diritto di
garantirsi il libero svolgimento della sua azione” e lascia intendere
che quando i repubblicani andranno al potere faranno su per giù la
stessa cosa. E protesta che “nessuno potrà ammettere che da noi (a
Grosseto) il partito repubblicano abbia con qualsiasi atto tentato di
ostacolare l’esperienza della parte dominante” e si vanta di “non aver
per nulla intralciata l’azione del governo ritraendosi perfino dalle
lotte elettorali per attendere che l’esperimento si compia. Cioè
attendere che si compia l’esperimento di dominazione su tutta Italia da
parte di quella gente che ha straziato la sua Maremma.
Se lo stato d’animo di quel signor Benci corrispondesse allo stato
d’animo dei repubblicani e la sorte del governo fascista dovesse
dipendere da loro, avrebbe ragione Mussolini quando dice che resterà al
potere trent’anni. Vi potrebbe restare anche trecento.
Errico Malatesta
(“Libero Accordo”, 28 agosto 1923)
Anarchismo, antifascismo e Resistenza
(alcuni volumi consigliati, tutti in commercio. A cura di Massimo
Ortalli)
AA.VV., La resistenza sconosciuta, Milano, Zero in Condotta,
1995
AA.VV., L’antifascismo rivoluzionario tra passato e presente,
Pisa, Bibl. F. Serantini, 1993
Tobias ABSE, Sovversivi e fascisti a Livorno (1918-1922), Livorno,
Labronica, 1990
Luigi BALSAMINI, Gli arditi del popolo, Casalvelino, Galzerano
editore, 2002
Nanni BALESTRINI, Parma 1922. Una resistenza antifascista, Roma,
Derive approdi, 2002
Luigi DI LEMBO, Guerra di classe e lotta umana, Pisa, Bibl. F.
Serantini, 2001
Ugo FEDELI, La nascita del fascismo, Pescara, Samizdat, 2000
Eros FRANCESCANGELI, Arditi del Popolo. Argo Secondari (1917-1922),
Roma, Odradek, 2000
Riccardo LUCETTI, Gino Lucetti, l’attentato contro il duce,
Carrara, Tipolito, 2000
Pier Carlo MASINI, Mussolini la maschera del dittatore, Pisa,
Bibl. F. Serantini, 1999
M. ROSSI, I fantasmi di Weimar, Milano, Zero in Condotta, 2001
Marco ROSSI, Sovversivi contro fascisti a Livorno (1919-1943),
Livorno, Gruppo Malatesta, 2002
Giorgio SACCHETTI, Camicie nere in Valdarno, Pisa, Bibl. F.
Serantini, 1996
Giorgio SACCHETTI, Gli anarchici contro il fascismo, Livorno,
Sempre Avanti, 1995
Giorgio SACCHETTI, L’imboscata, Foiano, ANPI di Foiano, 2000.
Alfonso
Failla (Siracusa 1906-Carrara 1986) è stato una delle figure
più prestigiose del movimento anarchico di lingua italiana di
questo secolo. Avvicinatosi giovanissimo all’anarchismo si
impegna nella lotta contro il montante regime fascista. Più
volte arrestato e sottoposto a provvedimenti restrittivi, nel
1930 viene spedito al confino ove rimane – salvo una breve
parentesi di libertà vigilata a Siracusa nel ’39 – fino
all’estate del ’43.
Dopo l’evasione in massa dal campo di Renicci d’Anghiari
partecipa alla Resistenza principalmente in Toscana, Liguria e
Lombardia. Nel dopoguerra è tra gli organizzatori della
Federazione Anarchica Italiana redattore e direttore
responsabile del settimanale Umanità Nova attivo nell’Unione
Sindacale Italiana. Tiene centinaia di conferenze, dibattiti e
comizi, l’ultimo dei quali a Pisa dopo l’assassinio di Franco
Serantini.
Dal giugno del ’72, per ragioni di salute è costretto ad
interrompere l’attività pubblica.
Questo volume (pagg. 366 + XXIV, euro 12,90) è suddiviso in tre
sezioni. Nella prima sono raccolte carte di polizia e documenti
relativi al periodo ’22/’43 tratti dal dossier Failla al
Casellario Politico Centrale. Nella seconda sono raccolti gran
parte degli articoli da lui scritti nel secondo dopoguerra.
Nella terza sezione sono raccolte testimonianze della sua
attività.
Per
informazioni e richieste:
La Fiaccola c/o Elisabetta Medda, via Nicotera, 9 – 96017 Noto
(SR).
Distribuzione nelle librerie: Di.Est, via G. Cavalcanti 11,
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