Gli anarchici contro il fascismo
 

1919-1945 (e oltre). Sulle barricate, in carcere, al confino, in Spagna, nella clandestinità.

 

insuscettibili di ravvedimento
 

L’opposizione degli anarchici al fascismo è stata istintiva e immediata fin dal primo manifestarsi dei fasci di combattimento. La controversa esperienza degli Arditi del Popolo. Il confino, le carceri, l’esilio, la partecipazione alla rivoluzione spagnola del ’36, la Resistenza armata contro i nazifascisti: queste le tappe principali dell’impegno antifascista libertario. I rapporti con le altre componenti dell’antifascismo organizzato.

Nel ’20 gli anarchici in Italia erano una forza rivoluzionaria con cui si dovevano fare i conti, una forza con cui dovevano fare i conti padroni, governo e fascisti. Essi avevano un quotidiano, “Umanità Nova”, che tirava cinquantamila copie e numerosi periodici. L’USI, il sindacato rivoluzionario influenzato dagli anarchici (segretario ne era l’anarchico Armando Borghi), contava centinaia di migliaia di iscritti.
Dopo il fallimento dell’occupazione delle fabbriche, gli anarchici, riconoscendo nel fascismo la “controrivoluzione preventiva” (come la definì bene Luigi Fabbri) con cui i padroni avrebbero cercato di impedire il ripetersi di una situazione prerivoluzionaria, gettarono tutte le loro energie nella mischia contro il giovane ma già robusto figlio del capitalismo. La volontà ed il coraggio degli anarchici non poteva però bastare di fronte allo squadrismo, potentemente dotato di mezzi e di armi e spalleggiato dagli organi repressivi dello stato. Tanto più che anarchici ed anarcosindacalisti erano presenti in modo determinante solo in alcune località ed in alcuni settori produttivi.

politica disfattista
 

Purtroppo la politica disfattista del Partito Socialista e della CGL che già aveva ostacolato lo sviluppo rivoluzionario e dunque contribuito al fallimento dell’occupazione delle fabbriche, seminò confusione ed incertezza nel movimento operaio in un momento che già era per molti aspetti di riflusso delle lotte. E questo proprio di fronte al moltiplicarsi ed aggravarsi delle violenze fasciste, soprattutto dopo il ’21.
Ovunque in Italia le squadracce di Mussolini assaltavano le sedi politiche, le redazioni, i militanti più attivi, tutto quanto “puzzasse” di “sovversivo”. Lo stato liberale fu diretto complice sia delle attività criminali sia dell’intera strategia politica del fascismo nella comune lotta contro la combattività dei lavoratori.
Pur essendo essi stessi vittime delle violenze squadriste, i socialisti si limitarono a denunciare le “illegalità” fasciste, senza dedicare tutte le loro energie alla lotta popolare rivoluzionaria contro il terrorismo padronale. Non solo, ma il PSI giunse al punto di stipulare con i fascisti un Patto di Pacificazione (agosto 1921) che contribuì a disarmare il movimento operaio sia psicologicamente sia materialmente, nel momento stesso in cui si intensificavano le violenze squadriste (che continuarono a crescere... in barba al patto!).
Quello che ci interessa sottolineare è che, mentre i vertici politici e sindacali invitavano alla “calma” e alla non violenza, furono gli stessi lavoratori, organizzatisi autonomamente, a dare alcune storiche lezioni ai fascisti. Le insurrezioni di Sarzana (luglio ’21) e di Parma (agosto ’22) sono due esempi della validità della linea politica sostenuta dagli anarchici, allora, sulla stampa e nelle lotte: contro il disfattismo delle burocrazie politico-sindacali, gli anarchici sostenevano infatti l’urgente necessità di battere con la lotta il movimento fascista, stimolando la combattività dei lavoratori. Coerentemente con questo programma gli anarchici si batterono sino in fondo senza quei tentennamenti e quella ricerca di compromessi che caratterizzarono l’attività dei socialisti. Significativa al riguardo la differente posizione assunta da socialisti e comunisti da una parte ed anarchici dall’altra, di fronte al movimento degli Arditi del Popolo.

 

gli arditi del popolo
 

Questo movimento, sorto nel 1920 per iniziativa di elementi eterogenei, si sviluppò rapidamente assumendo caratteristiche marcatamente antifasciste ed antiborghesi, e fu caratterizzato da un marcato decentramento autonomo delle organizzazioni locali. Gli Arditi del Popolo assunsero quindi colorazioni politiche talvolta differenti da un posto all’altro, ma sempre li accomunò la coscienza della necessità di organizzare il popolo per resistere violentemente alla violenza delle camicie nere. Gli anarchici aderirono entusiasticamente alle formazioni degli Arditi e spesso ne furono i promotori individualmente o collettivamente; per restare ai due episodi già accennati basti pensare che in maggioranza anarchici furono i difensori di Sarzana e che a Parma, fra le famose barricate erette per resistere agli assalti delle squadracce di Balbo e Farinacci, ve n’era una tenuta dagli anarchici.
Completamente diverso fu l’atteggiamento sia dei socialisti sia dei comunisti (questi ultimi costituitisi in partito nel gennaio 1921). Nonostante la vasta e spontanea adesione di molti loro militanti agli Arditi del Popolo, entrambe le burocrazie partitiche presero le distanze e cercarono di sabotare lo sviluppo di quel movimento. Gli organi centrali del neonato PCd’I giunsero al punto di imporre ai propri iscritti di evitare qualsiasi contatto con gli Arditi, contro i quali fu imbastita anche una campagna di stampa a base di falsità e di calunnie. Intervistato negli anni settanta alla televisione il comunista Umberto Terracini cercava ancora di giustificare quella scelta politica. E ancora oggi noi, come già ottant’anni fa i nostri compagni, vediamo proprio in quella scelta un esempio tipico della volontà comunista di subordinare la lotta antifascista alla coincidenza con le proprie mire di egemonia sul movimento operaio. È evidente che questa dura critica alla politica dei vertici dei partiti di sinistra di fronte alle violenze fasciste non coinvolge i militanti di base, che – anche se su posizioni da noi molto differenti – dettero il loro contributo di lotta e di sangue alla lotta contro il fascismo.
Il disfattismo socialista ed il settarismo comunista resero impossibile una opposizione armata generalizzata e perciò efficace al fascismo ed i singoli episodi di resistenza popolare non poterono unificarsi in una strategia vincente.

il confino e l’esilio
 

Gli anarchici che, in prima fila nella resistenza al fascismo, si erano esposti generosamente senza calcoli personali o di partito, subirono più duramente degli altri antifascisti (in proporzione alle forze) le violenze squadriste prima e quelle legali poi. All’incendio delle sedi anarchiche e delle sezioni USI, alle devastazioni di tipografie e redazioni, agli ammazzamenti, seguirono i sequestri, gli arresti, il confino... Ai superstiti, perseguitati, disoccupati, provocati, spiati, non restava che la via dell’esilio. Si può dire che nel ventennio fascista ben pochi militanti anarchici (esclusi gli incarcerati ed i confinati) rimasero in Italia e quei pochi guardati a vista ed impossibilitati per lo più anche a svolgere attività clandestina.
Continuano singoli episodi di ribellione a testimoniare, nonostante tutto, l’indomabilità dello spirito libertario. Bastano alcuni esempi.
Il 21 ottobre 1928, l’anarchico Pasquale Bulzamini, a Viareggio, mentre rincasa, viene aggredito da un gruppo di fascisti e ferocemente bastonato. In un caffè, aveva poco prima, deplorato la fucilazione dell’antifascista Della Maggiora. Muore tre giorni dopo, all’ospedale.
Il 7 ottobre 1930, il compagno Giovanni Covolcoli spara contro il Podestà e il segretario del suo paese – Villasanta (Milano) – che lo hanno a lungo perseguitato fino a farlo internare nel manicomio. Riconosciuto sano di mente e rilasciato in libertà, ha voluto vendicarsi contro i suoi tenaci persecutori.
Nell’aprile del 1931, a La Spezia, il giovane anarchico Doro Raspolini spara alcuni colpi di rivoltella contro l’industriale fascista De Biasi per vendicarsi contro uno dei maggiori responsabili dell’assassinio di suo padre, Dante, attivo anarchico, massacrato nel 1921 a Sarzana colpito da innumerevoli revolverate e da 12 colpi di pugnale e quindi – legato ancor prima che morisse ad un’automobile – così trascinato per diversi chilometri). Doro Raspolini muore nelle carceri di Sarzana in conseguenza delle sofferenze e torture inflittegli dai fascisti.
Il 16 aprile 1931, i compagni Schicchi, Renda e Gramignano vengono condannati dal Tribunale Speciale, a Roma, rispettivamente ad anni 10, 8 e 6 di reclusione. Erano imputati di essere rientrati dall’estero per svolgere attività contro il fascismo.

 

la Resistenza
 

Il ’43 vede dunque gli anarchici della generazione prefascista sparsi tra esilio, confino e galere. Poche tracce sono rimaste dell’influenza anarchica ed anarcosindacalista. I pochi militanti liberi dapprima e gli ex confinati poi riprendono con immutato vigore i loro posti di combattimento, chi nella lotta armata, chi nell’organizzazione della resistenza operaia, chi nella propaganda clandestina al nord e semiclandestina al sud nelle zone “liberate” (si fa per dire), dove gli alleati non concedono la libertà di stampa agli anarchici, preoccupati (giustamente dal loro punto di vista) che la lotta antitedesca ed antifascista potesse diventare rivoluzione sociale.
Per quanto riguarda la partecipazione degli anarchici alla lotta armata partigiana, essa avvenne per lo più all’interno di formazioni politicamente miste. Solo in quelle poche località in cui la presenza di anarchici e simpatizzanti era nonostante tutto sufficientemente numerosa, i compagni organizzarono formazioni proprie, inquadrate però anch’esse, spesso a seconda della situazione locale, nelle divisioni Garibaldi (controllate dai comunisti) Matteotti (socialiste) e Giustizia e Libertà (espressione dei “liberalsocialisti” del Partito d’Azione).
La mancata autonomia (che quasi sempre, dati i rapporti di forza, significò dipendenza) dalle formazioni partigiane partitiche fu dovuta non solo alla quasi generale esiguità numerica del superstite movimento anarchico, ma anche al fatto che gli alleati si rifiutavano (sempre giustamente, dal loro punto di vista) di rifornire di armi e munizioni le formazioni anarchiche.
In questo contesto il valore e spesso l’estremo sacrificio di tanti anarchici furono sfruttati da altre forze politiche e poterono così servire ben poco alla radicalizzazione rivoluzionaria del movimento partigiano. Scarsa risultò in definitiva l’influenza politica anarchica nella Resistenza, che venne incanalata dai partiti antifascisti (dai liberali ai comunisti) verso quella restaurazione “democratica borghese” che è ancora oggi sotto i nostri occhi.
 

Paolo Finzi

 

 

 

i cavalieri erranti
 

“Abituati” all’esilio, gli anarchici di lingua italiana vissero numerosissimi una vera e propria diaspora, durante il nero ventennio. I più si rifugiarono in Francia, ma anche in USA, Svizzera, Belgio, Inghilterra, ecc.
La tragica sorte di quanti cercarono rifugio nella Russia dei soviet e si ritrovarono perseguitati dal regime comunista.

 

Primissimo pensiero degli anarchici nell’esilio fu la stampa per continuare anche dall’estero gli attacchi al regime fascista.
Il 1° maggio del ’23 esce a Parigi “La voce del profugo”, ed il 3 giugno il quindicinale “Il profugo”.
Cominciarono intanto le provocazioni criminali dei fascisti: il 3 settembre sempre a Parigi il giovane anarchico Mario Castagna viene aggredito da una banda di fascisti e nella colluttazione contro i suoi aggressori ne uccide uno.
Pochi mesi dopo, il 20 febbraio 1924, il giovane anarchico Ernesto Bonomini uccide, in un ristorante di Parigi, con alcuni colpi di rivoltella, il gerarca fascista Nicola Bonservizi, segretario dei fasci all’estero, corrispondente del “Popolo d’Italia” e redattore del giornale fascista di Parigi “L’Italie Nouvelle”. Il nostro compagno dichiarerà di aver voluto protestare contro i delitti impuniti dei fascisti e dei loro complici. Verrà condannato ad otto anni di galera. Un altro giornale vedrà la luce il primo maggio, sempre a Parigi, a cura di compagni italiani: “L’Iconoclasta”; inoltre sempre in quell’anno alcuni anarchici danno vita ad un giornale clandestino intitolato “Compagno, ascolta!” dove vengono date indicazioni per una lotta energica e spietata, nell’eventualità di una insurrezione in Italia.
Dopo pochi giorni dal delitto Matteotti si costituisce a Parigi un comitato animato dagli anarchici e che darà vita in seguito ad un altro giornale dal titolo “Campane a stormo”, la cui redazione verrà affidata al compagno Alberto Meschi. Per il delitto Matteotti gli anarchici italiani in Francia danno inizio anche ad una campagna nazionale generale che culmina nella distribuzione di migliaia e migliaia di volantini in cui venivano denunciati i crimini dei fasci (luglio 1924).
Durante l’anno 1925 gli anarchici italiani continuano la loro attività antifascista, mentre prosegue la pubblicazione di giornali e riviste; basterà qui ricordare “La tempra” e “Il monito”.
In questi anni le persecuzioni, le privazioni di ogni genere, le più vili angherie nei confronti degli anarchici continuano da parte di agenti fascisti in Francia.
Comunque essi non piegarono. Proprio in quei giorni (11 ottobre 1927) Luigi Fabbri, insegnante, dopo essersi rifiutato di prestare giuramento al fascismo ed essere riuscito a rifugiarsi in Francia, pubblica a Parigi, con Berneri e Gobbi, il giornale “Lotta umana”.

 

via individuale
 

Continuano intanto le persecuzioni e gli arresti e le espulsioni. Nel marzo del 1928 a Parigi viene arrestato il compagno Pietro Bruzzi; altri due compagni, Carlotti e Centrone (che morirà valorosamente in Spagna) vengono prima arrestati e dopo espulsi.
La risposta il più delle volte è opera di coraggiosi militanti che agiscono sempre in via individuale. Il 22 agosto a Saint Raphael (Francia) il console, noto fascista, marchese Di Mauro viene fatto segno di un attentato. Pochi mesi dopo novembre, il giovane anarchico Angelo Bartolomei, con un colpo di rivoltella, uccide il prete fascista don Cesare Cavaradossi. Questi, vice console, gli aveva proposto, per evitare l’espulsione dalla Francia, di tradire i compagni e di diventare suo confidente. Il Bartolomei riesce a fuggire da Nancy e a rifugiarsi in Belgio, dove però verrà arrestato nel gennaio del 1929.
Anche in altri paesi gli anarchici italiani continuano a subire persecuzioni ed arresti per la loro attività antifascista. Nel luglio del 1928 in Belgio l’anarchico Gasperini ricorre allo sciopero della fame per ribellarsi all’estradizione chiesta dal governo italiano (aveva ferito, assieme ad altri compagni, alcuni fascisti nel 1921). Il governo belga concederà invece l’estradizione del compagno Carlo Locati.
L’espulsione è una sorte che colpirà moltissimi compagni. Infatti pochi mesi dopo, il 13 agosto, a Liegi, il compagno Gigi Damiani viene prima arrestato e poi espulso (Tunisia). A questa ondata di persecuzioni che vede gli anarchici italiani colpiti sempre in prima fila, il movimento cerca di rispondere come può.
Ormai, però, diventa difficile anche la pura sopravvivenza, per le continue espulsioni che colpiscono chiunque faccia una energica attività antifascista: nel gennaio del ’29 i compagni Gobbi, Berneri, Fabbri e Fedeli, in seguito alle forti pressioni del governo italiano, vengono arrestati a Parigi e condotti alla frontiera con il Belgio. È questo l’inizio della odissea di Berneri e di tanti altri compagni. Arrestati in una parte ed espulsi, non resta che cambiar nome e attività, attraverso la Francia, il Belgio, il Lussemburgo, la Svizzera, sempre braccati e senza posa.
Nel settembre del 1929 a Saarbrucken (Germania) il giovane anarchico Enrico Manzoli (Morano), aggredito da un gruppo di fascisti appartenenti ai “caschi di acciaio”, si difende e ne uccide uno. Altri anarchici, però, cadranno sotto i colpi dei fascisti: nel gennaio del 1930, a Nizza, è ucciso da un ex carabiniere il compagno Vittorio Diana, a causa del suo intransigente atteggiamento in occasione delle manifestazioni fasciste per l’inaugurazione di un gagliardetto. Pochi mesi prima era morto in seguito ai patimenti e privazioni, presso Parigi, il giovane anarchico Malaspina, braccato senza posa dalle polizie di vari paesi. Era stato imputato di aver lanciato una bomba contro la Casa del fascio di Juan-les-pins. Assolto per insufficienza di prove, era stato in prigione e più volte torturato.
Il 1929 vede gli anarchici ancora in prima fila nella lotta al fascismo, anche se tale lotta è affidata, data la scarsità pressoché totale di mezzi, alla sola volontà e al solo coraggio. Nel giugno del 1929 i compagni raccolti attorno alla redazione della rivista “Lotta Anarchica”, fanno arrivare in Italia, clandestinamente, un giornale di piccolo formato e stampato su carta velina.
Si tenta anche di passare all’azione: nell’agosto dello stesso anno l’anarchico Paolo Schicchi (compie in quell’anno 65 anni!) si imbarca dalla Francia e poi in Tunisia per la Sicilia, dove vuole suscitare con il proprio esempio un movimento di ribellione contro il fascismo; ma al suo arrivo a Palermo viene immediatamente arrestato assieme al compagno Gramignano. Vennero condannati rispettivamente a 10 e a 6 anni di galera. Il compagno Renda, anch’egli partecipante all’impresa, venne condannato a 8 anni.
Nel gennaio del 1931 a Parigi si tiene un convegno di anarchici per intensificare la lotta clandestina in Italia, lotta che porterà molti compagni ad essere arrestati e deportati al confino. Questo non impedì di continuare a spedire materiale in Italia portato da vari compagni. Gli anarchici comunque in quegli anni collaborarono anche con altre formazioni antifasciste, soprattutto con Giustizia e Libertà, senza interrompere la serie di continue azioni individuali.
Anche in America gli anarchici svilupparono una forte attività antifascista. Già il 16 giugno del ’23 il governo fascista premeva su quello americano per far chiudere il foglio anarchico “l’Adunata dei Refrattari”. La risposta degli anarchici non si fece attendere: il 24 novembre scoppia una bomba al consolato italiano mandandolo completamente in rovina. Tutto l’anno 1924 segna una serie continua di manifestazioni antifasciste organizzate ed animate dagli anarchici. A Cuba, per esempio, gli anarchici organizzarono uno sciopero generale in occasione dell’arrivo di una nave italiana (27 settembre 1924).
Non si contano le provocazioni fasciste di quegli anni, sebbene il più delle volte i fascisti ricevano delle lezioni durissime, come nel caso di una provocazione fascista ad un comizio anarchico (16 agosto 1925) a New York. Certo gli anarchici, sebbene pochi e sempre perseguitati e soprattutto senza nessun appoggio esterno, furono in quegli anni una spina non indifferente per il governo americano. Non passava giorno che alle provocazioni fasciste, appoggiate e protette, certe volte dalle autorità americane, gli anarchici non rispondessero per le rime. Il ’26 e il ’27 sono due anni infuocati per il movimento anarchico negli Stati Uniti. Infatti, in quegli anni, alla protesta contro i fascismo, si assomma la protesta contro la criminale condanna a morte di Sacco e Vanzetti.
È praticamente impossibile enumerare qui tutte le manifestazioni, gli attentati, e gli scontri sia contro le autorità americane che contro i fascisti. Son gli anni in cui gli anarchici venivano presi molte volte a pistolettate sulla pubblica via, sia da poliziotti americani che da agenti fascisti.
Anche negli anni seguenti, fino al ’36, continuarono da parte degli anarchici manifestazioni e attività antifasciste che culminarono in arresti e deportazioni in Italia. Molti compagni, come Armando Borghi, vissero lunghi anni clandestinamente, a causa di tali persecuzioni. Altri, sfuggiti miracolosamente a tante peripezie, morirono valorosamente in Spagna, o fatti prigionieri, vennero poi deportati in Italia.

 

 

 


coatti e baldi
 

Nelle varie isole di confino gli anarchici costituirono una vivace comunità, secondi per numero solo ai comunisti.
 

L’8 novembre 1926 fu pubblicato sulla “Gazzetta Ufficiale” il decreto che istituiva il “Tribunale Speciale per la difesa dello Stato” e le “Commssioni provinciali per l’assegnazione al Confino di Polizia”. Ma fin da prima di quel decreto molti anarchici furono relegati su quelle isole sperdute nel Mediterraneo che già erano state utilizzate alla fine dell’800 per tenervi raccolti (ed isolati dal mondo esterno) i sovversivi.
Al confino, gli anarchici costituirono sempre un gruppo compatto e battagliero, e seppero combattere la dittatura fascista anche in quelle dure condizioni. Basti pensare alle condanne al carcere subite da 152 confinati politici che nel 1933 organizzarono a Ponza le proteste contro i continui soprusi della direzione della Colonia; numerosi, fra questi condannati, gli anarchici (Failla, Grossuti, Bidoli, Dettori, ecc.). L’anno successivo l’anarchico Messinese, confinato ad Ustica, prese a schiaffi il direttore della Colonia che voleva obbligarlo a fare il saluto romano. La ribellione contro simili soprusi si estese progressivamente ad altre isole, in particolare a Ventotene ed a Tremiti, portando a nuove condanne contro compagni nostri.
Uniti da stretti vincoli di solidarietà, gli anarchici riuscirono a far giungere e circolare clandestinamente fra i compagni alcuni testi anarchici e sostennero nel contempo vivaci polemiche con gli altri confinati. Particolarmente tesi furono sempre i rapporti fra confinati comunisti ed anarchici poiché i primi, ligi alle direttive politiche provenienti dal Partito e da Mosca, fecero sempre di tutto per ostacolare l’attività politica dei libertari. Ad acutizzare questa polemica giunsero, a partire dal 1936, le notizie dal fronte spagnolo, che, seppur senza precisione, riferivano di scontri armati fra anarchici e stalinisti.
Ribelli ad ogni autorità, gli anarchici tennero costantemente un comportamento fiero e deciso, e furono sempre ritenuti i più pericolosi e sediziosi dalle autorità del confino; questa pessima (e meritata) fama presso le alte gerarchie fasciste fu causa di nuove persecuzioni e condanne e spesso dell’allungamento della pena di confino senza neppure una parvenza di processo. Accadde così che alcuni compagni, pur condannati inizialmente a pochi anni, dovettero restare sulle isole fino al 1943, quando, con la caduta del fascismo in luglio, esse furono “smobilitate”.
Significativa al riguardo la liquidazione del confino di Ventotene, dove era stato concentrato un numero elevato di anarchici. Quando giunse la notizia della caduta del fascismo i primi ad esser liberati furono i militanti di Giustizia e Libertà, cattolici, repubblicani e testimoni di Geova; per cui in un primo tempo rimasero a Ventotene solo comunisti, socialisti e anarchici. Quando però il maresciallo Badoglio chiamò al governo Roveda per i comunisti e Buozzi per i socialisti, questi pretesero ed ottennero la liberazione dei carcerati comunisti e socialisti, trascurando gli anarchici ed i nazionalisti sloveni. Si ruppe così quel vincolo di solidarietà che, al di là delle accese polemiche, aveva pur sempre legato le varie comunità politiche di confinati di fronte al comune nemico fascista. Nonostante alcuni militanti dei partiti di sinistra cercassero di rifiutarsi di partire per non lasciar soli gli anarchici, il grosso dei confinati se ne andò libero, noncurante di quelli che erano costretti a restare sull’isola. Gli anarchici, dopo una decina di giorni dalla partenza degli altri, furono trasportati, per nave e poi in treno, fino al campo di concentramento di Renicci d’Anghiari (Arezzo). Durante questo lungo viaggio di trasferimento molti compagni cercarono di fuggire, eludendo la stretta vigilanza di poliziotti e carabinieri, ma solo uno riuscì nel suo intento. Appena giunti nel campo gli anarchici ebbero a scontrarsi con le autorità e due compagni nostri furono immediatamente segregati in cella; questo diede l’avvio alle proteste ed alla continua agitazione degli anarchici (fra i quali ricordiamo Alfonso Failla, la cui testimonianza riportiamo qui di seguito) che giunsero a scontrarsi violentemente con le forze dell’ordine del campo. Successivamente, comunque, alcuni riuscirono a fuggire ed andarono a costituire le prime bande partigiane delle zone circostanti. Solo nel settembre le guardie se la squagliarono ed i compagni lasciarono il campo, appena prima che arrivassero tedeschi.
 

Camillo Levi

 

nel campo di Renicci
 

Nella testimonianza (tratta da “L’Agitazione del Sud”, settembre 1966) di uno dei protagonisti delle lotte nelle isole di confino e nelle carceri fasciste, la storia del campo di concentramento di Renicci d’Anghiari, nel 1943.
 

Dopo il 25 luglio 1943 – data della caduta del fascismo – la liberazione dei confinati politici che si trovavano in quella data nell’isola di Ventotene ebbe inizio soltanto oltre due settimane dopo che il governo Badoglio, rifacendosi alle tradizioni dell’Italia borghese e monarchica, iniziò la liberazione degli antifascisti incominciando, nell’ordine di precedenza, dai moderati fino ai giellisti, repubblicani, socialisti e comunisti.
Coerentemente ai contatti avuti e con gli impegni presi con i vari partiti dello schieramento parlamentare tradizionale, noi anarchici, esclusi dalla liberazione di fronte al progressivo avanzare nel Sud degli eserciti angloamericani – fummo invece trasferiti al campo di concentramento di Renicci di Anghiari in provincia di Arezzo.
Con noi furono pure esclusi dalla liberazione comunisti e nazionalisti jugoslavi e albanesi ed alcuni antifascisti italiani. C’imbarcarono intorno al 20 d’agosto su una corvetta della regia marina non attrezzata al salvataggio di centinaia di persone nel caso di un probabile attacco di sottomarini. Quando la nave uscì dal porticciolo di Ventotene, prima di virare per Gaeta, gridammo ripetutamente il nostro saluto al compagno Gino Lucetti prigioniero nell’ergastolo dell’isola di Santo Stefano.
Dopo alcune ore di sosta a Gaeta, dove avemmo i primi saluti dal compagno Salvatore Vellucci, dai suoi figli e da sua moglie, incominciò il nostro viaggio verso il campo di concentramento. Eravamo scortati da carabinieri ed agenti della PS.
Non eravamo ammanettati tanto che fu facile a parecchi compagni tra i quali i fratelli Girolimetti, Giorlando, ecc. di evadere. In tutte le stazioni improvvisammo comizi, affacciati dai finestrini, incitando alla lotta radicale contro il fascismo ed il nazismo. A Roma il nostro treno fu sballottato da una stazione all’altra, si disse per proteggerci dai bombardamenti aerei ma in realtà per impedire i nostri contatti con i compagni romani e le nostre proteste per la nostra mancata liberazione.
Ricordo con dispiacere un tentativo di evasione del mio compagno Arturo Messinese fallito per un casuale incontro con un gruppo di nostri guardiani che rientravano in stazione dopo essersi allontanati temporaneamente. Lungo tutto il viaggio, nelle soste delle varie stazioni i nostri inviti alla lotta contro il fascismo incontrarono lo stupore e l’indecisione popolare. Fu ad Arezzo che notammo una diffusa e simpatica comprensione solidale da parte di centinaia di persone che si trovavano in quella stazione. Fu qui che vedemmo per l’ultima volta il compagno Zambonini. Era stato un forte e deciso militante, ferito nella guerra di Spagna ed ospite, con noi, nell’isola di Ventotene durante la seconda guerra mondiale.


 

“Sparate vigliacchi!”
 

Alla partenza da Ventotene, di fronte alle nostre proteste per la mancata liberazione c’era stato promesso che saremmo stati liberati nei giorni seguenti, in terra ferma. Il compagno Zambonini alla stazione di Arezzo si rifiutò di proseguire per il campo di concentramento, perciò venne condotto in carcere. Dopo, durante la resistenza, sarà fucilato dai nazifasciti nel poligono di Reggio Emilia.
Arrivati, sull’imbrunire, alla stazione di Anghiari fummo ricevuti da alcune centinaia di carabinieri e soldati ai quali sentimmo distintamente rivolgere dai loro ufficiali l’ordine di caricare le armi. Protestammo energicamente.
In un alterco con gli ufficiali che ci insolentivano minacciando fucilazioni, i compagni Marcello Bianconi e Arturo Messinese gridarono: “Sparate vigliacchi!”. Perciò furono immediatamente condotti in cella di sicurezza. Così ebbe inizio la nostra agitazione contro il regime interno del campo di concentramento.
Questo era stato fino ad allora uno dei peggiori del genere. I prigionieri erano in massima parte partigiani jugoslavi e con essi erano centinaia di minorenni e ragazzi di pochi anni. Il regime alimentare era stato sempre più scarso e pessimo; centinaia di internati, specialmente bambini e ragazzi erano morti a causa del pessimo trattamento. In cambio la sorveglianza era feroce e bestiale. Guardavano i prigionieri centinaia di soldati e carabinieri, richiamati, quest’ultimi, dalle regioni Toscana e limitrofe. Il comandante in seconda, maggiore Fiorenzuoli, ed il tenente Panzacchi si distinguevano per i loro arbitrii. Era perfino proibito che gli internati delle varie sezioni in cui era diviso il campo si avvicinassero alle reti metalliche divisorie per conversare reciprocamente. Il mattino seguente il nostro arrivo i nostri aguzzini fecero una dimostrazione di forza. Le minacce degli ufficiali rivolte a noi con lo spiegamento dei picchetti armati seguendo l’arresto dei compagni Bianconi e Messinese volevano conseguire lo scopo di intimidirci e renderci alla loro mercé. Costituivamo, insieme ai compagni reduci dalle lotte combattute nell’esilio in Spagna, l’aggrupamento più provato dalle lotte che in carcere e al confino ci erano costate ulteriori condanne ad anni di carcere e di confino supplementari, oltre che la vita di parecchi compagni, per difendere la nostra dignità umana dagli arbitrii della milizia e della polizia fasciste. E l’odore di polvere era per noi un maggiore incentivo a non desistere dalla lotta iniziata contro gli aguzzini del campo di concentramento di Renicci di Anghiari. Reclamammo libertà di comunicazione tra i prigionieri dei vari settori, la cessazione degli arbitrii perpetrati specialmente dal tenente Panzacchi coadiuvato da alcuni soldati come lui dichiaratamente fascisti. E il ritorno tra noi dei compagni Bianconi e Messinese. Dopo alcuni giorni di dure schermaglie il comandante del campo, il colonnello Pistone, decise di togliere il divieto di intercomunicazione tra i prigionieri dei vari raggi ed ai ragazzi fu raddoppiata la razione alimentare che era costituita da qualche centinaio di grammi di pane e di poca minestra, alternativamente di carota o di patate non sbucciate e di acqua pompata direttamente dal sottostante fiume Tevere, che provocava epidemie di coliti e dissenteria.
I nostri rapporti con i custodi rischiarono di arrivare ad una rottura tragica. Si pretendeva che all’appello mattutino noi si fosse allineati militarmente e che uno di noi stessi, in funzione di caporeparto, ci avesse contati e presentati all’ufficiale di ispezione.

 

solidarietà internazionale
 

Continuammo per parecchi giorni a rifiutarci. Il nervosismo, tra gli ufficiali specialmente, era al parossismo. Il compagno Emilio Canzi, quando stavamo arrivando all’urto, intervenne. Ci pregò di non formalizzarci e si assunse egli l’ingrato compito. Così ci allineavamo alla meglio e gli ufficiali dal canto loro accettarono il compromesso. Però gli occhi di Emilio Canzi, nel presentarci senza formalità all’ufficiale lo superavano in altezza morale molto più di quanto glielo consentiva la sua già alta statura fisica.
Qualcuno, tra noi, masticava amaro sulla “incoerenza” di Emilio Canzi che allora aveva già nella mente la costituzione dei primi nuclei partigiani che nella sua nativa zona di Piacenza, sul finire della guerra, costituivano un insieme di circa diecimila uomini. Le migliaia di partigiani jugoslavi che popolavano il campo, comunisti o nazionalisti, avevano fino allora conosciuto gli italiani come aguzzini e fascisti e perciò erano animati da profondo odio sciovinista antiitaliano nonostante che fossero formalmente osservanti della disciplina al punto che nel presentarsi ogni mattina sembravano un reparto delle stesse truppe che ci tenevano prigionieri.
La nostra manifestazione di solidarietà internazionale, da essi non richiesta, impresse uno spirito nuovo nel loro comportamento e l’Italia da quel momento per essi non fu più soltanto la patria del fascismo che li opprimeva ma anche di uomini militanti nella lotta internazionalista per la libertà dei popoli. Questo spirito internazionalista risorto dall’azione nei cuori e nei canti si confuse anche nel sangue di due prigionieri, uno slavo e un anarchico italiano, la sera del 9 settembre 1943. Quel giorno avevamo appreso che il fascismo con l’aiuto di Hitler aveva ricostruito un governo Mussolini nell’Italia centrosettentrionale. Noi ce ne accorgemmo per i preparativi dei baldanzosi ufficiali e soldati fascisti che ripresero il sopravvento sulla parte moderata del comando. In tutte le sezioni del campo i prigionieri jugoslavi che noi vedevamo ogni mattina allinearsi disciplinatamente si rivelarono formazioni militari già preparate. Nei comizi che si tennero in tutte le sezioni chiesero al comando militare le armi per marciare contro i nazisti. Nella nostra sezione aveva la parola vibrante Ganu Kriezju uno dei tre fratelli notabili albanesi che dividevano con noi l’internamento a Ventotene. In quel momento udii la cornetta del posto di guardia che chiamava il picchetto armato, di corsa. Non dubitai che esso si sarebbe diretto prima che altrove alla nostra sezione per l’odio che i fascisti risentivano contro noi anarchici, ultimi arrivati. Mi diressi perciò all’entrata per osservare ciò che stava per accadere, in tempo per udire chiaramente l’ordine dato dal maggiore Fiorenzuoli agli uomini del picchetto di caricare a salve e di sparare subito dopo avere intimato seccamente agli internati l’ordine di sciogliere il comizio e di ritirarsi nei cameroni. Non tutti gli internati ebbero il tempo di rendersi conto di ciò che accadeva. Subito dopo i primi spari di fucileria del picchetto armato agli ordini di Fiorenzuoli seguirono quelli incrociati delle mitragliatrici poste circolarmente sulle torrette di guardia che cingevano il campo.

silenzio apparentemente disarmato
 

Prima di chiudere questo modesto ricordo dei numerosi compagni che poi lasciarono la vita nella lotta contro il nazifascismo o negli stenti derivati dai mali contratti nelle galere e nelle isole di confino del regime fascista, voglio rievocare la grandezza umana di un ufficiale di comando di Renicci di Anghiari. Aveva in consegna una quarantina di noi per condurci alla prefettura di Arezzo da dove avremmo dovuto essere liberati.
In viaggio gli facemmo osservare che Arezzo era già nuovamente in mano ai fascisti ed ai tedeschi e condurci là equivaleva a portarci alla morte.
Quell’ufficiale, nelle quotidiane discussioni che facevamo dimostrava idealità fasciste però era alieno da atti arbitrari come quelli che erano cari al tenente Panzacchi, suo collega. Alle nostre insistenze, arrivati in località S. Firenze pochi chilometri prima di Arezzo ci fece scendere dal camion e, chiamati in disparte chi scrive e Mario Perelli, ci consegnò l’elenco del nostro gruppo dicendomi: “Voi siete responsabili di questi uomini”! Quindi fece girare il camion e ritornò con i soldati della scorta al campo. Era il tenente Rouep, fiorentino, veniva dagli alpini.
Io e Perelli bruciammo il foglio. Quel gruppo di compagni si sciolse e ciascuno si avviò in direzioni diverse verso tutte le strade che ricordano vivi e morti, la loro presenza nella storia vera della lotta per la libertà. Storia che deve sempre essere “fatta” prima che gli altri, quelli che di solito scrivono e sistemano arbitrariamente i fatti della storia, possano scrivere la “storia” che non hanno “fatta”.
E questo è un discorso che può anche essere valido in relazione agli episodi che ho ricordato. Ed ai molti altri che restano da ricordare.
 

Alfonso Failla

 


Spagna 1936
 

Tra i primi ad accorrere in Catalogna all’indomani del golpe del generale Franco, gli anarchici italiani costituirono uno dei gruppi più impegnati al fronte.
E soprattutto furono tra i più decisi oppositori della politica staliniana sostenuta dai vari Togliatti, Vidali, ecc. La tragica e simbolica vicenda di Camillo Berneri.

 

La notizia che in Spagna era scoppiata la rivolta popolare contro il “golpe” di Franco fu come lo scoppio di una bomba, negli ambienti dell’emigrazione antifascista italiana a Parigi. Gli esuli, da anni costretti a lottare sulla difensiva, videro subito che in terra di Spagna si osava finalmente dire chiaramente no al fascismo, e si impugnavano le armi per impedirne il trionfo.
Mentre alcuni compagni partirono immediatamente per andare a combattere a Barcellona, molti altri si preparavano a partire e si riunivano frequentemente per decidere il da farsi. Ad un convegno appositamente indetto, di tutte le forze politiche antifasciste italiane a Parigi, sia Longo per i comunisti sia Buozzi per i socialisti dichiararono che i loro partiti erano disposti ad inviare aiuti sanitari e a dare un appoggio morale al popolo spagnolo, ma non erano d’accordo per un intervento armato. Il rappresentante dei repubblicani restò sulle generali, evitando qualsiasi impegno, per cui gli anarchici ed i “giellisti” (militanti del movimento Giustizia e Libertà) furono gli unici a sostenere la necessità di un’immediata partenza per la Spagna. E così fecero.
Il 18 agosto 1936, infatti, meno di un mese dopo l’insurrezione popolare (19 luglio), partì per il fronte d’Aragona un primo scaglione di antifascisti italiani, arruolatisi volontariamente nella sezione italiana della colonna Ascaso, organizzata e formata da militanti anarchici della FAI e anarcosindacalisti della CNT. La maggior parte di questi primi volontari italiani erano anarchici (un centinaio).
Altri anarchici italiani, giunti in Spagna successivamente, si aggregarono alla colonna Durruti (CNT-FAI), alla colonna Tierra y Libertad (CNTFAI), alla colonna Ortiz (CNT-FAI) e ad altre formazioni. Secondo una stima documentata dai registri di arruolamento della sezione italiana, depositati presso la CNT-FAI, gli anarchici italiani combattenti in Spagna furono seicentocinquantatre.
Nei primissimi mesi dell’inizio della rivoluzione moltissimi compagni italiani furono trascinati da un entusiasmo rivoluzionario che li portò sempre in prima fila: è in questo periodo che morirono e rimasero feriti la maggior parte di essi. Molti compagni feriti ritornarono al fronte a combattere nuovamente. Questo, per esempio, è il caso del compagno Pio Turroni, che ferito una prima volta in ottobre ritornò dopo pochi mesi al fronte, dove rimase nuovamente ferito; rientrò quindi a Barcellona, dove fu commissario politico per gli italiani, nella caserma Spartacus.
Gli anarchici italiani mantennero sempre una posizione coerente, soprattutto di fronte alla controrivoluzione comunista, come nelle giornate del maggio ’37 a Barcellona. Non è un caso che gli stalinisti in quei giorni assassinarono gli anarchici italiani Camillo Berneri (che redigeva a Barcellona il periodico in lingua italiana “Guerra di classe”) e Francesco Barbieri.
Anche di fronte al processo di militarizzazione la loro posizione intransigentemente rivoluzionaria fu espressa in modo pressoché unanime. Già il 10 ottobre prima, e il 13 novembre poi, stilarono rispettivamente due documenti in cui denunciavano il pericolo di involuzione controrivoluzionaria, se fosse passato, come poi passò, il processo di militarizzazione (documenti firmati, per la sezione italiana della colonna Ascaso, da Rabitti, Mioli, Buleghin, Petacchi, Puntoni, Serra, Segata). Anche se durante le tragiche giornate della controrivoluzione comunista essi si trovarono in disaccordo con la “dirigenza” della FAI e della CNT e nonostante avessero ormai compreso che le sorti della rivoluzione volgevano al peggio, essi continuarono a combattere e a morire.
Sono circa sessanta gli anarchici italiani morti in Spagna e centocinquanta i feriti, di cui molti morirono più tardi a causa delle privazioni sopportate nei campi di concentramento in Francia.

 

il senso di una presenza
 

Il contributo anarchico alla Resistenza non si limitò solo alle azioni militari. Ove possibile, i militanti anarchici si impegnarono nell’organizzare e difendere la vita delle popolazioni duramente colpite dalla brutalità della guerra istituendo spacci e cooperative di produzione e consumo, embrioni di quella società più libera e giusta alla cui costruzione avevano dedicato la loro vita.
 

Nel corso degli ultimi anni numerosi storici hanno intrapreso una revisione critica rispetto alle forze ed agli ideali che hanno agitato la prima metà del secolo scorso. Ciò che accomuna tutti questi lavori è la costante rimozione dell’antifascismo, della sua tensione rivoluzionaria e delle sue componenti ideologiche. Al contrario il fascismo, quello storico, è stato oggetto di una rivalutazione storiografica, che trova l’esempio più fine, sistematico ed acuto nell’opera di Renzo De Felice, e in quella dei suoi collaboratori raccolti attorno alla sua collana “I fatti della storia” edita da Bonacci. Questa interpretazione elude e manipola le responsabilità storiche e politiche del fascismo, ne minimizza la natura reazionaria, antiproletaria ed antidemocratica e accomuna un regime distruttivo, liberticida e totalitario ai governi autoritari ai quali era abituato il nostro gracile sistema liberale. La Resistenza, di cui volutamente si ignora la dimensione europea, viene vista solamente nell’ottica italiana, come crudele guerra civile dove gli uni e gli altri vengono posti sullo stesso piano.
Questa revisione storica – un fenomeno che coinvolge tutta l’Europa, si pensi al revisionismo storico dei Nolte, dei Rassinier, degli Irving che negano la realtà dell’Olocausto o ne riducono la portata fino ad annullare le responsabilità del regime nazista – si esprime anche attraverso la rimozione dagli studi e dalle analisi della consistenza e del ruolo che svolsero in quegli avvenimenti le minoranze, quelle minoranze agenti, come furono gli anarchici o i militanti di Giustizia e Libertà, o quelle minoranze guida, come cercarono di essere i comunisti e i socialisti.
Una colpa, questa, imputabile anche alla storiografia ufficiale della Resistenza, che più preoccupata di istituzionalizzare e di sacralizzare la lotta antifascista, ha sistematicamente censurato o mistificato quelle esperienze difficilmente riconducibili entro le scelte politiche dettate dalla ricostruzione o dalla guerra fredda, liquidando sbrigativamente la scomoda opposizione di quei movimenti e gruppi rivoluzionari che lottarono contro il Fascismo per compiere quella rivoluzione sociale che avevano da sempre preconizzato.

inferiorità psicologica
 

Non è un caso dunque che, se si escludono pochi accenni in alcune pagine di Ferruccio Parri, nelle lezioni di Carlo Francovich e negli scritti di pochi altri, non vi sia traccia nella storiografia della Resistenza della presenza anarchica nella lotta partigiana. Eppure la Resistenza, senza citare coloro che caddero in Spagna donando la propria vita per la libertà di tutti, prende anche i nomi delle brigate Malatesta e Bruzzi che operarono in Lombardia, della formazione Amilcare Cipriani a Como, delle pistoiesi, Squadre Franche Libertarie, delle formazioni libertarie liguri, del Battaglione Lucetti e della Elio di Carrara.
Gli anarchici parteciparono alla Resistenza in maniera massiccia e pagarono un alto tributo di uomini e di sangue, ma subirono l’egemonia delle altre forze della sinistra, in particolare per l’assenza di un’organizzazione specifica e di un comando militare unico che inquadrasse tutto il movimento nella lotta di liberazione. Naturalmente si organizzarono in proprie formazioni partigiane, ma di regola si trovarono inquadrati nelle Garibaldi, nelle Matteotti, nelle formazioni di Giustizia e Libertà. “Le loro formazioni di combattimento – scrive Gino Cerrito in merito alla partecipazione anarchica alla Resistenza – rimangono legate al Partito comunista, al Partito socialista, al Partito d’azione. Nei CLN ai quali partecipano con delegati qualificati non riescono mai ad imporre una linea politica rivoluzionaria, un atteggiamento in qualche modo orientato in senso libertario. Anche se essi non sono secondi a nessuno nella lotta armata contro il nazifascismo non riescono a superare il gradino di inferiorità psicologica in cui li pone la loro carenza organizzativa e la mancanza di un programma politico uniforme”. Una situazione questa che trova una spiegazione nella storia stessa dell’anarchismo nell’avversione verso il militarismo e la gerarchia nella convinzione che qualsiasi forma di governo è negazione della libertà umana.

dispersione e ritardi
 

Eppure gli anarchici dettero un contributo cospicuo alla lotta contro il fascismo. Fin dal 1921 quando la violenza fascista iniziò a colpire la stampa e i militanti, la risposta fu la resistenza ad oltranza attraverso l’organizzazione di manifestazioni, la partecipazione agli scioperi generali e l’adesione agli Arditi del popolo, movimento politicamente eterogeneo che cercherà di reagire colpo su colpo alle prepotenze squadristiche. L’ascesa al potere di Mussolini e del suo governo segna una svolta nella storia degli anarchici italiani in quanto ne determina la dispersione. Il movimento subisce più duramente degli altri partiti antifascisti (in proporzione naturalmente alle forze) le violenze squadriste prima e quelle legali poi. All’incendio delle sedi e delle sezioni dell’USI, il sindacato di tendenza anarcosindacalista alle devastazioni di tipografie e redazioni, alle uccisioni seguono i sequestri, gli arresti, il confino. L’anarchismo italiano entra in una fase di clandestinità, ma le sue forze si vanno sempre più assottigliando. Ai superstiti, perseguitati, disoccupati, spiati non resta che la via dell’esilio. Coloro che in Italia erano scampati alla galera e alla morte trovano rifugio soprattutto in Francia.
Anche all’estero la vita degli anarchici come del resto quella di tutti i fuoriusciti, non fu facile. La repressione era dura anche nei paesi ospitanti. La guerra di Spagna poi si prese coloro che erano sfuggiti al carcere o al confino.
La sconfitta del movimento anarchico in Spagna fu dura e si ripercosse anche sui fuoriusciti italiani. Quest’ultimi non fecero nemmeno in tempo a riorganizzarsi che lo scoppio della guerra mondiale e la caduta della Francia li disperse ancora una volta. Fu quello il momento più grave. Quelli che non riuscirono a darsi alla macchia o a fuggire furono rastrellati dalle autorità tedesche e francesi e spediti nei campi di concentramento o consegnati alle autorità italiane. Non c’è dunque da meravigliarsi se la caduta del fascismo trovò il movimento anarchico disperso, mantenuto vivo più che altro nella memoria di molti lavoratori e nell’atteggiamento individuale dei militanti rimasti. Il movimento anarchico giunge così in ritardo e fortemente limitato nelle sue possibilità di azione partigiana. Queste carenze si aggravarono dopo il 25 luglio del ’43, quando di fronte al succedersi degli avvenimenti ci sarebbe stato un bisogno ancora maggiore dell’apporto dei vecchi e più prestigiosi militanti che affollavano le isole di confino. Ma mentre alla caduta di Mussolini i militanti di tutti gli altri partiti venivano liberati dal governo Badoglio gli anarchici vengono trattenuti in un primo tempo a Ventotene e successivamente trasferiti al campo di concentramento di Renicci di Anghiari vicino ad Arezzo da dove riescono a fuggire solo dopo 1’8 settembre.
Carente di quadri politici, dispersi nell’esilio nelle persecuzioni, morti in Spagna, privo di aiuti da parte degli alleati, stretto nella logica della politica dei due blocchi, il movimento anarchico può confidare solo nelle proprie forze e in ciò che i militanti riescono a conquistarsi in battaglia, sia per quanto riguarda le armi che i rifornimenti.

non solo lotta armata
 

Per tutte queste ragioni gli anarchici preferirono nella maggioranza dei casi aggregarsi a formazioni controllate dai partiti comunista, azionista e socialista, anche in quelle località dove la presenza anarchica era sufficientemente numerosa da consentire formazioni di soli anarchici. Il contributo anarchico alla Resistenza non si limitò alle azioni militari, ovunque i militanti anarchici si impegnarono nell’organizzare e difendere la vita delle popolazioni duramente colpite dalla brutalità della guerra istituendo spacci e cooperative di produzione e consumo, embrioni di quella società più libera e più giusta alla cui costruzione avevano dedicato la loro vita.

Furio Biagini

 


anarchici a Carrara
 

In nessun’altra località come a Carrara, l’antifascismo anarchico ha avuto simili radici popolari e tanta influenza sociale.
 

Fin dal suo sorgere, il movimento operaio locale era stato fortemente influenzato dal socialismo libertario, a tal punto che Carrara divenne fin dai primi anni del secolo un importante centro di propaganda anarchica.
Furono soprattutto le lotte anarcosindacaliste dei lavoratori delle cave – che organizzati dall’anarchico Alberto Meschi ottennero per primi in Italia le sei ore e mezza di lavoro – ad indicare ai lavoratori la validità dell’attività politica degli anarchici: e così Carrara fu sempre in prima linea nelle lotte di popolo contro il militarismo, contro la tracotanza padronale, contro la repressione di stato e quindi oppose fin dall’inizio decisa resistenza al fascismo. L’intera provincia del carrarino con quelle vicine di La Spezia, Pisa e Livorno, fu uno degli epicentri del terrorismo squadrista. Basti ricordare la sparatoria contro un gruppo di anarchici da parte di una squadraccia fascista appoggiata dai carabinieri, a Carrara (giugno 1921). E poi lo sciopero generale nella stessa città in risposta all’aggressione fascista contro il compagno Alberto Meschi, allora segretario della Camera del Lavoro (18 ottobre 1921), ed il ferimento sempre da parte delle camice nere dell’anarchico Bonnelli a Bedizzano (Carrara). Tanti simili episodi costellano l’opposizione antifascista dei lavoratori della zona, che sempre portarono il loro aiuto anche agli altri centri vicini assaliti dai fascisti, come durante i fatti di Sarzana, in seguito ai quali una cinquantina di anarchici furono processati sotto l’imputazione di “associazione a delinquere” (19 gennaio 1922).
Durante il ventennio della dittatura fascista l’opposizione popolare al fascismo si mantenne viva, anche se non vi furono episodi clamorosi a testimoniarla (a parte il fallito attentato al duce degli anarchici carraresi Lucetti e Vatteroni.

la formazione Lucetti
 

Quando, all’indomani dell’8 settembre 1943 seppero che i tedeschi stavano disarmando i soldati italiani nella caserma Dogali di Carrara, molti anarchici (fra cui Del Papa, Galeotti, Pelliccia, ecc.) si recarono sul posto e riuscirono ad impossessarsi di molte armi, formando squadre di partigiani.
La partecipazione degli anarchici alla Resistenza propriamente detta assunse proporzioni determinanti nel carrarino, più che in qualsiasi altra zona d’Italia. Non si tratto infatti né della presenza d singole individualità né fu caratterizzata dall’adesione degli anarchici a formazioni partigiane non anarchiche, in maniera disorganica. Fu veramente un fenomeno di massa, che coinvolse la grande maggioranza della popolazione e che vide in prima fila sempre formazioni anarchiche.
Dal settembre 1943 i compagni stesero una valida rete di contatti che comprendeva anche Sarzana ed altri centri, ed il primo rastrellamento operato dai carabinieri e dalla milizia fu appunto attuato contro i primi tentativi organizzati di resistenza anarchica. Ma l’azione repressiva non sortì l’effetto sperato, poiché il movimento di resistenza era saldamente radicato; furono compiuti alcuni arresti fra gli anarchici. Dopo meno di due mesi comunque fu rapito il figlio del direttore delle carceri di Massa, ed in cambio della sua liberazione fu ottenuta la scarcerazione dei compagni arrestati.
Ricostituita la sua piena organicità, il movimento anarchico si sviluppo ulteriormente sia in città sia nei piccoli centri, prendendo contatti con gli altri raggruppamenti antifascisti. La formazione anarchica Gino Lucetti si trovò ad operare nella stessa zona di altre formazioni; si stabilì di costituire un comando unificato della Brigata Apuana pur lasciando autonomia alle singole componenti politiche (anarchici, comunisti, ecc.). Questa decisione fu conseguente alla necessità, fortemente sentita, di coordinare tecnicamente le operazioni belliche contro i nazifascisti, che – con il progressivo stabilizzarsi della Linea Gotica – si erano fatti ancora più numerosi e più spietati nel reprimere il movimento partigiano. In generale i rapporti fra la Lucetti e le altre formazioni erano buoni, anche se la recente traumatizzante esperienza della guerra di Spagna spingeva ad una grande diffidenza nei confronti dei comunisti, ed in particolare della loro formazione Giacomo Ulivi.

l’episodio di Casette
 

Quanto questa diffidenza non fosse infondata lo dimostra l’episodio di Casette, finora assolutamente inedito, e sconosciuto al di fuori della cerchia di coloro che vi parteciparono. Si avvicinava l’inverno del ’44, e la situazione era veramente difficile sia a causa della crescente repressione nazifascista sia per il mancato arrivo degli aiuti alleati. In compenso Radio Londra continuava a trasmettere inviti ai partigiani a tornarsene a casa, per trascorrervi l’inverno. Ma le vendette nazifasciste attendevano chi fosse tornato a casa dai monti e dalle valli, per cui i partigiani preferirono restare alla macchia, preparandosi alla prossima primavera. Fu stabilito di cercare di superare la linea Gotica attraverso i monti, e di cercare di riparare a Lucca, città tenuta dagli alleati.
In un’unica colonna si trovarono a marciare partigiani della Lucetti e quelli comunisti della formazione Giacomo Ulivi, con i rispettivi comandanti Ugo Mazzucchelli (che ci ha narrato questo episodio di Casette) e Guglielmo Brucellaria. Quando giunsero nei pressi di un ponte che, vicino al paesino di Casette, congiunge due vallate, i comandanti comunisti chiesero con insistenza agli anarchici di prendere la testa della colonna, e di passare per primi sul ponte. Era notte fonda, e quando Ugo Mazzucchelli per primo si accinse ad attraversare il ponte, il cupo silenzio dell’oscurità fu rotto dal crepitare infernale di una mitraglia, che, posta in una casamatta antistante il ponte, poteva fortunatamente colpire solo una parte del ponte.
Così il nostro compagno, e altri anarchici, poterono mettersi in salvo, contrariamente a quelle che certamente erano le speranze dei comunisti. La loro precedente insistenza fece subito sorgere gravissimi interrogativi fra gli anarchici, che stesero un duro rapporto al comando unificato della Brigata Apuana: questi interrogativi ebbero una precisa risposta quando si venne a sapere con certezza che i dirigenti comunisti sapevano con anticipo della presenza di una mitraglia in quella casamatta, ma sul tutto venne subito steso il silenzio più assoluto, con la solita giustificazione della necessità dell’unità (sic!) antifascista.

la difesa di Carrara
 

Oltre alla Lucetti, operarono nel carrarino la formazione anarchica Michele Schirru, parallela alla Lucetti, la divisione Garibaldi Lunense, formata soprattutto da anarchici e la formazione Elio Wockievic, il cui vicecomandante, l’anarchico Giovanni Mariga, fu talmente valoroso da vedersi concessa la medaglia d’oro al valor militare, che naturalmente rifiutò per restare coerente alle idee anarchiche.
Sia sulle Apuane sia nella pianura costiera operarono costantemente numerosi raggruppamenti anarchici, che ovunque si trovarono ad affrontare la criminale repressione nazifascista. Il carrarino fu infatti teatro di alcune delle stragi più efferate commesse dai tedeschi e dai loro servi repubblichini: basti pensare ai massacri delle popolazioni del paesino di Sant’Anna di Stazzena (560 morti, 12 agosto 1944), di Vinca (173 morti, 24 agosto 1944) e di San Terenzo Monti (163 morti, 19 agosto 1944). E l’elenco non finisce certo qui. In questa tragica realtà di guerra, distruzioni e rappresaglie, gli anarchici del carrarino ebbero il grande merito di organizzare e di difendere la vita della popolazione nella città di Carrara. Soprattutto i compagni si incaricarono di assicurare il regolare flusso degli approvvigionamenti, e di far funzionare l’Ospedale, continuando nel contempo la lotta armata contro il nemico.
Indispensabili erano i fondi, ed il loro reperimento resta una delle pagine più belle scritte dagli anarchici carraresi. Il metodo adottato fu quello d convocare i ricchi possidenti, e di obbligarli a versare ingenti somme ai partigiani, sotto la minacci delle armi e dietro regolare... ricevuta di versamento! Di questa anzi venivano stilate tre copie una per il versatore, una per il Comitato di Liberazione Nazionale (CLN) ed una per il compagno Ugo Mazzucchelli, comandante della Lucetti, presso la cui sede avvenivano queste convocazioni.
Così fu possibile aiutare le famiglie più bisogno se, finanziarie le formazioni partigiane e l’Ospedale, rinsaldando quella forte unita fra popolo e partigiani anarchici, che resta la lezione più importante della resistenza anarchica nel carrarino.

 


 

anarchici ad Imola
 

Gli anarchici imolesi dal primo sorgere del movimento fascista fino e durante la Resistenza.
 

Il 1920 segna la riorganizzazione definitiva degli anarchici imolesi che danno vita a due folti gruppi: il gruppo giovanile anarchico e l’USI. In tutto i giovani che si impegnavano attivamente erano una ottantina: organizzavano dibattiti, conferenze, comizi e cercavano di realizzare una stretta unità con i giovani socialisti.
L’attività sindacale era diretta soprattutto verso quelle categorie come i muratori, gli infermieri, gli imbianchini, i barbieri, i metallurgici ed i camerieri che non erano seguiti dalla Camera del Lavoro (aderente alla CGL) impegnata com’era nell’agitazione agraria e quindi nell’organizzazione delle categorie agricole.
La preparazione rivoluzionaria degli anarchici cresceva ogni giorno, per cui non si trovarono sprovvisti di fronte al fascismo.
Infatti il 28 ottobre 1920 Dino Grandi, allora giovane avvocato di Mordano (comune vicino ad Imola), poi uno dei più grandi gerarchi fascisti, subisce un attentato: gli vengono sparati contro quattro colpi di rivoltella che, (purtroppo) non lo colpiscono. Si attribuisce il fatto agli anarchici e i socialisti declinano ogni responsabilità. In effetti gli autori dell’attentato risultano essere veramente anarchici che, nel momento in cui il fascismo nascente si appoggia a giovani studenti infiammati di patriottismo e di spirito reazionario e di odio verso il socialismo, hanno intuito in Grandi un possibile futuro nemico.
Il 1920 si conclude con il tentativo, da parte dei fascisti di crearsi le premesse per poter penetrare in Imola, ma fino al giugno del 1921 i fascisti ad Imola non hanno voce in capitolo.
Gli anarchici partecipano, con i giovani socialisti, che poi passeranno in massa al PCd’I, alla formazione delle “guardie rosse” a cui è affidato il compito di difendere Imola dalle squadracce provenienti da Bologna. I fascisti infatti avevano già “assoggettato” Castel S. Pietro e si servivano di questo comune come base per le incursioni nei paesi vicini e soprattutto per distruggere il mito di “Imola rossa” e della combattività degli imolesi, dovuta alla cinquantennale propaganda anarchica e socialista e al grande prestigio che aveva avuto Andrea Costa. I fascisti bolognesi fanno vari tentativi fin dal novembre, sempre sconsigliati però dalla autorità locale e dagli stessi capi socialisti perché l’eccezionale livello di mobilitazione del popolo avrebbe provocato una “carneficina”. Ma il 14 dicembre una colonna di fascisti in camion tenta di venire ad Imola. Il servizio di informazione scatta immediatamente e tutta la popolazione armata, chiamata dal campanone comunale che suona a stormo, scende in piazza. Le cinque squadre di “guardie rosse” si dispongono nei punti strategici della città e gli anarchici collocano due mitragliatrici all’ingresso di Imola, sulla Via Emilia, in modo da prendere i fascisti in un fuoco incrociato. Anche questa volta i fascisti non vengono, pare che Romeo Galli, socialista, telefonasse al Sindaco di Ozzano per pregarlo di dissuaderli. Ma i fascisti avevano intuito quale era il mezzo più efficace per entrare a Imola: lasciare che una snervante attesa fiaccasse la difesa degli imolesi.
 

Figure squallide
 

Così, con l’appoggio dei popolari, fanno le loro prime apparizioni fino a lanciare un attacco in grande stile. Il 10 aprile, durante una processione organizzata dal Partito Popolare, arrivano i fascisti provenienti da Castel S. Pietro: l’esercito e i carabinieri occupano il centro per difendere dal popolo gli squadristi. Il 28 maggio i fascisti danno l’assalto al Circolo ritrovo socialista, naturalmente di sera. Un gruppo di essi, nascosto nell’ombra dei giardini pubblici, si prepara ad attaccare con pugnali, bombe a mano e rivoltelle. Mentre parte di essi entrano nel circolo, altri, fuori, sparano all’impazzata per impedire alla gente di accorrere.
Il bilancio dell’assalto e di sette feriti e la distruzione di parte delle suppellettili, registri, ecc., poste nei locali in cui aveva sede anche la redazione del settimanale socialista “La lotta” e la sezione socialista.
La reazione comincia a prendere piede apertamente anche ad Imola, i capi socialisti fuggono a S. Marino e torneranno solo a settembre, a bufera momentaneamente passata.
Così la reazione armata fascista colpisce le avanguardie mentre la massa è disorientata e impaurita.
Il 26 giugno i fascisti con Dino Grandi, Gino Baroncini, ecc. inaugurano il gagliardetto di combattimento sotto gli occhi soddisfatti della gretta borghesia locale.
I fascisti locali, figure squallide, in alcuni casi addirittura malati di mente, trovano appoggio negli agrari che li esaltano, li ubriacano con soldi e vino, e lo stretto collegamento col gruppo già forte del fascismo bolognese li fa sentire improvvisamente padroni della piazza quando in 100 contro uno protetti dalla polizia, si scagliano contro le avanguardie rivoluzionarie. I primi ad essere colpiti sono gli anarchici, poi i socialisti ed infine la reazione si abbatte su tutto il proletariato.
Il 10 luglio vi sono i fatti della Birreria Passetti in cui, fallito il tentativo di alcuni fascisti di uccidere l’anarchico Primo Bassi (1892-1972), si costruisce una montatura per accusarlo della morte del rag. Gardi, estraneo ai fatti e rimasto ucciso nella sparatoria.
Racconta Primo Bassi: “Il 10 luglio 1921 una squadra di fascisti imolesi iniziava le prime azioni di violenza indiscriminata. Alle ore 10 di sera, incontrato un muratore – tal Campomori – lo colpirono con randellate al capo sino a che, sanguinante, poté rifugiarsi nella birreria Passetti, in quel momento affollata di clienti. Fu allora che notai un giovincello che, battendomi un giunco sulla spalla, mi invitava ad uscire. Accondiscesi, ma dopo pochi passi nell’ampio cortile fui circondato dalla squadra che pretese perquisirmi e quando, palpate le tasche, furono persuasi fossi inerme, iniziarono la bastonatura. Con una spinta mi aprii il passo verso l’uscita e, guadagnando l’uscita sotto le percosse, fui raggiunto da una randellata allo zigomo sinistro che per poco non mi abbatté al suolo. Voltandomi di scatto fu allora – solo allora – che l’istinto di conservazione prevalse in me. Il fascista Casella mi era quasi addosso con l’arma in pugno ed io – già estratta la pistola dalla cintura dei pantaloni – gli sparai contro colpendolo ad una gamba. Sparai ancora in aria un colpo e mentre attorno era tutta una sparatoria fuggii per via Aldovrandi per consegnarmi ai carabinieri sopraggiunti, ferito da una pallottola di rimbalzo. Accompagnato in caserma prima ed all’ospedale poi, fui tempestato di pugni sino a che un infermiere, il socialista Maiolani, non intervenne a redarguirli. Intanto all’interno della birreria un cittadino – voluto poi fascista – era stato colpito dal basso all’alto da un colpo di rivoltella, decedendo. I fascisti si impadronirono di quel morto ed iniziarono una violenta reazione contro uomini e cose.”.
La stessa sera numerose squadre di fascisti percorrono le vie della città, sparando all’impazzata con lo scopo di impaurire.

Caccia al sovversivo
 

Poi assalgono la sede dell’Unione Sindacale, distruggendo sistematicamente tutto ciò che trovano: devastano gli uffici delle leghe, la redazione del giornale anarchico “Sorgiamo”, il circolo ritrovo, la ricca biblioteca. Tutto ciò che non si può dare alle fiamme nel piazzale sottostante è reso completamente inservibile. Il lunedì continua per le vie di Imola la caccia al sovversivo.
Viene arrestato il maestro anarchico Ciro Beltrandi per aver sparato all’ex repubblicano Mansueto Cantoni, diventato segretario del fascio locale. Viene picchiato selvaggiamente coi calci di moschetto alla schiena, tanto da morire nel 1941 a Bruxelles in seguito alla tubercolosi, provocata dalle botte fasciste.
Anche il responsabile de “Il Momento”, giornale della Federazione Provinciale Comunista Bolognese e organo della Camera del Lavoro di Imola, Romeo Romei viene aggredito e, ferito gravemente al petto con un colpo di rivoltella lasciato per terra moribondo; Ugo Masrati, bracciante agricolo anarchico, mentre è tranquillamente addetto in un’aia come paglierino ai lavori di trebbiatura, viene assassinato dai fascisti.
Alla tipografia Galeati, pena l’incendio, si impedisce di stampare il periodico anarchico “Sorgiamo”. Si vieta alle edicole di vendere giornali “sovversivi”, come “Umanità Nova” e “Ordine Nuovo”. Ma il movimento anarchico non è ancora definitivamente abbattuto, bisogna quindi ancora colpirlo, ancora assassinare.
La sera del 21 luglio ’21 cinque fascisti si recano in un’osteria alle Case Gallettino con lo scopo ben preciso di colpire un altro anarchico che si era sempre distinto per il suo coraggio, Vincenzo Zanelli, detto Banega, muratore, anarchico. Arrestato per i moti del carovita del luglio 1919, era stato di nuovo arrestato nel 1921 senza un’imputazione precisa e rilasciato dopo 20 giorni. Da allora non era più stato lasciato in pace dai fascisti. Raggiunto con altri due anarchici – Farina e Tarozzi – dai fascisti, viene colpito ma, mentre gli altri due anarchici disarmati fuggono, egli a terra si difende e uccide il suo aggressore, il fascista Nanni, di professione ladro. Ormai quasi tutti gli anarchici imolesi più in vista sono eliminati.
L’uccisione del giovane fascista Andrea Tabanelli serve da pretesto per manovre contro gli anarchici: caduta la prima accusa contro l’anarchico Diego Guadagnini, viene accusato il cugino Enrico Guadagnini e i fascisti fanno altre rappresaglie: compiono un altro assalto alla sede dell’USI e ammazzano a randellate in testa Raffaele Virgulti, mutilato di guerra anarchico.

uccisi, carcerati o confinati
 

Messi in condizione di non nuocere i compagni migliori come Diego Guadagnini e Primo Bassi (condannato a 20 anni nonostante che la perizia balistica avesse dimostrato che il proiettile che uccise Gardi non apparteneva all’arma di Bassi), uccisi tanti dei migliori come Leo Bianconcini, Vincenzo Zanelli, Raffaele Virgulti, carcerati o confinati tantissimi altri come Tarozzi, Baroncini, Farina, Errani, i fratelli Tinti, Tonini, ecc., il movimento anarchico imolese darà il suo contributo alla lotta di Liberazione in Italia nel 44-45 e, precedentemente, in Spagna nel 1936.

Gruppi Anarchici Imolesi

 

 


anarchici a Piombino
 

L’attivo impegno degli anarchici piombinesi contro il fascismo, prima e durante la Resistenza.
 

Nei primi mesi del 1921, quando già in tutta la Toscana si è scatenata l’offensiva fascista, Piombino non conosce ancora la violenza squadrista e ancora per più di un anno resisterà al cerchio nero che la stringe.
A differenza di altri luoghi, a Piombino il fascismo nasce all’ombra delle ciminiere con il denaro dei “dirigenti” dell’ILVA e della Magona, le due fabbriche siderurgiche più importanti della città, occupate nel ’20 dagli operai armati. Questi due colossi industriali non forniscono solo i finanziamenti, ma anche i gregari per le azioni teppistiche trasformando in squadracce nere le guardie dei due stabilimenti, gente abituata da sempre all’odio antioperaio. Tuttavia questi primi fenomeni del l’ondata fascista non trovano lo spazio per ingrandirsi e attecchire perché circoscritti da una classe lavoratrice estremamente combattiva e rivoluzionaria, fortemente influenzata sia dagli anarchici, sia dagli anarcosindacalisti della locale Camera del Lavoro federata all’USI.
Per avere un’idea di questa influenza basta guardare i risultati delle elezioni politiche del ’19, con 3.483 schede bianche contro 1.487 voti socialisti, su un totale di 6.098 votanti ed alla composizione delle Commissioni Interne dell’ILVA e della Magona con 15 delegati anarcosindacalisti dell’USI contro i 5 delegati socialisti e comunisti della FIOM.
È così che alla fatidica “marcia su Roma” nell’ottobre del ’22, il fascismo piombinese non arriva nemmeno a cento teppisti. Prima del ’22 i fascisti locali non osano tenere i loro raduni nella città; anzi ogni volta che lo squadrismo pisano, senese o fiorentino compiva qualche “impresa” doveva subire l’ira degli anarchici e degli Arditi del Popolo.
Il lento affermarsi del fascismo a Piombino in certa misura è da attribuirsi anche all’azione sprovveduta della CGL e del Partito Socialista che, assieme agli esponenti dei vari partiti, degli industriali e dei fasci di combattimento, forma un Comitato Cittadino per pacificare la città e risolvere la crisi dell’industria siderurgica che minacciava di chiudere, licenziando tutte le maestranze.
Questo riconoscimento ufficiale delle forze socialiste verso il nascente fascismo è l’equivalente locale della stessa politica che a livello nazionale porterà al Patto di Pacificazione fra fascisti e socialisti. Sarà proprio il Comitato Cittadino che, purgato dagli elementi socialisti, prenderà in mano l’amministrazione di Piombino dopo la conquista della città.
Ovviamente a questo Comitato Cittadino sia gli anarchici che la Camera del Lavoro federata all’USI rifiutano di partecipare, ribadendo che non è possibile nessuna pacificazione sia con gli industriali sia con i fasci di combattimento, ma che anzi è dovere rivoluzionario scendere nelle piazze e combattere per soffocare la violenza fascista.
Furono infatti proprio gli anarchici e gli anarco-sindacalisti i maggiori sostenitori e attivisti degli Arditi del Popolo. Per iniziativa del deputato socialista Giuseppe Mingrino si era costituito a Piombino il 144° battaglione degli Arditi del Popolo, cui aderivano gli anarchici e l’ala comunista del Partito Socialista, che dopo poco esce dal partito per formare il Partito Comunista. Presto però i comunisti usciranno da queste formazioni operaie di difesa ed anzi una circolare dell’esecutivo del PCd’I diffida tutti i militanti dall’entrare negli Arditi o anche solo di avere contatti con loro. Dopo questa defezione, gli Arditi del Popolo a Piombino saranno costituiti quasi esclusivamente da elementi anarchici e anarcosindacalisti e saranno loro a sostenere le lotte dure e spesso sanguinose che impediranno, nella metà del ’22, ai fascisti di entrare a Piombino.
L’attentato al socialista Mingrino, il 19 luglio 1921, fa scattare per la prima volta gli Arditi. Essi attaccano il “covo” dei fascisti piombinesi ma lo trovano deserto, quindi casa per casa e nei luoghi di lavoro catturano i fascisti e costringono un loro capo, il direttore del Cantiere navale, a firmare un atto di sottomissione.
Le Guardie Regie corse in aiuto dei fascisti vengono sopraffatte e disarmate.
Solo dopo alcuni giorni la reazione degli Arditi termina e le forze dell’ordine riescono a riprendere il controllo della città.
Intanto il 2 agosto socialisti e fascisti firmano a Roma il Patto di Pacificazione. Gli Arditi affiggono a Piombino un manifesto: “Non vi può essere nessuna possibilità di pace, in questo momento, tra il proletariato piombinese e i suoi sfruttatori... gli arditi del popolo resteranno vigili ed armati contro gli sgherri neri”.
Il 3 settembre l’anarchico Giuseppe Morelli sorpreso ad affiggere manifesti contro il Patto di Pacificazione reagisce con la pistola alle guardie regie ed ai fascisti, rimanendo ucciso nel conflitto.
Durante la notte, prevedendo la reazione degli anarchici, la Polizia irrompe nelle abitazioni e nei luoghi di lavoro (durante i turni notturni) arrestando oltre 200 compagni. Privati gli arditi e gli anarchici dei loro militanti politici e sindacali più attivi, i fascisti capirono che quello era il momento per sferrare il loro attacco. Prima incendiarono la sezione socialista, poi la Camera Confederale e la tipografia la Fiamma, e quindi si diressero verso la Camera del Lavoro sindacale, ma si scontrarono con una pattuglia di giovani anarchici, fra cui: Landi, Lunghi, Venturini, Marchionneschi, Panzavolta, Franci, Messena Lucarelli. Giungevano nel frattempo gruppi di operai e la polizia fu costretta ad arrestare i fascisti per salvarli dalla sana ira popolare.
Racconta Armando Borghi: “Una conferenza la tenni a Piombino, presente il deputato comunista Misiano. I fascisti lo avevano scacciato dal Parlamento, minacciandolo di morte, e lui si era rifugiato sotto la protezione degli anarchici, nella cittadina toscana, tenuta ancora dai nostri alla fine del 1921”.
I fascisti tentarono la conquista di Piombino il 25 aprile del ’22, ma giunti alla periferia della città, trovarono gli anarchici e gli Arditi che rapidamente misero in fuga le camice nere.
Frattanto, dopo la riapertura degli stabilimenti siderurgici, manovrando abilmente con le assunzioni discriminate per rendere più debole la compattezza operaia (Piombino anche allora era una città-fabbrica) le direzioni aziendali preparavano il colpo definitivo, essendosi anche assicurata la totale collaborazione del Comitato Cittadino.
Un’altra vittima fu il giovane anarchico Landi Landino (21 maggio 1922), che i fascisti tenevano presente come il principale artefice delle loro “ritirate”.
Il 12 giugno (dopo un incidente appositamente creato dove rimaneva ucciso uno studente fascista e per i funerali del quale giunsero in città i fascisti di tutta la zona) gli squadristi e le guardie regie inviate da Pisa a “ristabilire l’ordine” si impadronivano della città.
Dapprima occupano il Comune e la Pretura, poi i fascisti assaltano e distruggono le sedi del Partito Socialista e della CGL. Per tutta la notte e tutto il giorno dopo, con centinaia di assalti, le squadracce tentano la conquista della Camera Sindacale dell’USI e della tipografia del giornale anarchico “Il martello”, sempre respinti. Solo dopo un giorno e mezzo di combattimento, fascisti e guardie regie riescono a piegare anche gli anarchici.
Il fascismo era passato anche a Piombino ed i compagni più in vista trovarono scampo nell’espatrio; altri dovettero subire persecuzioni e angherie durante tutto il regime fascista.
Prendiamo ad esempio le vicende di due compagni: Egidio Fossi e Adriano Vanni.
Egidio Fossi, condannato nel ’20 dalle Assise di Pisa a 12 anni e 6 mesi, 2 anni dei quali trascorsi in segregazione a Portolongone, gli altri in varie galere. Venne liberato per amnistia nel mese di ottobre 1925, fu poi perseguitato ripetutamente, ammonito e minacciato dai fascisti, finché espatriò clandestinamente in Francia. Anche all’estero non sfuggì alla persecuzione e comincio così la vita randagia del fuoriuscito, braccato anche dalla polizia francese.
Alla notizia che in Spagna il popolo era insorto contro il tentativo di “golpe” franchista, non mise tempo in mezzo e raggiunse nell’agosto 1936 la colonna italiana Francisco Ascaso; partecipando a tutte le azioni sul fronte aragonese di Huesca, rimanendo a combattere in Spagna fino al marzo del 1939; fu poi internato nel campo di concentramento di Gurs e mandato nelle compagnie di lavoro. Nel 1940 fu fatto prigioniero dai tedeschi, venne quindi tradotto in Italia e assegnato al confino di Ventotene per 5 anni. Fu liberato nel settembre 1943; poté rientrare a Piombino nel 1945, dove riprese il suo posto nelle file anarchiche e come operaio all’Italsider.
Adriano Vanni, condannato insieme a Egidio Fossi e scarcerato nello stesso periodo fu subito bastonato a sangue dai fascisti; dovette riparare all’estero, ma anche qui ebbe vita difficile. Rientrato in Italia dopo qualche anno, cominciarono di nuovo le persecuzioni del regime e le bastonature dei delinquenti in camicia nera. Partecipò attivamente alla sommossa della popolazione contro i nazifascisti del 10 settembre 1943. La lotta partigiana lo vide fra i più validi animatori della resistenza e assieme ad altri libertari operò in formazioni che agivano nelle zone all’interno della Maremma; fece parte anche del nucleo periferico del CLN. A liberazione avvenuta, nonostante si ritrovasse faccia a faccia con molti dei suoi aguzzini del ventennio, ebbe la forza morale di non vendicarsi.
Altri compagni dovettero prendere la via del fuoriuscitismo da Piombino, come Franci Dario, Bacconi, (dirigente dell’USI), Agnarelli Smeraldo, e altri ancora. A Torino si trasferirono compagni come Guerrieri Settimo, Baroni Ilio (caduto nelle formazioni GAP), Bellini e Cafiero. I compagni che riuscirono a rimanere a Piombino non rimasero immuni da ammonizioni e minacce e, quando venivano personalità del regime, erano prelevati dalle loro abitazioni e tenuti in carcere per 3 o 4 giorni.

Federazione Anarchica Piombinese

 

 

 

l’analisi di Malatesta sul fascismo
 

L’anarchico campano fu uno dei pochi, sia in campo rivoluzionario che in campo riformista, a comprendere la vera essenza del fenomeno autoritario in atto. Ecco due suoi scritti, rispettivamente del 1922 e del 1923.
 

Mussolini al potere
 

A coronamento di una lunga serie di delitti, il fascismo si è infine insediato al governo.
E Mussolini, il duce, tanto per distinguersi, ha cominciato col trattare i deputati al parlamento come un padrone insolente tratterebbe dei servi stupidi e pigri.
Il parlamento, quello che doveva essere “il palladio della libertà”, ha dato la sua misura.
Questo ci lascia perfettamente indifferenti. Tra un gradasso che vitupera e minaccia, perché si sente al sicuro, ed una accolita di vili che pare si delizi nella sua abiezione, noi non abbiamo da scegliere. Constatiamo soltanto – e non senza vergogna – quale specie di gente è quella che ci domina ed al cui giogo non riusciamo a sottrarci.
Ma qual è il significato, quale la portata, quale il risultato probabile di questo nuovo modo di arrivare al potere in nome ed in servizio del re, violando la costituzione che il re aveva giurato di rispettare e di difendere?
A parte le pose che vorrebbero parere napoleoniche e non sono invece che pose da operetta, quando non sono atti da capobrigante, noi crediamo che in fondo non vi sarà nulla di cambiato, salvo per un certo tempo una maggiore pressione poliziesca contro i sovversivi e contro i lavoratori. Una nuova edizione di Crispi e di Pelloux è sempre la vecchia storia del brigante che diventa gendarme!
La borghesia, minacciata dalla marea proletaria che montava, incapace a risolvere i problemi fatti urgenti dalla guerra, impotente a difendersi coi metodi tradizionali della repressione legale, si vedeva perduta ed avrebbe salutato con gioia un qualche militare che si fosse dichiarato dittatore ed avesse affogato nel sangue ogni tentativo di riscossa. Ma in quei momenti, nell’immediato dopoguerra, la cosa era troppo pericolosa, e poteva precipitare la rivoluzione anziché abbatterla. In ogni modo, il generale salvatore non venne fuori, o non ne venne fuori che la parodia. Invece vennero fuori degli avventurieri che, non avendo trovato nei partiti sovversivi campo sufficiente alle loro ambizioni ed ai loro appetiti, pensarono di speculare sulla paura della borghesia offrendole, dietro adeguato compenso, il soccorso di forze irregolari che, se sicure dell’impunità, potevano abbandonarsi a tutti gli eccessi contro i lavoratori senza compromettere direttamente la responsabilità dei presunti beneficiari delle violenze commesse. E la borghesia accetta, sollecita, paga il loro concorso: il governo ufficiale, o almeno una parte degli agenti del governo, pensa a fornir loro le armi, ad aiutarli quando in un attacco stavano per avere la peggio, ad assicurar loro l’impunità ed a disarmare preventivamente coloro che dovevano essere attaccati.
I lavoratori non seppero opporre la violenza alla violenza perché erano stati educati a credere nella legalità, e perché, anche quando ogni illusione era diventata impossibile e gli incendi e gli assassinii si moltiplicavano sotto lo sguardo benevolo delle autorità, gli uomini in cui avevano fiducia predicarono loro la pazienza, la calma, la bellezza e la saggezza di farsi battere “eroicamente” senza resistere – e perciò furono vinti ed offesi negli averi, nelle persone, nella dignità, negli affetti più sacri.
Forse, quando tutte le istituzioni operaie erano state distrutte, le organizzazioni sbandate, gli uomini più invisi e considerati più pericolosi uccisi o imprigionati o comunque ridotti all’impotenza, la borghesia ed il governo avrebbero voluto mettere un freno ai nuovi pretoriani che oramai aspiravano a diventare i padroni di quelli che avevano serviti. Ma era troppo tardi. I fascisti oramai sono i più forti ed intendono farsi pagare ad usura i servizi resi. E la borghesia pagherà, cercando naturalmente di ripagarsi sulle spalle del proletariato.
In conclusione, aumentata miseria, aumentata oppressione.
In quanto a noi, non abbiamo che da continuare la nostra battaglia, sempre pieni di fede, pieni di entusiasmo.
Noi sappiamo che la nostra via è seminata di triboli, ma la scegliemmo coscientemente e volontariamente, e non abbiamo ragione per abbandonarla. Così sappiano tutti coloro i quali hanno senso di dignità e pietà umana e vogliono consacrarsi alla lotta per il bene di tutti, che essi debbono essere preparati a tutti i disinganni, a tutti i dolori, a tutti i sacrifici.
Poiché non mancano mai di quelli che si lasciano abbagliare dalle apparenze della forza ed hanno sempre una specie di ammirazione segreta per chi vince, vi sono anche dei sovversivi i quali dicono che “i fascisti ci hanno insegnato come si fa la rivoluzione”.
No, i fascisti non ci hanno insegnato proprio nulla.
Essi hanno fatto la rivoluzione, se rivoluzione si vuol chiamare, col permesso dei superiori ed in servizio dei superiori.
Tradire i propri amici, rinnegare ogni giorno le idee professate ieri, se così conviene al proprio vantaggio, mettersi al servizio dei padroni, assicurarsi l’acquiescenza delle autorità politiche e giudiziarie, far disarmare dai carabinieri i propri avversari per poi attaccarli in dieci contro uno, prepararsi militarmente senza bisogno di nascondersi, anzi ricevendo dal governo armi, mezzi di trasporto ed oggetti di casermaggio, e poi esser chiamato dal re e mettersi sotto la protezione di dio... è tutta roba che noi non potremmo e non vorremmo fare. Ed è tutta roba che noi avevamo preveduto che avverrebbe il giorno in cui la borghesia si sentisse seriamente minacciata.
Piuttosto l’avvento del fascismo deve servire di lezione ai socialisti legalitari, i quali credevano, e ahimè! credono ancora, che si possa abbattere la borghesia mediante i voti della metà più uno degli elettori, e non vollero crederci quando dicemmo loro che se mai raggiungessero la maggioranza in parlamento e volessero – tanto per fare delle ipotesi assurde – attuare il socialismo dal parlamento, ne sarebbero cacciati a calci nel sedere!
 

Errico Malatesta
(“Umanità Nova”, 25 novembre 1922)

 

Perché il fascismo vinse
 

La forza materiale può prevalere sulla forza morale, può anche distruggere la più raffinata civiltà se questa non sa difendersi con mezzi adatti contro i ritorni offensivi della barbarie.
Ogni bestia feroce può sbranare un galantuomo, fosse anche un genio, un Galileo o un Leonardo, se questi è tanto ingenuo da credere che può frenare la bestia mostrandole un’opera d’arte o annunziandole una scoperta scientifica.
Però la brutalità difficilmente trionfa, ed in tutti i casi i suoi successi non sono stati mai generali e duraturi, se non riesce ad ottenere un certo consenso morale, se gli uomini civili la riconoscono per quella che è, e se anche impotenti a debellarla ne rifuggono come da cosa immonda e ripugnante.
Il fascismo che compendia in sé tutta la reazione e richiama in vita tutta l’addormentata ferocia atavica, ha vinto perché ha avuto l’appoggio finanziario della borghesia grassa e l’aiuto materiale dei vari governi che se ne vollero servire contro l’incalzante minaccia proletaria; ha vinto perché ha trovato contro di sé una massa stanca, disillusa e fatta imbelle da una cinquantenaria propaganda parlamentaristica; ma soprattutto ha vinto perché le sue violenze e i suoi delitti hanno bensì provocato l’odio e lo spirito di vendetta degli offesi ma non hanno suscitato quella generale riprovazione, quella indignazione, quell’orrore morale che ci sembrava dovesse nascere spontaneamente in ogni animo gentile.
E purtroppo non vi potrà essere riscossa materiale se prima non v’è rivolta morale.
Diciamolo francamente, per quanto sia doloroso il constatarlo. Fascisti ve ne sono anche fuori del partito fascista, ve ne sono in tutte le classi ed in tutti i partiti: vi sono cioè dappertutto delle persone che pur non essendo fascisti, pur essendo antifascisti, hanno però l’anima fascista, lo stesso desiderio di sopraffazione che distingue i fascisti.
Ci accade, per esempio, d’incontrare degli uomini che si dicono e si credono rivoluzionari e magari anarchici i quali per risolvere una qualsiasi questione affermano con fiero cipiglio che agiranno fascisticamente, senza sapere, o sapendo troppo, che ciò significa attaccare, senza preoccupazione di giustizia, quando si è sicuri di non correr pericolo, o perché si è di molto il più forte, o perché si è armato contro un inerme, o perché si è in più contro uno solo, o perché si ha la protezione della forza pubblica, o perché si sa che il violentato ripugna alla denunzia – significa insomma agire da camorrista e da poliziotto. Purtroppo è vero, si può agire, spesso si agisce fascisticamente senza aver bisogno d’iscriversi tra i fascisti: e non sono certamente coloro che così agiscono, o si propongono di agire fascisticamente, quelli che potranno provocare la rivolta morale, il senso di schifo che ucciderà il fascismo.
E non vediamo gli uomini della Confederazione, i D’Aragona, i Baldesi, i Colombino, ecc., leccare i piedi dei governanti fascisti, e poi continuare ad essere considerati, anche dagli avversari politici, quali galantuomini e quali gentiluomini?
Queste considerazioni, che del resto abbiamo fatte tante volte, ci sono rivenute alla mente leggendo un articolo di “L’Etruria Nuova” di Grosseto, che ci siamo meravigliati di vedere compiacentemente riprodotto da “La Voce Repubblicana” del 22 agosto. È un articolo del “suo valoroso direttore”, il bravo Giuseppe Benci, il decano dei repubblicani della forte Maremma (tanto per servirci delle parole della “Voce”) il quale a noi è sembrato un documento di bassezza morale, che spiega perché i fascisti hanno potuto fare in Maremma quello che hanno fatto.
Sono note le gesta brigantesche dei fascisti nella sventurata Maremma. Là, più che altrove, essi hanno sfogato le loro passioni malvagie. Dall’assassinio brutale alle bastonature a sangue, dagli incendi e dalle devastazioni fino alle tirannie minute, alle piccole vessazioni che umiliano, agli insulti che offendono il senso di dignità umana, tutto essi hanno commesso senza conoscere limite, senza rispettare nessuno di quei sentimenti che, nonché essere condizione di ogni vivere civile, sono la base stessa dell’umanità in quanto è distinta dalla più infima bestialità.
E quel fiero repubblicano di Maremma parla loro in tono dimesso e li tratta da “gente di fede” e mendica per i repubblicani la loro sopportazione e quasi la loro amicizia, adducendo i meriti patriottici dei repubblicani stessi.
Egli “ammette che il governo (il governo fascista) ha il diritto di garantirsi il libero svolgimento della sua azione” e lascia intendere che quando i repubblicani andranno al potere faranno su per giù la stessa cosa. E protesta che “nessuno potrà ammettere che da noi (a Grosseto) il partito repubblicano abbia con qualsiasi atto tentato di ostacolare l’esperienza della parte dominante” e si vanta di “non aver per nulla intralciata l’azione del governo ritraendosi perfino dalle lotte elettorali per attendere che l’esperimento si compia. Cioè attendere che si compia l’esperimento di dominazione su tutta Italia da parte di quella gente che ha straziato la sua Maremma.
Se lo stato d’animo di quel signor Benci corrispondesse allo stato d’animo dei repubblicani e la sorte del governo fascista dovesse dipendere da loro, avrebbe ragione Mussolini quando dice che resterà al potere trent’anni. Vi potrebbe restare anche trecento.
 

Errico Malatesta
(“Libero Accordo”, 28 agosto 1923)

 

Anarchismo, antifascismo e Resistenza
(alcuni volumi consigliati, tutti in commercio. A cura di Massimo Ortalli)

AA.VV., La resistenza sconosciuta, Milano, Zero in Condotta, 1995
AA.VV., L’antifascismo rivoluzionario tra passato e presente, Pisa, Bibl. F. Serantini, 1993
Tobias ABSE, Sovversivi e fascisti a Livorno (1918-1922), Livorno, Labronica, 1990
Luigi BALSAMINI, Gli arditi del popolo, Casalvelino, Galzerano editore, 2002
Nanni BALESTRINI, Parma 1922. Una resistenza antifascista, Roma, Derive approdi, 2002
Luigi DI LEMBO, Guerra di classe e lotta umana, Pisa, Bibl. F. Serantini, 2001
Ugo FEDELI, La nascita del fascismo, Pescara, Samizdat, 2000
Eros FRANCESCANGELI, Arditi del Popolo. Argo Secondari (1917-1922), Roma, Odradek, 2000
Riccardo LUCETTI, Gino Lucetti, l’attentato contro il duce, Carrara, Tipolito, 2000
Pier Carlo MASINI, Mussolini la maschera del dittatore, Pisa, Bibl. F. Serantini, 1999
M. ROSSI, I fantasmi di Weimar, Milano, Zero in Condotta, 2001
Marco ROSSI, Sovversivi contro fascisti a Livorno (1919-1943), Livorno, Gruppo Malatesta, 2002
Giorgio SACCHETTI, Camicie nere in Valdarno, Pisa, Bibl. F. Serantini, 1996
Giorgio SACCHETTI, Gli anarchici contro il fascismo, Livorno, Sempre Avanti, 1995
Giorgio SACCHETTI, L’imboscata, Foiano, ANPI di Foiano, 2000.

 Alfonso Failla (Siracusa 1906-Carrara 1986) è stato una delle figure più prestigiose del movimento anarchico di lingua italiana di questo secolo. Avvicinatosi giovanissimo all’anarchismo si impegna nella lotta contro il montante regime fascista. Più volte arrestato e sottoposto a provvedimenti restrittivi, nel 1930 viene spedito al confino ove rimane – salvo una breve parentesi di libertà vigilata a Siracusa nel ’39 – fino all’estate del ’43.
Dopo l’evasione in massa dal campo di Renicci d’Anghiari partecipa alla Resistenza principalmente in Toscana, Liguria e Lombardia. Nel dopoguerra è tra gli organizzatori della Federazione Anarchica Italiana redattore e direttore responsabile del settimanale Umanità Nova attivo nell’Unione Sindacale Italiana. Tiene centinaia di conferenze, dibattiti e comizi, l’ultimo dei quali a Pisa dopo l’assassinio di Franco Serantini.
Dal giugno del ’72, per ragioni di salute è costretto ad interrompere l’attività pubblica.


Questo volume (pagg. 366 + XXIV, euro 12,90) è suddiviso in tre sezioni. Nella prima sono raccolte carte di polizia e documenti relativi al periodo ’22/’43 tratti dal dossier Failla al Casellario Politico Centrale. Nella seconda sono raccolti gran parte degli articoli da lui scritti nel secondo dopoguerra. Nella terza sezione sono raccolte testimonianze della sua attività.

Per informazioni e richieste:
La Fiaccola c/o Elisabetta Medda, via Nicotera, 9 – 96017 Noto (SR).

Distribuzione nelle librerie: Di.Est, via G. Cavalcanti 11, 10132 Torino