MANIFESTO PER GRUPPPI D’AUTOGESTIONE  E BANCA  ETICA EUROPEI

 

 

 

Giunti al Terzo Millennio, dobbiamo constatare con sgomento che viviamo in una società planetaria sempre più irrazionale ed ingiusta. La colonizzazione del globo da parte del

capitalismo ha determinato uno sviluppo incontrollato ed incontrollabile della produzione asservita al profitto e sganciata dalle esigenze umane, la quale ha travolto gli uomini, il loro ambiente e le loro civiltà. Si è generalizzato così un modello di evoluzione economico-ambientale basato sullo sfruttamento, l’ingiustizia e l’emarginazione dei deboli, che è la vera causa dell’alienazione ovunque dominante, poiché tale modello non riesce a coniugare il progresso tecnico con quello morale.

I paesi del Terzo Mondo subiscono l’imperialismo economico e culturale delle nazioni tecnicamente avanzate, che determina l’aumento della fame e dell’indigenza, come conseguenza dell’accaparramento delle materie prime da parte delle multinazionali ed anche dei governi degli stati più ricchi, pure come risultato della micidiale  concorrenza svolta dalle loro merci, a basso costo di produzione, nei confronti dei beni di questi paesi, che richiedono ovviamente costi di fabbricazione molto maggiori, a causa delle rudimentali tecniche di lavorazione  e delle inadeguate forme di organizzazione del lavoro nella produzione. Si consideri inoltre che gli stati poveri sono costretti a pagare dazi sulle loro esportazioni e a subire le barriere doganali imposte da quelli più ricchi, malgrado la continua esaltazione  che essi, a parole, fanno del libero mercato, proprio oggi,  periodo in cui assistiamo al totale trionfo del neo-liberismo. Infatti intendono la libera circolazione delle merci in senso unidirezionale, dalle nazioni opulente a quelle in via di ulteriore impoverimento. Queste ultime sono vittime anche delle ricorrenti crisi finanziarie, causate principalmente dal fatto che, per motivi speculativi, non vi sia più una corrispondenza reale tra il capitale sociale effettivo delle aziende e la sua valutazione azionaria, dato che  il valore delle azioni è spesso gonfiato ed esposto quindi al pericolo di crolli improvvisi, i quali, per l’effetto domino, si estendono a tutto il mercato finanziario. Quando si determina una crisi, il rimedio neo-liberista consiste nel lasciare aumentare i prezzi dei beni di consumo e dei servizi e semmai nello svalutare la moneta, nel difendere ad oltranza il pareggio del bilancio, non facendo investimenti a favore delle classi sociali più deboli e talvolta appioppando delle vere e proprie stangate fiscali, che naturalmente colpiscono più gravemente i lavoratori, infine nel favorire i licenziamenti da parte delle aziende.

In generale comunque i Paesi del Terzo Mondo, per non fare bancarotta, sono costretti a chiedere prestiti alla Banca Mondiale e ai Paesi opulenti. Si provoca così la sudditanza politica di queste nazioni, quale contropartita al loro indebitamento, il degrado ecologico del loro territorio, utilizzato come luogo di costante rapina.

 

”La dinamica della macchina sociale planetaria è gravemente ingiusta. I tre fenomeni interconnessi della liberalizzazione, della deregolamentazione e della privatizzazione hanno frantumato il quadro statale di legislazioni protettive, permettendo un’estensione senza limiti nella polarizzazione della ricchezza sia tra le differenti regioni del mondo, sia tra gli individui. Secondo il rapporto dell’UNDP 1999 (Programma delle Nazioni Unite per lo Sviluppo) consacrato alla globalizzazione, se la ricchezza globale del pianeta è aumentata di sei volte dal 1950, il reddito medio degli abitanti di 100 dei 174 Paesi recensiti è in piena regressione e, per una parte di loro, regredisce persino la speranza di vita. Quattro cittadini degli Stati Uniti - Bill Gates, Paul Allen, Warren Buffet, e Larry Elison - concentrano nelle loro mani una fortuna equivalente al prodotto interno lordo di 42 Paesi poveri, con una popolazione di 600  milioni di abitanti. (F. Betto, F. Lo, in “Carta”, numero speciale, 3 Gennaio 2002, p. 76.) Un solo individuo, il finanziere George Soros,  ha guadagno in una notte un miliardo di dollari, e in un anno più del prodotto interno lordo di 42 Paesi […]. Gli emarginati hanno mille volti. Li si trova in tutto il pianeta, dal nord al sud e dall’est all’ovest. I processi e le forme di marginalizzazione sono numerose, ma sempre drammatiche. I gradi nel decadimento sono infiniti. In primo luogo, ci sono gli esclusi radicali. Ogni giorno, 40.000 poppanti muoiono a causa della povertà. Un bambino ogni due secondi circa. Non ci sono parole per descrivere questo orrore […]. Per designare lo stato di abbandono materiale e morale, la teologia ha inventato la parola “derelezione”. Corrisponde bene alla situazione di due-tre miliardi di esseri umani.” ( Serge Latouche, Decolonizzare l’immaginario, Editrice Missionaria Italiana, Bologna 2004).

 

A determinare questa situazione concorre anche la crescente carenza dell’acqua potabile, causata sia da fenomeni naturali, che dall’appropriazione privata.

 

“L’acqua potabile è un miraggio per oltre un miliardo e quattrocentomila persone. Di queste, ogni anno, tre milioni muoiono per malattie collegate alla scarsa salubrità dell’oro blu , cui vanno aggiunti i due miliardi che utilizzano pozzi e sorgenti senza alcun controllo batteriologico e tantomeno ambientale. Se non si interviene subito – afferma Nane Annan, moglie del segretario generale dell’Onu – nel 2025 due terzi della popolazione mondiale vivranno una cronica assenza di acqua potabile” (Luisa Arezzo, in “La nuova ecologia”, setto, in “La nuova ecologia”, dicembre 2002).

 

La tragedia più assurda è rappresentata dal fatto che ormai la maggioranza  della popolazione mondiale viva in condizioni di povertà, dovendo lottare per sopravvivere, che molti milioni di persone muoiano ogni anno per la fame, la sete e malattie quali la malaria, la gastroenterite, il colera, la lebbra e soprattutto l’AIDS, le patologie dell’indigenza, mentre la minoranza più benestante degli abitanti del mondo sia colpita dalle patologie del benessere, quali il diabete, l’infarto ed il cancro, che hanno varie cause, tra cui una delle principali è lo squilibrio metabolico…la gente mangia troppo rispetto alle energie che consuma! E’ davvero devastante il proliferare del cancro in Occidente, dove attualmente  quasi una persona su tre è, prima o poi nel corso della vita, affetta da tale malattia e si è già calcolato che il numero aumenterà notevolmente, se non si limiterà l’inquinamento, non si cambieranno lo stile di vita e le abitudini alimentari.

 

“Ogni anno il cancro miete (nel mondo) 6 milioni di vittime e tocca 10 milioni di nuovi pazienti. Se le tendenze attuali non mutano, si stima che  10 milioni di persone moriranno di cancro nel 2020 ed il numero di nuovi casi aumenterà fino a 15 milioni l’anno […]. Spesso il cancro è percepito come una malattia del mondo occidentale, eppure nei Paesi in via di sviluppo in cui il livello e la speranza di vita aumentano, aumenta anche l’incidenza di questa malattia.  Nella maggior parte dei paesi avanzati il cancro è la prima causa di morte prematura e gli studi epidemiologici mostrano la stessa tendenza nei paesi in via di sviluppo. Nel 2020 circa il 60% dei nuovi casi di cancro si verificherà nei Paesi in via di sviluppo. Il cancro, responsabile del 12% di tutti i decessi nel mondo, ha ucciso nel 2002 due volte di più dell’AIDS […]. In Europa ogni anno circa 2 milioni di persone muoiono di cancro ed insorgono più di 3 milioni di nuovi casi. Attualmente quasi 6 milioni di persone convivono con il cancro.” (Unione Internazionale contro il Cancro – Edizione Marzo 2004).

 

L’AIDS è invece la patologia che dilaga nel Terzo Mondo, a causa della denutrizione e della mancanza di strutture igienico-sanitarie. L’Organizzazione Mondiale per la Sanità ci ha comunicato che sono morte per l’infezione sul pianeta oltre 22 milioni di persone e che più di 40 milioni sono quelle attualmente colpite, di cui oltre 28 milioni nella sola Africa. Che ogni giorno sono  8500 i nuovi casi di contagio e che pertanto, se non sarà realizzato un piano serio di lotta e prevenzione della malattia, entro il 2020 altre 45 milioni di persone saranno contagiate.  La diffusione dell’AIDS è quindi una vera pandemia, una tragedia che sta già sconvolgendo Africa ed Asia, ma colpisce duramente anche i paesi più sviluppati. La lebbra è un’altra patologia terribile, che infetta  milioni di persone nel mondo, causando  morti,  ciechi,  mutilati e  invalidi.

 

“Ancora oggi, ad ogni minuto viene diagnosticato nel mondo un nuovo caso di lebbra. […] In Italia negli anni 30 […] rimanevano focolai autoctoni nella riviera ligure di ponente, in Puglia, lungo la costa ionica calabrese, quella siciliana e in Sardegna. Prima della seconda guerra mondiale furono costruiti i lebbrosari di Genova ( nel 1935, erede dell’Ospedale di  San Lazzaro del 1150), di Gioia del colle (Bari), di Messina e di Cagliari. […] I focolai di lebbra autoctona della Liguria, Puglia, Calabria, Sicilia e Sardegna sono quasi del tutto esauriti (ultimo caso autoctono  8 anni fa). Oggi in Italia la lebbra rappresenta un problema sanitario di importazione (italiani che hanno contratto la malattia in paesi endemici  e da immigrati che hanno contratto la malattia nei loro paesi d’origine)[…] periodo 2000-2003 (dati SIHAN).  35 nuovi casi di cui 9 italiani e 26 immigrati” (Associazione Italiana Amici di Raoul  Follereau – AIFO).

 

Io però ho alcuni motivi per supporre che nella mia zona, la riviera ligure di ponente, vi siano casi autoctoni che si facciano curare privatamente. Per uscire dall’aridità delle cifre, tanto più incresciosa quando si parla di esseri viventi che soffrono, racconto un episodio cui ho assistito personalmente. Premetto che mi sono sempre dedicato, come volontario, perché di professione faccio l’insegnante, all’assistenza di cani e gatti; ho salvato per oltre 20 anni i cani randagi accalappiati dalla soppressione, finchè  noi, militanti della Lega Nazionale per la Difesa del Cane e dell’ Ente Nazionale per la Protezione degli Animali, soprattutto per merito del mio intimo e carissimo amico Rodolfo Fucile, recentemente scomparso,  abbiamo fatto promulgare la legge che vieta di ucciderli ed impone ai comuni di mantenerli sino alla morte per via naturale. Conosco tutti gli animalisti della mia zona, il comprensorio di Sanremo e la provincia di Imperia, in Liguria. Un giorno di circa dieci anni fa ho incontrato un mio conoscente, che alimentava una colonia di gatti vicino al porto vecchio di Sanremo, il quale aveva la faccia segnata da alcune cicatrici ed il naso in parte eroso, per delle cause a me ignote, mentre stava in ginocchio, chino sopra un tombino aperto, con il braccio proteso verso l’interno del tombino stesso. Lo salutai ed egli, osservando il mio stupore per la sua insolita posizione, mi spiegò che stava dando da mangiare ad una gatta spaventata, che diffidava degli uomini e che, attraverso la fognatura, raggiungeva quel tombino, per farsi imboccare da lui. Dopo qualche giorno seppi  che l’avevano portato a Genova, per curarlo della lebbra, nella quale aveva avuto una ricaduta. Non ho potuto fare a meno di pensare che su 60.000 sanremesi quella gatta si era fidata solo di un lebbroso, perché evidentemente, più che  preoccuparsi dell’aspetto esteriore di un uomo, guardava come era dentro!

L’incremento demografico esponenziale, nei paesi più poveri, peggiora ulteriormente le condizioni di vita delle loro genti, obbligandole in parte a riversarsi disperate, in qualsiasi modo e con qualunque mezzo, nelle nazioni occidentali. Ne sono una straziante testimonianza le centinaia di migliaia di persone che muoiono ogni anno, annegate, asfissiate negli autocarri, nei furgoni, nelle automobili e nelle stive delle navi, dopo essere rimaste sepolte vive per interminabili periodi oppure vittime degli incidenti o uccise dalle forze di polizia, in quanto clandestini che non si sono fermati all’alt. Mi vergogno di essere italiano pensando a come sono trattati i profughi che sbarcano sulle coste dell’Italia, i quali sono spesso ripescati nel mare mezzi morti, poi vengono per breve tempo reclusi in veri e propri campi di concentramento gravemente carenti di servizi igienici civili, dove pertanto ricevono un’assistenza molto sommaria e poi sono  rispediti al loro paese , evitando di farglielo sapere, perché non si ribellino o spediti in Libia, senza che le nostre autorità abbiano neppure cercato di identificarli o si preoccupino della fine che faranno. E poi il 27 Gennaio celebriamo la giornata della memoria dell’Olocausto ebraico,  giurando che mai più l’umanità dovrà rinchiudere barbaramente esseri umani nei campi di concentramento!

Ad aggravare ancora di più la situazione già tragica del Terzo Mondo concorrono i conflitti che esplodono per motivazioni etniche, economiche, politiche, religiose. Contribuisce anche l’ignoranza in cui sono sprofondate le sue popolazioni, dopo la distruzione delle loro culture tradizionali, attuata dal colonialismo culturale dei paesi tecnologicamente progrediti. Serge Latouche sostiene, nel suo libro Decolonizzare l’immaginario (op. cit.) che queste popolazioni sono come  “svuotate” e cercano disperatamente in un fittizio “nazionalitarismo” o nell’”etnicismo” un senso di appartenenza, che consenta loro un’autoidentificazione, che il più delle volte difendono con violenza, talora anche sanguinaria.

Si assiste pertanto alla contradditoria coesistenza di zone in cui vige un totalitarismo poggiante sulla violenza e di zone in cui vi è totale assenza di organizzazione politica, embrioni di società feudali contrapposte ad embrioni di società caotiche.

Ovunque, ma soprattutto in Occidente, la subordinazione di ogni aspetto della vita sociale alla logica del profitto, la mercificazione dell’esistente, comprendente le persone che si strumentalizzano a vicenda, la tendenza implicita della società ad accettare gli esseri umani, sino dall’infanzia, solo se produttivi ed in possesso di determinati requisiti fisici e psichici, che esclude, di conseguenza, l’accettazione di uomini e donne per il solo fatto di esistere, come dovrebbe succedere  in una società fondata sulla solidarietà, l’inevitabile competizione sfrenata tra gli individui provocano la formazione nei giovani di una struttura caratteriale malata, dominata dall’insicurezza, dai sentimenti di inferiorità e dai sensi di colpa, stati d’animo caratteristici della nevrosi, che diventa il cemento degli attuali rapporti interpersonali. Il primo a parlare di una “corazza caratteriale nevrotica”, funzionale al capitalismo è stato lo psicoanalista W. Reich, autore di opere molto famose come La rivoluzione sessuale e di un’altra, molto meno conosciuta, ma di notevole importanza, Materialismo dialettico e psicoanalisi, che affronta appunto questi argomenti.

La televisione, il cinema ed i giornali propinano modelli di bellezza “da copertina”, escludenti la maggioranza delle persone, traguardi di potere, successo e ricchezza irraggiungibili, ruoli sociali inaccessibili, determinando negli individui aggressività, competitività per la propria autoaffermazione, disinteresse per i più deboli, anziani, handicappati e per i diversi, ad esempio omosessuali o extracomunitari, facilitando l’insorgenza di sentimenti razzistici.

La mercificazione globale investe anche i rapporti sentimentali, con l’introduzione della reificazione degli esseri umani - tipica dei rapporti umani in fabbrica, dove il lavoratore è uno strumento per fare profitto - anche nella coppia, in cui diventa normale la pratica dell’”usa e getta”, fatto che causa ulteriore insicurezza nelle persone.

La multiforme devianza cui assistiamo, provocata dai disvalori e dai negativi modelli di comportamento oggi imperanti, produce il fenomeno di cui aveva già parlato il grande psichiatra italiano Franco Basaglia - colui che ha fatto aprire le porte dei manicomi ai pazienti, che prima erano dei reclusi - nel suo libro, scritto negli anni settanta, La maggioranza deviante, quando aveva sostenuto che nella società a capitalismo avanzato si sarebbe formata una maggioranza di emarginati, sofferenti psichici, alcolisti, tossicodipendenti, sottoccupati, barboni, delinquenti, disadattati, abusatori di psicofarmaci e stimolanti, cui si sarebbe contrapposta una minoranza di cittadini, per così dire, “normali e produttivi”.

A questo proposito destano impressione alcune recenti manifestazioni del disagio sociale. Innanzitutto il suicidio infantile, fenomeno che un tempo non esisteva affatto e che oggi colpisce primariamente il Giappone, a causa della feroce competizione cui sono sottoposti i bimbi e poi l’Italia, per motivazioni che non sono in grado di spiegare con sicurezza, ma riconducibili al grave disagio che patiscono i bambini.

In Gran Bretagna ci sono stati invece alcuni casi di omicidi tra bambini, probabilmente causati dai violenti modelli di comportamento oggi imperanti, di cui anche la televisione è trasmettitrice.

Altra manifestazione di malessere sono le crisi di panico, cui vanno soggette soprattutto le donne, ma che ora stanno cominciando a colpire anche gli uomini. Infine i disturbi dell’alimentazione, la bulimia e l’anoressia, che si stanno diffondendo tra i giovani. L’anoressia colpisce in particolare le ragazze ed è una malattia gravissima, che sconvolge anche i genitori, i quali vedono talora deperire progressivamente i loro figli fino alla morte, per scongiurare la quale spesso si è costretti a ricorrere all’alimentazione coatta, disposta dal giudice.

Terribilmente violento è il rapporto della produzione con l’ambiente e gli animali.

L’ambiente subisce un costante processo di degrado, che rischia di diventare irreversibile, mettendo a repentaglio la stessa possibilità di sopravvivenza del genere umano. Tale degrado ha raggiunto in molte regioni livelli che hanno già sorpassato ampiamente i limiti di guardia. Non facciamo qui una approfondita analisi della situazione ambientale globale, che tutti conosciamo e che comunque esula dai confini del presente articolo, citiamo solamente problemi quali l’effetto serra e il buco dell’ozono con le conseguenti modificazioni climatiche, le piogge acide e la distruzione della flora che causa l’ampliamento delle zone desertiche (ogni anno circa 80.000 km quadrati della superficie terrestre subisce un processo di desertificazione, si tratta di un territorio vasto grosso modo quanto l’Austria), il dissesto idro-geologico, l’invivibilità delle città, ove l’aria, il suolo e le acque sono contaminati e in certi giorni è carente la quantità d’ossigeno indispensabile per la respirazione (accade spesso ad esempio a Los Angeles e a Tokyo), l’inquinamento dei mari, dei fiumi e dei laghi, lo scioglimento dei ghiacci dei ghiacciai eterni e delle calotte polari, la diffusione degli organismi geneticamente modificati, effettuata in molti paesi spesso anche illegalmente, la quale riduce la biodiversità, - tutti fenomeni determinati dall’eccesso insensato della produzione e dei consumi dei paesi ricchi.

Le materie prime non scarseggiano ancora, ma già inizia a determinarsi la carenza delle fonti tradizionali di approvvigionamento energetico,  mentre procede troppo lentamente, per scelte politiche sempre legate al profitto, la ricerca scientifica per riuscire a produrre, a costi sostenibili, quantità di “energie pulite” sufficienti a soddisfare le esigenze di consumo, anche se fossero ricondotte a limiti razionali. La produzione di energia solare, eolica, geotermica e marina (creata dalle maree), che attualmente saremmo in grado di realizzare, è insufficiente a coprire un fabbisogno riportato a livelli razionali, ossia molto ridotto rispetto a quello attuale, decisamente folle. Si consideri che, ad esempio, oggi in Italia con le energie alternative saremmo in grado di coprire solo il 5% dell’attuale fabbisogno. L’assurdità del nostro modo di produzione è documentata dal ritardo con cui si metteranno in vendita le automobili alimentate ad idrogeno, con zero emissioni inquinanti, benché l’ atmosfera sia sull’orlo del collasso. Anche l’attuale entrata in vigore del protocollo di Kyoto, peraltro non sottoscritto dagli Stati Uniti, sappiamo che ha un notevole significato morale e politico, costituendo un prezioso precedente che si spera sarà seguito da più impegnativi accordi similari, tuttavia non rappresenta assolutamente una misura capace di eliminare l’inquinamento atmosferico, considerando che ridurrà del 5% l’emissione di anidride carbonica, mentre sarebbe necessaria una riduzione del 50% di quella attualmente immessa nell’aria.

Un destino ugualmente tragico è riservato agli animali. Oltre 217.000  specie si sono estinte per la caccia indiscriminata e la sempre più drammatica espansione dell’inquinamento. L’Italia, ad esempio, è in cielo il deserto d’Europa. Terribile la sorte anche delle bestie da allevamento, da usare come cavie per la vivisezione, come animali da pelliccia o destinati all’alimentazione. Queste bestie sono programmate dal nulla, fatte nascere, di fatto torturate o perlomeno trascurate per tutta la vita e poi massacrate nella più assoluta indifferenza, come se non fossero esseri senzienti, con l’abbrutimento e le gravi conseguenze psicologiche conscie ed inconscie che ciò comporta anche agli esseri umani, che sono direttamente responsabili di questo misfatto o che ne beneficiano indirettamente. L’utilizzo del campo di sterminio per gli animali è considerato pienamente lecito! Una delle risultanze di questi comportamenti è la diffusione dell’encefalite spungiforme bovina, la patologia della cosiddetta “mucca pazza”, provocata dall’assurdità di dare da mangiare a un erbivoro farine animali, quindi alimenti contenenti della carne.  Non a caso, comunque, tutte le popolazioni primigenie si sono sempre rifiutate di uccidere un numero di bestie superiore alle loro esigenze  alimentari e al loro bisogno di manufatti di derivazione animale, inoltre hanno divinizzato le bestie sacrificate, scusandosi con esse per averle dovute abbattere. Ovviamente reputavano moralmente inammissibile un massacro indiscriminato ed automatico. E lasciatemi dire che è un fatto positivo che nel mondo stiano aumentando i vegetariani come il sottoscritto, sia per la difesa degli animali, che per la tutela della salute umana, perché la dieta vegetariana consente di prevenire il cancro di tutto l’apparato digerente, dalla bocca all’ano e le malattie cardiovascolari, oltre a favorire l’acquisizione di maggiore equilibrio ed umanità.

I grandi teorici della sinistra del XIX secolo avevano già denunciato la tendenza del capitalismo ad assumere uno sviluppo incontrollabile, svincolato dalle esigenze umane.

Proudhon, nel suo testo Che cos’è la proprietà?, del 1840, aveva già calcolato che ai suoi tempi, se avessero lavorato tutti, sarebbero state sufficienti 5 ore di lavoro al giorno per garantire il benessere generale dell’intera umanità.

Marx nel capitolo sesto inedito del primo libro del Capitale, composto tra il 1863 e il 1866 scrive:

 

“Certo, ‘ la produzione per la produzione ‘ – la produzione come fine in sé – entra già in scena con la sottomissione formale del lavoro al capitale, dal momento in cui il fine immediato della produzione generale diventa quello di produrre il più possibile e la grandezza maggiore possibile di plusvalore; dal momento in cui il valore di scambio del prodotto assurge a scopo dominante. Ma questa tendenza immanente del rapporto capitalistico si realizza in forma adeguata- e diviene una condizione necessaria anche dal punto di vista tecnologico – solo quando si è sviluppato il modo di produzione specificamente capitalistico e, con esso, la sottomissione reale del lavoro al capitale. […] La scala della produzione non dipende dai bisogni dati, ma al contrario la massa dei prodotti dipende dalla scala della produzione (sempre crescente) prescritta dal modo di produzione”.

 

Quindi per Marx  il passaggio dal dominio formale al dominio reale del capitale provoca lo sviluppo incontrollato della produzione e non a caso, secondo lui, la legge delle “crisi cicliche di sovrapproduzione”, causate dal generale sottoconsumo abbinato alle “sproporzioni” ossia gli investimenti erronei dei capitalisti, insieme con la legge della “tendenziale caduta del saggio del profitto” provocherà il crollo del Capitalismo.   Paul Sweezy, uno dei massimi economisti marxisti contemporanei, ribadirà poi la validità della legge delle crisi cicliche, smentendo invece la legge della tendenziale caduta del saggio del profitto, affermando che, negli Stati Uniti, in cinquant’anni, il rapporto tra il capitale investito e il profitto conseguito è costantemente aumentato a vantaggio di quest’ultimo.

Ma forse la conferma della tendenza del capitalismo a determinare uno sviluppo inarrestabile della produzione, che ha destato più scalpore, è stata , nel 1970, quella fornita dal Massachusetts Institute of Tecnology. L’equipe del M.I.T. di Boston, al di sopra delle parti e delle ideologie politiche, infatti, ha condotto la prima analisi mondiale del nostro modello planetario di sviluppo, impiegando il metodo di retroazione ed anelli, la cui elaborazione aveva richiesto uno studio di complessivi quarant’anni, giungendo alla conclusione che la produzione senza limiti, causata dall’asservimento esclusivo al profitto, inquinando, sprecando e sperperando fino all’esaurimento delle fonti energetiche tradizionali e delle materie prime, non promuovendo uno sviluppo del Terzo Mondo compatibile con l’ambiente e non riuscendo a bloccare l’incremento esponenziale delle nascite nei paesi poveri, non può che portare ad una catastrofe ambientale ed economica, che provocherà la morte di una parte considerevole dell’umanità. Tale catastrofe potrebbe avvenire tra il 2000 e il 2100. Vi sarebbero, secondo i ricercatori del M.I.T., cinque problemi che devono essere risolti contemporaneamente, se vogliamo evitare la catastrofe, perché anche la mancata soluzione di uno solo di essi, prima o poi la provocherebbe ugualmente. Tali problemi sono:

1° L’eccesso di produzione, che determina

2° l’inquinamento generalizzato dell’atmosfera, dell’idrosfera e della geosfera

3° l’esaurimento delle materie prime e delle fonti energetiche tradizionali. Vi è poi

4° l’incremento demografico incontrollato del Terzo Mondo. Infine

5° l’aumento del divario del reddito tra  i Paesi ricchi e i Paesi poveri.

I ricercatori hanno pertanto dichiarato che sia necessaria una trasformazione radicale del modo di produzione. Però sono caduti in disgrazia, quando hanno affermato che gli Stati Uniti avrebbero dovuto eliminare il 75% della loro produzione, anche perché da soli consumano più del 50% di tutte le materie prime del Mondo e provocano una parte consistente dell’inquinamento.

I risultati dell’indagine del M.I.T. sono stati contestati, a suo tempi, da alcuni ricercatori, però hanno ricevuto, proprio in questi ultimi anni delle conferme molto convincenti. Una delle ultime ci viene da Fulco Pratesi, presidente del WWF italiano, il quale ha dichiarato recentemente che con l’attuale modello di sviluppo, secondo tutti i dati in suo possesso, una catastrofe ambientale dovrebbe avvenire presumibilmente intorno al 2050. Pratesi ha anche sottolineato come sia assurdo incensare l’incremento del PIL (Prodotto interno lordo) delle nazioni ricche, dato che necessariamente  causa la distruzione dell’ambiente.

Purtroppo con la fine degli anni ’70 si chiudeva l’era dell’economia keynesiana, secondo la quale il capitale deve avere anche una ricaduta positiva sulla società, ci deve essere una parziale redistribuzione del reddito, lo stato deve fare ampi investimenti per produrre beni , istituire servizi, costruire strutture ed infrastrutture, a favore dei cittadini, anche a costo di provocare un limitato debito pubblico. Lo stato deve anche esercitare un certo controllo sull’economia e soprattutto sui prezzi. Insomma un  capitalismo dal volto un po’ meno disumano. Grazie a questa concezione economica gli Stati Uniti avevano potuto superare la tremenda crisi del 1929. L’economia sovietica,  in quegli anni, sembrava più solida di quella statunitense e quindi in qualche modo ciò era una conferma dell’idea keynesiana che ci dovesse essere un certo intervento economico dello stato. La conferenza tenutasi nel Luglio del 1944 a Bretton Woods, nel New Hampshire, Stati Uniti, fra i rappresentanti di 44 Paesi nemici dell’asse (Germania, Italia, Giappone) conclusasi con gli omonimi accordi, alla quale partecipò lo stesso Keynes, che poi sarebbe morto in quello stesso anno, sancì il trionfo del keynesismo e consentì di far nascere il Fondo Monetario Internazionale, con lo scopo di facilitare il commercio fra gli stati e di stabilizzare i cambi e la Banca Internazionale per la Ricostruzione e lo Sviluppo (BIRD, ovvero la Banca Mondiale).

Nel 1981 l’elezione di Ronald Reagan  alla presidenza degli Stati Uniti e la nomina a primo ministro di Margaret Thatcher in Gran Bretagna hanno determinato il trionfo del liberismo puro dei vinti dal keynesismo, Milton Friedman, Gary Backer soprattutto Friedrich von Hayek e il filosofo Karl Popper, forse il più grande filosofo della scienza del ‘900, autore però anche di un testo fondamentale del pensiero liberale: La società aperta ed i suoi nemici.

 

“Lo spettro che si aggira per il mondo intero non è più quello del comunismo del 1848, ma quello del liberismo del 1776. (Anno della pubblicazione della “Inchiesta sulla natura e le cause della ricchezza delle Nazioni” di Adam Smith, testo base della dottrina liberale). […] Progressivamente [i neo-liberisti] hanno popolato con le loro creature i consigli economici della Casa Bianca e gli “staff” della Banca Mondiale e del FMI. Hanno ottenuto questi risultati tramite associazioni e personalità potenti quali la società di Mont Pelerin negli StatiUniti, La società Adam Smith e l’Università Saint Andrew in Gran Bretagna, Ronald Reagan, Margaret Thatcher….e persino con l’aiuto della CIA. Hanno sparso  i loro esperti nel Terzo Mondo e nell’ex Secondo Mondo, dal Cile di Pinochet alla Russia di Boris Eltsin. Gradualmente sono riusciti a colonizzare la quasi totalità delle facoltà di economia del pianeta ( e naturalmente le business schools..) a intrecciare delle complicità nei governi o le opposizioni  socialdemocratiche,, se non addirittura tra gli ultimi fossili del comunismo” (Latouche, op. cit.).

 

E’ chiaro così che sono cresciuti in maniera esplosiva sia il mercato che lo sviluppo concreti, sia il loro mito. Latouche, nello stesso libro dimostra, con dovizia di esempi, che i tentativi di imporre in Africa un modello di produzione uguale al nostro sono miseramente falliti, perché cozzavano contro una cultura, un modo di essere della popolazione completamente diversi: “Il trapianto tecnologico è fallito, e i complessi industriali incompiuti arrugginiscono in mezzo a un paesaggio devastato. Il cimitero dei progetti è molto affollato”.  Cita poi a sua volta  un passo tratto da Democrazia per l’Africa di R. Dumont:

 

“ Si potevano sfruttare tecniche più rudimentali, meno costose e facilmente controllabili. Ad esempio, per produrre zucchero sono sufficienti due cilindri, azionati da una coppia di buoi, che schiacciano i gambi della canna da zucchero. Il succo estratto viene poi fatto bollire, usando come combustibile i gambi schiacciati. Con le tecniche moderne si estrae più zucchero, ma con il metodo tradizionale si eliminano le spese di costruzione della fabbrica e di trasporto della canna e dello zucchero raffinato. Questo zucchero poi contiene pure sali minerali e vitamine che combattono la carie dentaria.”.

 

Sicuramente i paesi del Terzo Mondo dovrebbero essere aiutati a costruire modalità di produzione rispettose delle loro civiltà, più rispettose dell’ambiente, tentando di ideare e concretizzare nuove forme di efficacia ed efficienza, come, ad esempio, sta facendo da molti anni l’”ASSEFA” (Associazione delle fattorie al servizio di tutti) in India. Anche perché se adottassero lo stesso nostro modello produttivo si determinerebbe in breve tempo il collasso ambientale.

Che cosa si intende con il termine globalizzazione? Risponde Latouche (op. cit.):

 

”Il vocabolo, non affatto innocente, lascia intendere che ci si troverebbe di fronte a un processo anonimo e universale, benefico per l’umanità, e non che si è trascinati in un’impresa auspicata da certe persone per i loro interessi -un’impresa che presenta rischi enormi e pericoli considerevoli per tutti-. Più che la mondializzazione del mercato, questa impresa riguarda la ‘mercificazione’ del mondo, ed è questo ad essere nuovo e pericoloso.  Come il capitale, al quale è intimamente legata, la globalizzazione è in realtà un rapporto sociale di dominio e di sfruttamento su scala planetaria. Dietro l’anonimato del dominio ci sono beneficiari e vittime, padroni e schiavi.”.

 

E ancora lo stesso Latouche (La fine del sogno occidentale, edizioni Eléuthera, Milano 2004, pp. 19-20):

 

“I beni e i servizi, il lavoro, la terra e, domani, il corpo, gli organi, il sangue, lo sperma, l’affitto dell’utero, entrano nel circuito commerciale. Fin d’ora, con i servizi, la banca, la medicina, il turismo, i media, l’insegnamento e la giustizia, diventano transnazionali. Ai rappresentanti dei poteri pubblici americani, presenti dappertutto nel mondo, nel corso delle grandi manovre per il controllo del mercato delle autostrade informatiche, è impartita la direttiva di prestare manforte ai giganti del multimediale esigendo che i “prodotti” culturali siano trattati come merci “uguali alle altre” e le riserve culturali come un banale e nocivo protezionismo.

L’attuale mercato mondiale, diversamente dalle antiche “piazze del mercato”, quei luoghi reali delle città e dei paesi dove si scambiavano le merci tradizionali, realizza un’interdipendenza dei diversi mercati e mette in comunicazione più o meno stretta i mercati dei beni, dei servizi produttivi e dei capitali.

Tuttavia, invece di generare un armonioso equilibrio per la massima felicità del maggior numero di persone, come postulano i liberisti, questo mercato totale non può evitare, né in teoria né in pratica, delle pericolose instabilità. I mercati finanziari, in particolare, dominano sempre di più i mercati di beni e servizi. Oggi, essi obbediscono prima di tutto alle profezie autorealizzatrici e si sviluppano in sacche speculative che possono raggiungere dimensioni mostruose. L’ammontare delle speculazioni finanziarie non è proporzionale a quello delle attività produttive

La deregulation, lo sviluppo dei mercati a termine e l’esplosione dei prodotti derivati hanno fatto sì che gli scambi giornalieri abbiano oltrepassato i 1.500 miliardi di dollari, ossia il doppio delle riserve monetarie (più del prodotto interno lordo della Francia). I movimenti finanziari hanno raggiunto circa 150.000 miliardi di dollari nel 1993, cioè da 50 a 100 volte più dei movimenti commerciali annuali. Le economie, e in particolare quelle del Terzo mondo, sono alla mercè delle fluttuazioni di quei mercati finanziari. L’esplosione di queste sacche speculative è oltretutto capace di scuotere  l’intero sistema mondiale, come si è visto nel tracollo del 1987 o nella crisi americana. Un ragazzo di 25 anni che digita sul suo portatile può far fallire la più antica e rispettabile banca della City, la Barings. E si trattava comunque di crisi minori e circoscritte.”.

 

Serge Latouche e gli altri principali rappresentanti della critica allo sviluppo hanno formato  due reti: l’INCAD “International Network for Cultural Alternatives to Development”, con sede a Montreal e la “Reseau Sud/Nord Cultures et Developpement” con sede a Bruxelles, in Belgio. Da segnalare anche il lavoro degli “Amis de Francois Partant “ riuniti nell’associazione “Ligne d’horizon”, che nel Marzo 2002 ha organizzato un convegno dal titolo “Disfare lo sviluppo, rifare il mondo”. Inoltre Latouche è membro del Comitato di Redazione della rivista “MAUSS”, alla cui fondazione ha partecipato attivamente nel 1982. “MAUSS” è acronimo di “Movimento Anti-Utilitarista nelle Scienze Sociali”. Ma la sigla rende anche omaggio al celebre antropologo e sociologo francese Marcel Mauss. E’ un progetto, il quale vede la presenza di sociologi, storici, psicologi, filosofi, che rifiuta la schiavitù dell’utilità, la quale dall’economia ha finito per condizionare tutti gli ambiti dell’umano. A questa il MAUSS contrappone il dono, cioè qualsiasi prestazione di beni e servizi effettuata senza garanzia di restituzione, al fine di creare, alimentare o rigenerare il legame sociale. Nel dono ciò che realmente importa non è il valore d’uso di ciò che si scambia, ma il valore della relazione umana che si stabilisce fra le parti. Latouche si ricollega alla grande scuola di pensiero e studi sociali francese, che tra i suoi esponenti annovera Georges Bataille, scomparso nel 1962, il quale ha  aperto, con il suo genio, vasti orizzonti nel campo della filosofia, dell’antropologia, dell’economia e della politica. Si tratta di una ricerca aperta, tuttora da approfondire e di cui si può avere un compendio nella sua interessantissima  opera, tradotta in italiano, La parte maledetta (Bertani editore), nella quale sostiene che sia innata nell’uomo l’esigenza di distruggere dei beni, il bisogno della perdita di ingenti risorse, di un vasto dispendio improduttivo, caratteristica umana di cui bisogna tenere conto.

Secondo Latouche, se vogliamo fermare la “Megamacchina” costituita dal modo di produzione capitalistico impazzito,  di cui sono ingranaggi sia le merci, sia le fabbriche, sia tutti gli uomini, dobbiamo innanzitutto decolonizzare la nostra mente da tutti i falsi postulati e preconcetti che l’ideologia “sviluppista” ci ha inculcato in testa, compreso quello dello “sviluppo sostenibile”, dato che è flagrante incongruenza, in quanto non esiste più nessun tipo di sviluppo che sia compatibile con l’ambiente. Si tratta invece di delineare una evoluzione economica che sia compatibile con la geosfera nei fatti e non a parole, la quale implica in Occidente una riconversione produttiva, che elimini gli eccessi della produzione di beni superflui, finalizzata al profitto, mentre nei paesi poveri  preveda uno sviluppo controllato della produzione di beni utili, realizzata con modalità rispettose dell’ecosistema.

Forse la prima e più importante vittoria del capitalismo è rappresentata dalla conquista dell’immaginario collettivo, indispensabile per precludere le vie della trasformazione sociale.

George Bush senior, Bill Clinton, L’Unione Europea con il trattato di Maastricht, George Bush junior hanno continuato ad operare nella scia neoliberista, con le conseguenze sociali che sono sotto gli occhi di tutti. Ma spesso gli occhi non sono capaci di discernere. E’ infatti ferma convinzione ditanti teorici libertari, di Cornelius Castoriadis o di Guy Debord, tanto per citarne due dei più rappresentativi, che il modo mitico in cui la gente vede realtà come quelle dell’economia o della scienza, considerandole onnipotenti ed intimamente coerenti, molto diversamente da come sono in concreto, sia un elemento essenziale del  dominio capitalistico e che pertanto la più ampia diffusione di una loro visione critica sia indispensabile per liberare l’umanità da tale mitizzazione, che la incatena all’attuale società. Castoriadis, nel suo articolo L’immaginario economico pubblicato sulla rivista “Volontà” (nn.1-2, 1990, pp. 25-45), scrive:

 

”Sarebbe privo di interesse, e di senso, cercare di spiegare causalmente l’ascesa del razionalismo occidentale attraverso l’espansione della borghesia, o l’inverso. Noi dobbiamo prendere in considerazione questi due processi: da una parte, l’emergere della borghesia, la sua espansione e la sua vittoria finale, che vanno di pari passo con l’emergere di una nuova idea, con la sua diffusione e la sua vittoria finale, dell’idea, cioè, che la crescita illimitata della produzione e delle forze produttive sia in realtà lo scopo principale della vita umana.

Questa idea è ciò che io chiamo una ‘significazione sociale immaginaria’. A questa corrispondono nuovi atteggiamenti, nuovi valori e norme, una nuova definizione sociale della realtà e dell’essere, di ciò che conta e di ciò che non conta. Per dirla in poche parole, ciò che conta è ciò che può essere contato.”.

 

Debord nella sua celeberrima opera La società dello spettacolo sostiene che nella società capitalistica alla dimensione dell’essere si è sostituita la dimensione del sembrare, che ogni realtà diventa immagine e che l’insieme delle immagini costituiscono lo “spettacolo”;  “ La realtà, nel suo complesso, appare come il movimento autonomo del non vivente.”.

Infine citiamo un passo del saggio di Paul Veyne pubblicato nel libro Fare storia (Edizioni Einaudi).

 

“Nessuno dubita quando tutti gli altri credono: gli psicologi hanno mostrato il potere dell’opinione di un gruppo coerente sui suoi membri, persino a livello della percezione. […] Si dubita ancora meno quando un’opinione ha un appoggio istituzionale e influenza il comportamento: in questo caso è più comodo“ridurre la dissonanza’ tra il proprio comportamento e il proprio pensiero[…] e pensare nella stessa maniera in cui ci si comporta. Insomma, si interiorizza l’altrui. Le credenze sono castelli di carte (ogni individuo è una carta), dove tutti si appoggiano a tutti, e che un bel giorno crollano perché questo equilibrio è venuto accidentalmente meno…Questi crolli non potrebbero essere spiegati con il progresso del pensiero, come si farebbe per spiegare l’evoluzione intellettuale di un individuo, filosofo o scienziato: è la struttura interindividuale a rendere conto della durata e della vita di un mito.”

 

Veyne afferma inoltre che alcune di queste mitizzazioni su cui si fonda l’ideologia dominante consistono nell’attribuire cieca fiducia a realtà sociali che la maggioranza della gente non conosce assolutamente e fa l’esempio della scienza. Secondo me ha perfettamente ragione! La stragrande maggioranza della gente, compreso molti laureati, tra cui numerosi in materie scientifiche, non conosce assolutamente i problemi attuali della ricerca scientifica, le grandi controversie esistenti che nell’ambito, ad esempio, delle scienze umane riguardano persino le definizioni delle singole discipline, per poi trasferirsi alle diverse teorie e di conseguenza metodologie. Tuttavia anche nella matematica e nelle scienze naturali le contrapposizioni non sono irrilevanti. Basti pensare che esistono almeno due matematiche, una basata sugli insiemi numerici e processi infiniti in atto, seguita dalla maggioranza dei matematici, l’altra che accetta solo l’illimitatezza dei numeri, ma non la loro infinità e che inizia da Aristotele e arriva fino ai moderni “intuizionisti”. O che in fisica la meccanica quantistica di Max Planck e la teoria della relatività di Albert Einstein non sono raccordate tra loro.

Siamo ben lontani da un progresso scientifico lineare che ci spieghi sempre meglio, all’infinito, come è fatto il mondo! Naturalmente la ricerca scientifica, considerata in modo critico, svolge una funzione fondamentale per l’umanità!

Lo stesso discorso si può fare per quanto riguarda l’altro dei grandi miti su cui la gente riversa la propria fiducia cieca e che concorre come e forse ancor di più di quello della scienza in generale a mantenere in piedi il sistema: l’economia. Infatti anche questa disciplina è in crisi e molti economisti mettono oggi in discussione il suo stesso status di scienza. Citiamo, come esempio di queste posizioni, le tesi di due articoli pubblicati sulla rivista “Volontà” (nn. 1-2, 1990), Il crepuscolo di una scienza di Alain Callé e La banalità nella dottrina economica di Ilio Adorisio. Ovviamente anche l’economia è uno strumento conoscitivo indispensabile, se considerato ed utilizzato in modo critico!

Non dimentichiamoci infine che lo stesso Marx ha sempre affermato che la sua concezione rappresentava una “critica dell’economia politica”, poiché era ben consapevole della distorsione della realtà effettuata dal capitalismo e dalla sua scienza. Egli infatti nel primo libro del “Capitale” denuncia il feticismo delle merci, caratteristica fondamentale della società capitalistica e il carattere fantasmagorico del “valore di scambio”, che è una pura astrazione, la quale si sostituisce al “valore d’uso”, ossia ad un elemento reale e concreto: l’utilità dei vari beni di consumo.

Alla globalizzazione del capitalismo bisogna rispondere con l’azione globale o “glocale” ossia globale e locale insieme dei lavoratori e di tutti coloro che vogliano trasformare radicalmente la società planetaria.  Per noi libertari uno strumento fondamentale è l’azione sinergica di una rete di sindacati di base autogestiti ed autogestionari.  Questa rete in parte l’abbiamo realizzata, almeno in Europa e in molte nazioni degli altri continenti.  Ai sindacati che ne fanno parte verrà distribuito  il presente articolo, tradotto in quattro lingue.  Il progetto che contiene è già stato approvato all’unanimità dal comitato esecutivo nazionale dell’Unicobas, l’organizzazione sindacale referente della rete per l’Italia.  Tale progetto sarà inserito in un sito internet e aperto alla collaborazione internazionale di tutte le persone che vogliano parteciparvi.

Nei primi mesi del 2001 riflettevo appunto sulla necessità dei socialisti libertari di costituire, in ogni nazione, un grande sindacato dei cittadini, che abbia una sua ideologia e strategia politica, pubblicamente trasparenti e autonomamente elaborate,  superando il dualismo organizzativo, ossia la concezione secondo la quale l’attività politica si debba basare sulla collaborazione tra un partito   o un’organizzazione politica “specifica” da un lato e dall’altro da un’organizzazione di massa sindacale. A mio avviso  questa pratica politica è fonte di negative sovrapposizioni e indebite interferenze, perciò è preferibile demandare l’azione politica ad un’organizzazione sindacale complessiva, che abbia al suo interno una autonoma e globale progettualità strategica.

Il che non vuol dire che le organizzazioni specifiche libertarie non possano svolgere una funzione positiva per il sindacato, bensì che tale funzione consista prevalentemente in una collaborazione culturale, piuttosto che in una direzionalità politica.

Pensavo che il sindacato debba essere un’organizzazione complessiva, che riunisca lavoratori attivi e pensionati, studenti, cittadini e paesani, categorie deboli specifiche, quali i disoccupati o sottoccupati, emarginati, stranieri in particolare extracomunitari,  carcerati, disabili, sofferenti psichici, bulimici ed anoressici, gay. ecologisti eccetera…. con una sua capacità di dare una risposta globale alle esigenze della gente, quali la difesa del salario, dell’occupazione, dell’ambiente  e degli animali, delle piante, sia come singoli che come specie o famiglie, della salubrità dei luoghi e delle condizioni di lavoro. Che si impegni per l’emancipazione della donna e delle altre categorie oppresse, per l’impiego alternativo e comunitario del tempo libero, per la promozione della cultura e l’acquisizione da parte di tutti di una casa.

Si tratta di un nuovo soggetto politico, la cui strategia e modalità di intervento politico però affondano le loro radici nella più autentica tradizione libertaria, secondo cui la trasformazione della società non è il risultato , come pensava Marx, di un cambiamento dei rapporti di produzione, cui seguirebbe “ il crollo della gigantesca sovrastruttura “ ossia tutte le istituzioni sociali quali lo stato, la famiglia, alle quali sono connesse l’ideologia dominante e la struttura caratteriale media, che di conseguenza si conformerebbero alla nuova realtà economica, bensì il risultato di una evoluzione complessiva della situazione ambientale ed economica , delle istituzioni sociali  e della coscienza degli uomini, che consentono nella loro interazione  una rottura radicale con il passato e la nascita di un superiore ordine sociale.

Questa nuova organizzazione politica deve essere in grado di avere, al suo interno, momenti e luoghi in cui i suoi iscritti e le persone con le quali si rapporta  possano anche discutere di problemi familiari e dei più intimi problemi personali, che hanno sempre una radice sociale e che bisogna affrontare, se si vuole orientare in senso positivo il mutamento collettivo.

Ad esempio è molto importante discutere della famiglia , che sta attraversando una terribile crisi evolutiva, per cercare di indirizzare in senso positivo il suo cambiamento.

Altrettanto importante è iscrivere gli studenti al sindacato, sia per favorire una loro formazione umana e politica, sia per ricevere il contributo delle loro idee fresche, sia per averli a fianco nella lotta per cambiare la scuola, creando una continuità alla loro azione sociale, che oggi va invece perduta con la fuoriuscita dagli istituti da parte delle varie classi di età.

La moderna organizzazione sindacale, improntata a una profonda e rivoluzionaria solidarietà, non deve lasciare  solo il cittadino di fronte ai drammi e alle mostruosità del presente e, senza pretendere di sostituirsi a tutte le migliaia di organizzazioni di massa costituite per affrontare temi e problemi specifici, non deve sottrarsi alla lotta per la soluzione della più vasta gamma delle problematiche  attuali, evitando inoltre la dispersione delle energie e del tempo del cittadino nell’istituire e far funzionare miriadi di organismi disparati, favorendo la proliferazione, come succede oggi, di innumerevoli sigle, cui stanno dietro le stesse sparute persone. La razionalizzazione delle formule organizzative e dell’impiego del tempo dei cittadini dedicato alla socialità è uno degli obiettivi fondamentali da perseguire, che potrebbe anche essere determinante per l’esito della nostra azione politica. E nell’ambito di questo discorso assume un ruolo essenziale l’impiego alternativo del tempo libero. Bisogna assolutamente non perdere la battaglia con il capitalismo, per strappare ad esso un utilizzo comunitario, liberatorio e socialmente impegnato del tempo libero, per il maggior numero possibile di persone!

Su questo e su altro ragionavo allorché mi è venuto da pensare che ovviamente  un siffatto sindacato debba provvedere in modo efficace al suo autofinanziamento  e alla difesa dei salari e degli stipendi dei cittadini. Mi sovvenne di prendere in esame il funzionamento delle cooperative di consumo,  e di quelle particolari loro derivazioni semplificate che sono i gruppi d’acquisto solidale. Si tratta di gruppi di cittadini che acquistano assieme , in grande quantità, vari beni, possibilmente direttamente dai produttori, saltando tutti gli intermediari, per pagarli di meno e così risparmiare. Tali gruppi sono costituiti generalmente da dieci o più persone, che fanno una ordinazione collettiva di vari generi di consumo, di solito a cominciare da quelli alimentari, li fanno portare in un luogo comune, il quale il più delle volte è l’abitazione di uno degli iscritti, pagano i fornitori, dopodiché consegnano, in un giorno e ad un’ora stabiliti, i beni ai singoli acquirenti, che vengono direttamente a prenderseli. I gruppi d’acquisto solidale si sono diffusi in tutta Europa e moltiplicati fino a diventare migliaia.

In alcune nazioni europee, soprattutto in Francia, sono anche nati “Sistemi di scambio locale”. Li cita Serge Latouche nel suo libro Decolonizzare l’immaginario, spiegando che sono associazioni i cui membri si scambiano, al di fuori del mercato , beni e servizi di ogni genere. I prodotti scambiati vanno da lavori di riparazione domestica a servizi di baby-sitter, passando per corsi di lingua, massaggi, fornitura di ortaggi, prestito di utensili e ovviamente tutta la gamma di prodotti di seconda mano. Liste regolarmente aggiornate e gestite da un elaboratore centralizzano le offerte e le domande e permettono di conoscere la posizione dei debiti e dei crediti di ognuno. Così persone escluse dal lavoro, le cui competenze sono state respinte dal sistema di mercato, possono ritrovare forme di attività e, quel che forse è più importante, di riconoscimento sociale e al medesimo tempo complementi di risorse non trascurabili.

Io provai ad immaginare, in un primo tempo, che il nostro sindacato potesse funzionare, a livello nazionale, come un gruppo d’acquisto, offrendosi come intermediario agli iscritti, per acquistare tutti i beni ed i servizi  di cui necessitano, ovviamente pagandoli a un costo inferiore e consentendo che ciascuno di essi destinasse una piccola percentuale del denaro risparmiato al finanziamento dell’organizzazione. Ho provato così a fare due conti  e ho calcolato che un piccolo sindacato di  1000 iscritti , se ciascuno dei suoi tesserati desse l’equivalente di 1.000.000 delle vecchie lire mensilmente per acquistare generi necessari,  gestirebbe annualmente l’equivalente di 12.000.000.000  di lire, un sindacato di 30.000 aderenti ne gestirebbe 360.000.000.000, uno di 50.000  ne gestirebbe 600.000.000.000, uno  come la C.G.I.L. di 5.000.000 ne gestirebbe 60.000.000.000.000. Mi sono subito reso conto che cifre del genere dimostrano che il vecchio progetto del mutualismo di Proudhon , secondo il quale si sarebbe potuta creare una rete di cooperative produttive, finanziate con il denaro dei lavoratori, che gradualmente si sostituisse alle aziende capitalistiche, avesse un suo fondamento logico.

L’anarchico Proudhon aveva cercato di realizzare il suo progetto, avendo un seguito notevole  nel movimento degli operai e degli artigiani, come testimonia il fatto che i lavoratori che diedero vita alla Prima Associazione Internazionale dei Lavoratori a Londra, nel 1864,  la quale durò di fatto fino al Congresso dell’Aia del 3 Settembre del 1872, dove era stata convocata da Marx, affinché non potesse parteciparvi Bakunin, essendo allora ricercato in Olanda, erano in gran parte mutualisti  proudhoniani. Per la cronaca Marx all’Aia fece approvare il trasferimento della sede dell’Internazionale negli Stati Uniti, che di fatto significava decretarne la morte, nel tentativo di sottrarla all’influenza degli anarchici, Lo scioglimento ufficiale avvenne poi al Congresso di Filadelfia del 1876.

Proudhon morì nel 1865, all’età di 56 anni. Dal 1840  si era dedicato ad elaborare ed applicare la sua strategia  di trasformazione produttiva e sociale. Non mi è possibile in questo articolo sintetizzare adeguatamente il pensiero di Proudhon e confrontarlo criticamente con quello di Marx, consiglio a chi volesse approfondire l’argomento di leggere di Proudhon  Che cos’è la proprietà, scritto nel 1840 e Trattato delle contraddizioni economiche o filosofia della miseria scritto nel 1846, di Marx Miseria della filosofia  scritto nel 1847 , di Karl Popper  Miseria dello storicismo e di Pierre Ansart  La sociologia di Proudhon (1967; ed. cons. Il Saggiatore, Milano 1972). Nel corso del presente articolo faremo qualche riferimento a queste opere. Ad esempio voglio  ricordare come dalla lettura delle prime due risulti chiaramente che Proudhon rifiutasse l’idea secondo cui si dovesse realizzare una rivoluzione solo politica per poi collettivizzare la produzione e affidarla alla gestione dello stato, bensì ritenesse si dovesse attuare una trasformazione radicale dei rapporti sociali, per dare vita ad una federazione politica  ed economica dei lavoratori, il più possibile autogestita. L’autoorganizzazione economica dei lavoratori era per lui indispensabile sia per avviare il processo rivoluzionario, sia per mantenere viva, partecipativa e dinamica  l’economia trasformata ed anche la società. Ritengo importante sottolineare il grande significato di questa concezione alla luce di quello che poi è avvenuto nei paesi socialisti, dove la gestione collettivistico-burocratica dell’economia ha provocato, a mio avviso, il collasso e la morte conseguente del comunismo dittatoriale. Ha causato questo fallimento, imponendo dall’alto una pianificazione la quale escludeva la partecipazione creativa e la consultazione dei lavoratori, rifiutava l’adeguamento locale di linee programmatiche nazionali, obbligava le nazioni a destinare il 50% della produzione alle armi, rinunciava alle innovazioni tecnologiche per garantire la piena occupazione nel settore secondario o industriale. I burocrati del partito bolscevico non capivano, sempre secondo me, che i lavoratori si devono spostare di settore produttivo,  in questo caso dal settore secondario al quello terziario, anzi che se si dovesse arrivare ad avere dieci persone impiegate ad assistere un vecchio, quella sarebbe la società migliore possibile.

Il  più grande difetto del collettivismo burocratico era quello di essere basato ancora sullo sfruttamento. Proudhon e Marx nelle opere citate trattano anche il problema della natura dello sfruttamento. Proudhon sostiene che la proprietà privata dei mezzi di produzione è un furto, perché determina lo sfruttamento dei lavoratori, in quanto l’imprenditore non paga ai produttori la collegialità del loro lavoro, bensì il loro impegno singolo. Il prodotto della azione sinergica dei lavoratori sarebbe il plusvalore non pagato. Marx afferma che l’imprenditore non paga interamente il risultato di tutto l’orario di lavoro degli operai. Da ciò deriva il plusvalore e quindi lo sfruttamento. Ammette però che la teoria valore-lavoro era già presente negli scritti dell’economista classico David Ricardo. E proprio in Miseria della Filosofia, opera il cui titolo ironizza su quello dell’antecedente libro di Proudhon Filosofia della miseria, scritta per criticare la mancanza di rigore dell’autore anarchico e la sua presunta mentalità piccolo borghese per avere teorizzato la diffusione e la costituzione in federazione di una rete di cooperative di produttori, in alternativa, nel futuro, allo stato proletario, Marx riconosce a se stesso solo il merito di avere distinto il concetto di forza lavoro da quello di lavoro, i quali nell’economia classica erano confusi. Ma entrambe le analisi oggi sono insufficienti. Lo sfruttamento non deriva esclusivamente dalla proprietà privata dei mezzi di produzione, ma anche dall’organizzazione burocratica del lavoro. In Asia, quando vennero fatte le grandi opere di canalizzazione, la proprietà della terra era collettiva, tuttavia esistevano già le classi sociali, c’erano coloro che comandavano, non facevano lavoro manuale probabilmente mangiavano di più e coloro che obbedivano, si sporcavano le mani e quasi senz’altro mangiavano di meno. Nei Paesi dell’Est i burocrati ed i tecnocrati comandavano, non svolgevano lavoro manuale e guadagnavano di più degli operai. Per giunta i loro spacci particolari erano sempre riforniti di beni di consumo, mentre quelli degli operai no, tanto è vero che spesso i lavoratori comuni facevano lunghe file per ore e quando arrivava il loro turno le merci erano esaurite. Era chiaro che quel sistema economico non poteva finire che male. Proudhon e dopo di lui Bakunin avevano capito comunque, al di là dei limiti delle loro analisi,  che un sistema economico burocratico avrebbe finito per ricreare una società disegualitaria. E sicuramente, come afferma  Latouche, l’idea martellante di dover realizzare un continuo sviluppo, conseguito con l’imprigionamento ed il soffocamento dei lavoratori, ha contribuito non poco al  fallimento del collettivismo dei Paesi dell’Est europeo e dell’Asia.

E’ stata un conseguenza, a mio avviso, dell’applicazione della teoria del “materialismo storico” secondo cui il totale sviluppo delle forze produttive è la condizione indispensabile per la realizzazione del comunismo ed è quindi da attuare a qualunque costo.

Per ironia della sorte, nel 1991, prima i dirigenti polacchi e poi Boris Eltsin hanno chiamato economisti neo-liberisti come Jeffrey Sachs a smantellare  l’industria di stato delle loro nazioni, i quali hanno applicato alla lettera la dottrina liberista, lasciando che la gente, alla fame, per la disperazione facesse ripartire il mercato, attuando per strada lo scambio degli alimenti e di altri beni indispensabili, senza che lo stato intervenisse in alcun modo e poi svendendo le aziende pubbliche ai privati, che  sborsando pochi soldi sono diventati ricchi. Eltsin ha fatto stampare 144.000.000 di buoni da 10.000 rubli e li ha distribuiti alla gente, perché potesse acquistare sezioni delle fabbriche. Naturalmente sono stati solo personaggi come Boris Jordan, Anatoly Chubais,  ora responsabile dell’ente per l’energia elettrica e sfuggito ad un attentato proprio ultimamente, Vladimir Potanin che sono diventati proprietari di grandi aziende. Alcuni familiari di Eltsin hanno poi messo le mani sugli aiuti inviati dagli Stati Uniti in soccorso del popolo russo, ma sono stati maldestri e sono stati scoperti. E così è finita miseramente, nelle braccia della mafia russa, la vicenda di un popolo che aveva fatti sacrifici immensi e sopportato enormi sofferenze, per sottrarsi alla barbarie capitalistica.

 

“L’UNESCO ha accertato che circa mezzo milione di morti all’anno in Russia, a partire dal 1989, sono la diretta conseguenza delle riforme, e sono imputabili al collasso del sistema sanitario, all’aumento della malnutrizione e ad altri fattori simili. Uccidere mezzo milione di persone all’anno mi pare un ragguardevole risultato per i cosiddetti riformatori.”. (Noam Chomshy, Il golpe silenzioso, 1994, ed. cons. Edizioni Piemme, Casale Monferrato 2004).

 

Ma ritorniamo a Proudhon. Malgrado il grande seguito che  ebbe  Proudhon in vita, il progetto mutualista, che egli sostenne anche con la creazione nel 1849 di una “Banca del Popolo” , la quale  non trattava denaro bensì scambiava buoni lavoro tra i produttori, da cui deriva l’attuale” Banca del Tempo”, si scontrò con il basso livello dei salari, che consentivano a malapena la sussistenza e non potè finanziare una rete di cooperative di produzione in modo così consistente da garantire una loro continua espansione.  Oggi la situazione economica è ben diversa.  I salari , gli stipendi da lavoro dipendente e i redditi  da attività artigianale devono per forza garantire la possibilità di acquistare beni di largo consumo, altrimenti gli imprenditori si potrebbero vendere solo fra di loro i propri prodotti ed il sistema crollerebbe immediatamente per una crisi di sovrapproduzione. Pertanto, a mio avviso, ha senso provare a socializzare i salari e ad autogestire i consumi, attraverso l’istituzione di una federazione di coperative di consumo, al fine di finanziare la costituzione di una federazione di cooperative di servizi e di produzione. Io non sapevo allora, nel 2001, che questa via era già stata tentata e che si chiamasse “cooperazione integrale”. L’ho scoperto recentemente, studiando in modo approfondito la storia della cooperazione, proprio per cercare di capire se questa via sia praticabile e, in caso di risposta affermativa, come. Mi è stata molto utile, per approfondire l’argomento, la recentissima opera monumentale di Vera Zamagni, Patrizia Battilani e Antonio Casali, La cooperazione di consumo in Italia (Società Editrice il Mulino, Bologna 2004) edita per conto del “Centro Italiano di Documentazione sulla Cooperazione e l’Economia Sociale” della COOP Consumatori, la quale ricostruisce, sulla base di migliaia di documenti, la storia di 150 anni di cooperazione di consumo in Italia e parzialmente anche in Europa, testo che mi è stato gentilmente donato dalla COOP e che ho letto e studiato attentamente, prima di scrivere queste note.

La storia della cooperazione mondiale è molto complessa e forse in gran parte ancora da scrivere. E’ già molto difficile avere un’idea dell’attuale sviluppo delle cooperative nel mondo, figurarsi ricostruire la storia della cooperazione di produzione e di quella di consumo in  tutti i continenti e in tutti i Paesi, essendo condizionata da multiformi situazioni e attraversata dalle più disparate  ideologie. Tuttavia una certa idea di quella europea e di quella italiana ce la possiamo fare, sulla base di vari testi, che differenti  autori  hanno scritto, soprattutto nel corso del XX Secolo.  Io, ovviamente, non intendo assolutamente, in questo articolo intraprendere una simile ciclopica impresa, bensì rimarcare sinteticamente una serie di fatti, utili a mio avviso per delineare una evoluzione positiva, che essa potrebbe assumere oggi.

Mentre in Europa, nell’Ottocento, la cooperazione di produzione, prevalentemente agricola, ha assunto dimensioni ed ideologie davvero eterogenee, quella di consumo ha svolto inizialmente la funzione di strumento difensivo dei lavoratori, finalizzato a vendere loro prodotti di  maggiore qualità, pesati con onestà, diversamente da quanto spesso succedeva nei normali empori e botteghe, a un costo minore, grazie al grosso volume degli acquisti svolti collegialmente dai soci, generalmente attraverso l’acquisizione di una o più azioni e grazie al superamento degli intermediari. Di solito i soci ricevevano degli utili, man mano che effettuavano gli acquisti ed i profitti venivano utilizzati per intraprendere iniziative di carattere assistenziale, sociale, culturale e ricreativo, a favore sia dei soci che dei cittadini e per ampliare strutture ed attività delle cooperative stesse. Sovente le associazioni comprendevano anche strutture produttive quali forni, pastifici, macellerie e in alcuni casi vere e proprie fabbriche, che producevano i beni più svariati. E’ interessante notare che fin da subito le cooperative di consumo non ebbero una finalità esclusivamente economica, ma si proponessero di favorire una crescita morale e culturale dei soci.

La prima cooperativa di consumo fu quella inglese dei “Probi pionieri”, costituita a Rochdale, nel 1844, la quale aveva le caratteristiche  che abbiamo appena delineato.

In Italia le cooperative di consumo furono generalmente fondate dalle società di mutuo soccorso e furono simili a quella inglese. La prima cooperativa italiana fu il “Magazzino di Previdenza” della “Società Generale degli Operai” di Torino, che iniziò a funzionare il 4 Ottobre del 1854. Il Piemonte fu la prima regione in cui sorsero le cooperative di consumo, per iniziativa di persone moderate, vicine a Cavour, come Giuseppe Boitani, segretario del “Magazzino di Previdenza” di Torino.   Ben presto si diffusero in tutto il Settentrione, con maggiore velocità dopo l’unificazione della Penisola, conservando il loro carattere moderato, quantunque facessero parte di esse lavoratori di tutte le ideologie e ciò si spiega con l’interesse da parte degli operai e degli artigiani più radicali, che in quel periodo erano prevalentemente anarchici, a fare la rivoluzione, cercando di organizzare moti insurrezionali. Man mano che si diffondevano le organizzazioni politiche sia anarchiche che socialiste, molte cooperative, definite “rosse” furono considerate anche strumento per trasformare in senso collettivistico la società, per l’alto valore esemplare che avevano, essendo delle strutture  non capitalistiche nel seno della società borghese, mentre ne sorsero altre, definite “bianche” per opera dei lavoratori cattolici ed anche di ecclesiasti veri e propri, che cercarono di applicare concretamente i principi della solidarietà cristiana, a dire il vero in alcuni casi cercando di resistere alla logica dello sviluppo capitalistico, che però poi riuscì ad inquadrarle nelle istituzioni finanziarie e produttive borghesi.  Vi furono anche molte cooperative espressione dei ceti impiegatizi ed anche di militari, dando vita ad un panorama della cooperazione di consumo molto vario e composito..

Comunque le cooperative, al di là delle  loro impostazione ideologica, si trovarono a fronteggiare dei problemi economici e tecnici, che causarono il fallimento e la chiusura di molte di esse. Il primo fu la necessità di avere dirigenti preparati economicamente, perché solo con la buona volontà non si riescono a gestire delle vere e proprie aziende. Il secondo fu quello della necessità di ampliare il numero dei soci, per sostenere le spese e di federarsi a livello cittadino, provinciale e regionale, soprattutto per effettuare acquisti collettivi, istituendo almeno appositi consorzi, al fine di reggere la concorrenza della distribuzione borghese, asservita al profitto. L’eccessiva gelosia per la propria autonomia, le divergenze di impostazione, le rivalità resero spesso difficile la soluzione di quest’ultimo problema, che decretò la morte di molte strutture. Solo dopo la Seconda Guerra Mondiale fu definitivamente risolto.

Le cooperative di consumo ed anche quelle agricole riuscirono a diffondersi gradualmente in tutta Italia, anche se la loro penetrazione al Sud fu meno sviluppata. Al 31 dicembre del 1893 esistevano 393 cooperative di consumo in Piemonte, 195 in Lombardia, 169 in Toscana, 58 in Veneto, 42 in Liguria, 32 in Emilia, 29 in Sicilia, 24 in Calabria, 20 nelle Marche, 17 nelle Puglie, 14 nel Lazio,  11 in Campania, 2 in Sardegna, una negli Abruzzi ed una in Basilicata. (Fonte: Maic, Statistica delle società cooperative-Roma 1897).

Voglio ricordare un episodio, che non ebbe particolare rilevanza, dal punto di vista economico, nella storia delle cooperative, ma la ebbe indiscutibilmente da quello culturale. Mi riferisco all’impresa di Giovanni Rossi, detto Cardias, veterinario ed agronomo anarchico, che, dopo aver costituito, in collaborazione con Giuseppe Mori e con l’aiuto di Leonida Bissolati, personaggio importante nella storia della cooperazione, una cooperativa agricola in provincia di Cremona, a  Cittadella, nel comune di Stagno Lombardo, che si sciolse alcuni anni  più tardi, decise di fondare una grande colonia agricola in Brasile, utilizzando un vasto terreno, concessogli in uso da Pedro II, imperatore del Brasile, che aveva conosciuto in Italia, ove si era recato per motivi di salute. Giovanni Rossi creò, nel 1890, una vera e propria comune agricola, sull’altopiano del Paranà, vicino al centro di Palmeiras. Si chiamò “Colonia Cecilia”. L’esperienza sopravvisse per alcuni anni, arrivando a contare la presenza di 150 persone e raggiungendo alcuni successi concreti. Poi incappò nel classico episodio della fuga del cassiere con tutti i fondi collettivi, fatto che obbligò molti associati ad abbandonare la comune. Però sette famiglie ristrutturarono la colonia e ripresero la produzione. Ma dopo un certo periodo

 

anche questo secondo esperimento si indebolì e si dissolse senza drammi.  Alcuni coloni abbandonarono l’impresa, i rimasti riorganizzarono l’azienda agricola in forma cooperativa.” (Pier Carlo Masini, Storia degli anarchici italiani, Rizzoli Editore, Milano 1969, p. 257).

Siccome uno dei problemi, che mise in crisi la struttura, fu il conflitto all’interno di ciascuna famiglia e quello tra i differenti nuclei familiari, Giovanni Rossi si convinse che la famiglia monogamica fosse una colonna portante della società capitalistica e teorizzò l’amore libero e la gestione in comune dei figli. Sperimentò anche un rapporto di amore libero, di cui ci fornisce testimonianza  nel saggio-inchiesta Un episodio d’amore nella colonia “Cecilia”, documento interessantissimo, di vibrante umanità e straordinaria profondità. Ma anche la sua vicenda familiare fu funestata dalla morte dei suoi due figli  e la sua compagna “Ellada” impazzì  per il dispiacere, morendo poco dopo. Rossi continuò per alcuni anni a dirigere stazioni di agronomia in Brasile e nel 1907 rientrò in Italia, morendo a Pisa alla fine degli anni trenta.

Il Partito Operaio Italiano, composto da una maggioranza di socialisti e da una minoranza di anarchici, ostentò negli anni Ottanta “aperto scetticismo nei confronti della cooperazione”. (Zamagni, Battilani, Casali, op. cit.). In un primo tempo anche Filippo Turati espresse il timore che le cooperative  potessero distogliere i lavoratori dalla lotta di classe, timore e dubbio che il socialista Goffredo Jermini dimostrò infondati, ma ben presto riconobbe la loro funzione positiva, invece Andrea  Costa fu subito loro favorevole. Atteggiamento positivo nei loro confronti ebbe anche Fernando Lassalle, esponente storico della socialdemocrazia.

 

“Camillo Trampolini […] individuava invece nella cooperazione di consumo la via più pratica, spedita e positiva verso il socialismo. Secondo Prampolini infatti soltanto il campo del consumo poteva  permettere la ricomposizione degli interessi conflittuali dell’acquirente e del produttore, eliminando i contrasti fatali dell’oggi e indirizzando verso una società collettivista fondata sulla collaborazione più stretta fra le varie componenti socio-economiche. Scriveva nell’Agosto 1885 in una lettera ad Andrea Costa: ‘Una volta padroni del consumo, una volta cioè padroni di quell’immensa forza che è rappresentata  da cinque o sei negozi a cui si alimentano contemporaneamente  cinquantamila consumatori, sarà per noi una difficoltà ben piccola passare alla socializzazione di tutti gli altri servizi, di tutte le funzioni sociali nel comune, ed anche nella provincia di Reggio’. La socializzazione dei restanti settori dell’economia, secondo Prampolini,  sarebbe stata conseguita convogliando i profitti ottenuti dal commercio al dettaglio in imprese manifatturiere e altre iniziative industriali. Con la concentrazione di capitale così ottenuta, le aziende cooperative non avrebbero avuto difficoltà ad esautorare man mano il settore privato, instaurando una sorta di Comune collettivistico capace di assicurare lavoro a tutti e beni di consumo a basso prezzo” (Zamagni, Battilani, Casali, op. cit.).

 

Nasceva così la teorizzazione della cooperazione integrale, che da Reggio Emilia si diffondeva in Italia. Ma sempre a Reggio trovava uno dei suoi più grandi e convinti elaboratori, Antonio Vergnanini, che cercò nel 1907 di riunire tutte le cooperative della provincia di Reggio Emilia in un unico consorzio, stabilendo e diffondendo il concetto che

 

”la chiave  di volta dell’edificio sociale è il consumo” (Antonio Vergnanini, Cooperazione integrale. Relazione al VII congresso dell’Alleanza cooperativa internazionale. Cremona, 23-25 Settembre 1907).

 

“Il Consorzio avrebbe poi intrapreso la produzione di beni di consumo e di articoli industriali, eliminando ogni distinzione fra cooperative di consumo e di produzione. Facendo del Consorzio il fulcro del movimento, concludeva Vergnanini, […] e raggruppando attorno ad esso i laboratori di mestieri, gli uffici di ispezione, tecnici, amministrativi, gli istituti di credito, i magazzini, ecc., ecc. si arriverà a fondere meglio insieme, per un unico altissimo scopo, tutte le energie operaie. Le singole cooperative di produzione e lavoro diventeranno laboratori, e i loro appartenenti, salariati della grande cooperativa integrale a base di consumo.” (Antonio Vergnanini, Cooperazione integrale, citato in Zamagni, Battilani, Casali, op. cit.) .

“La conflittualità ingeneratasi fra mezzadri e piccoli proprietari, da un lato, e  braccianti ed operai avventizi dall’altro, si rivelò fatale per le sorti future del Consorzio[…]. Vergnanini aveva guardato alla cooperazione non come un mezzo per giungere ad un fine, ma come al fine medesimo, perché il socialismo per lui altro non era che una ‘generalizzazione della cooperazione’, una società dove la composizione dei conflitti sarebbe avvenuta all’insegna di un incolore evoluzionismo”  (Zamagni, Battilani, Casali, op. cit.).

 

Vergnanini ripartì alla carica nel 1912.

 

“Insediandosi nel Marzo 1912 ai vertici della Lega ed assumendo contemporaneamente la direzione del suo organo quindicinale, Antonio Vergnanini aveva inteso imprimere una profonda svolta a tutto il Movimento […] .Se la concezione marxista classica aveva da sempre identificato nella cooperazione operaia di produzione e lavoro l’unico strumento capace di mettere in discussione i meccanismi dell’accumulazione capitalistica e del profitto, l’eretico Vergnanini spostava invece decisamente l’accento nel campo del consumo. Richiamandosi a Bernstein e al revisionismo socialdemocratico tedesco, egli osservava che Marx aveva trascurato i rapporti tra produttori e consumatori e che i “beni prodotti da lavoro operaio non possono essere trasformati in valore e plusvalore che mediante la vendita”. (Vergnanini, Cooperazione e marxismo, in La Cooperazione italiana – 10 Agosto 1912).

Pertanto, se l’acquisto finale dei beni da parte del consumatore costituiva il mezzo con il quale  il capitale si appropriava dei profitti, ne conseguiva che “il primo compito spettante al proletariato consiste nell’occupare la condizione dell’intermediario” continuando in tal modo ad assicurare “il valore socialistico della  cooperazione”  (Zamagni, Battilani, Casali, op. cit.).

 

Il tentativo di cooperazione integrale del Vergnanini andò incontro ad un  fallimento, ma, secondo me, una parte delle sue argomentazioni e di quelle di Camillo Prampolini erano corrette. Ci torneremo più tardi, finita la sintesi storica.

La Prima Guerra Mondiale, il fascismo, che perseguitò e cercò di irreggimentare la cooperazione, la Seconda Guerra Mondiale non riuscirono a stroncare il movimento cooperativo, il quale nel dopoguerra ripartì vigoroso, diventando leader della moderna distribuzione, essendo in grado di competere alla pari con la distribuzione capitalistica, come avviene oggi. Nel 2003 la COOP ha fatturato 11.008 miliardi di euro, ha avuto 51.884 lavoratori occupati e 5.276.000 soci. I cooperatori nel mondo sono più di 800.000.000. Sono dati ufficiali tratti  da “La cooperazione di consumo in Italia”. La cooperazione agricola ha, in Italia, un fatturato di 34.000.000.000 di euro, dato ufficiale, 

trasmesso dalla televisione. Ha una tale potenza economica che sta cercando di rilevare la Cirio ed anche la Parmalat, le due multinazionali che hanno fatto bancarotta fraudolenta.

Contrariamente a quanto si potrebbe credere, il rapporto tra cooperative di consumo e di produzione non è mai stato organico. Il succitato testo informa che, nel passato, le cooperative di consumo arrivarono al massimo ad acquistare fino al 21% dei loro prodotti dalle  cooperative di produzione, mentre ora si limitano a comprarne solo circa il 10%, soprattutto a causa dei loro ritardi nelle consegne.

 

“Chi ha seguito fin qui la prodigiosa storia delle centinaia di migliaia di protagonisti del movimento della cooperazione di consumo non ha certo bisogno che gli si ricordi che le cooperative di consumo non sono catene distributive come le altre. Essenzialmente, la differenza sta tutta qui: le cooperative ricercano l’efficienza, ossia il profitto, come strumento e non come fine. I fini sono altri: convenienza, qualità e sicurezza dei prodotti; filiera produttiva etica; democrazia economica; solidarietà e relazioni umane; rispetto dell’ambiente. Detto in altro modo, si può sostenere che se quella che oggi è denotata con l’espressione di “responsabilità sociale dell’impresa” per le imprese capitalistiche rappresenta un “vincolo” alla accumulazione dei profitti e alla sua distribuzione agli azionisti, per l’impresa cooperativa ha sempre (e non solo oggi) rappresentato il fine proprio dell’attività. L’unica differenza fra oggi e il passato è data dal fatto che oggi molte delle azioni volte a realizzare la responsabilità sociale delle cooperative sono formalizzate in processi codificati e riproducibili, mentre una volta erano per lo più frutto di spontaneismo non sempre efficace, ma convinto e coinvolgente.”  ((Zamagni, Battilani, Casali, op. cit.).

 

Camillo Prampolini e Antonio Vergnanini avevano perfettamente ragione, a mio avviso, quando sostenevano che, già ai loro tempi, fosse possibile finanziare la cooperazione di produzione attraverso i proventi che si  potevano acquisire dalla cooperazione di consumo, a patto  ovviamente che le cooperative di consumo si federassero, avendo una cassa comune per gli acquisti e una politica nazionale di intervento sociale, analoghi metodi  di gestione con una supervisione centralizzata, nell’ambito però di una programmazione sempre nazionale, votata a maggioranza da tutti i soci delle singole associazioni federate. Ne è una dimostrazione lampante la notevole solidità economica , che le cooperative di consumo hanno raggiunto nel corso del tempo, accumulando notevoli profitti , che potrebbero essere investiti nella cooperazione di produzione. Ovviamente un simile risultato richiedeva un livello di consapevolezza, di coscienza, di tolleranza e di coesione molto difficili da raggiungere, tanto è vero che non si sono raggiunti ! Forse vi era un’impossibilità storica, allora, di avere i requisiti culturali e morali per tentare un’impresa del genere, ma dal punto di vista “tecnicamente  economico” il progetto era realizzabile. Naturalmente penso che si potesse creare un circuito economico etico, non che necessariamente si realizzasse il socialismo attraverso la cooperazione integrale. Questo mi pare molto più difficile, però avrebbe potuto essere uno strumento molto utile di propaganda, lotta politica, difesa dei salari e promozione dell’occupazione.  Diceva nel 1897 Goffredo Jermini, per  dissipare i dubbi di Filippo Turati sulle cooperative in generale, ma vale a  maggior ragione per la cooperazione integrale:

 

“se l’istituire delle cooperative ci desse il modo di dare ai nostri migliori quell’indipendenza che oggi non hanno;  ci desse il modo  di dare da mangiare ai perseguitati, ai boicottati, collocare gli espulsi dagli impieghi, solo perché sono socialisti, non pare all’on. Turati che le cooperative avrebbero già fatto molto, ma molto bene?” (Il miraggio delle cooperative, La Martinella,  Novembre 1897).

 

La cooperazione integrale avrebbe potuto aiutare a realizzare il socialismo. Ed è quello che fece nel 1917 in Ucraina, dove i contadini, organizzati nelle collettività agricole anarchiche, quei contadini che avevano fatto dell’Ucraina il “granaio d’Europa”, sei mesi coltivavano e sei mesi combattevano su tre fronti, contro i Tedeschi, contro l’armata rossa, che voleva imporre loro il potere bolscevico e contro l’esercito dei Russi Bianchi controrivoluzionari, guidati dal generale Denikin. Quest’ultimo   riuscì a sconfiggere la stessa armata rossa e stava per raggiungere Mosca, dove avrebbe posto fine alla rivoluzione, quando il suo esercito venne annientato dalla guerriglia dei contadini ucraini, guidati da Nestor  Machno, i quali salvarono il socialismo e poi, per ringraziamento, furono repressi da Lenin, come ci racconta Volin nel suo storico libro “La rivoluzione sconosciuta”.

Svolse un grande ruolo anche nel  1936 , durante la rivoluzione spagnola , quando fu proprio il rapporto tra le fabbriche autogestite, le collettività agricole e la società civile che permise di costruire forse il più bell’esempio di socialismo realizzato, puntualmente soffocato nel sangue. Si pensi che in Catalogna fu la gente comune ad esigere che venisse abolito il denaro! Chi volesse saperne di più legga “Insegnamenti della rivoluzione spagnola” di Vernon Richards (Edizioni V. Vallera,  Pistoia 1974).

Perché dunque la COOP non prova ad attuare la cooperazione integrale?

La  “cooperazione rossa”, legata  ai “Democratici di Sinistra” e alla C.G.I.L. da un vincolo che è non è certo più quello obsoleto della “cinghia di trasmissione”, bensì quello dell’omogeneità culturale e politica, costituisce un elemento fondamentale nella loro strategia riformistica per andare al Governo del Paese. Avrebbero eccome la forza di realizzare in concerto tra loro una cooperazione integrale, che costruisse un parziale circuito economico etico, ma si guardano bene dal farlo, soprattutto perché dovrebbero colpire gli interessi e forse la stessa esistenza, come categoria sociale, di molti commercianti ed imprenditori, obbligandoli di fatto a votare a destra e quindi vanificando tutta la loro strategia riformistica. E poi per loro la società va migliorata, con cautela, non trasformata radicalmente! E’ dichiarato implicitamente nell’enunciazione sopra riportata dei fini della COOP!

Cerchiamo ora di ipotizzare come potrebbe essere utilizzata la cooperazione integrale al fine contemporaneamente di difendere gli stipendi dei lavoratori, creare nuovi posti di lavoro e tentare di dare un contributo alla trasformazione radicale della società planetaria.

Dobbiamo considerare innanzi tutto che siamo in una società a capitalismo avanzato, ove il settore primario o dell’agricoltura tende a ridurre i suoi addetti al 5% dei lavoratori complessivi della nazione, il settore secondario o dell’industria al 25% e il settore terziario o dei servizi si avvia a comprendere, come già succede oggi negli Stati Uniti, il rimanente 70%. L’istruzione, la progettazione, la distribuzione, il consumo, l’industria del tempo libero, del turismo, la ristorazione, l’assistenza sociale, la sanità, gli istituti di credito, eccetera… conglobano la maggior parte del capitale e del denaro circolante e molte  delle funzioni del settore sono già svolte da cooperative vere o presunte, dico presunte riferendomi a quelle terribili cooperative padronali di pulizie o infermieristiche, che esercitano un duro sfruttamento nei confronti dei loro dipendenti. L’assegnazione di molti lavori e servizi viene assegnato alle cooperative, perché consentono di risparmiare rispetto all’assunzione diretta di lavoratori dipendenti.

Non si creda però che il terziario abbia una possibilità illimitata di assorbimento della manodopera eccedente espulsa dagli altri due settori, l’agricoltura e l’industria. Anche in questo settore la rivoluzione informatica riduce il bisogno di forza lavoro poi i computer non si ammalano, non  ingravidano, non si ribellano, non fanno scioperi, vengono prima poi sostituiti da quelli di più giovane generazione, ma non prendono la pensione e pertanto sono più convenienti dell’assunzione di lavoratori. La verità è che in tutti e tre i settori della produzione di beni e servizi vi è meno bisogno di forza lavoro.  Nella società capitalistica l’assunzione di lavoratori è finalizzata al profitto e attualmente si accumulano profitti maggiori licenziando parte degli assunti e sostituendoli con le macchine. La disoccupazione, che non deve esistere in una società comunista, dove è necessario lavorare non perché qualcuno acquisisca profitti, bensì per produrre i beni ed i servizi utili alla collettività e quindi è bene lavorare tutti perché ciascuno lavori meno e in modo più creativo e realizzante, avendo il dovere e il diritto di lavorare, costituisce invece per quella capitalistica un male cronico, che si aggraverà sempre di più.

Nel terziario è oggi possibile creare una federazione di cooperative di consumo, partendo dalla fusione dei molti gruppi d’acquisto, nati spontaneamente e in costane aumento in tutta Europa. I gruppi d’acquisto e i sistemi di scambio locale si moltiplicano, perché si è generalizzato un notevole carovita, che rende difficile la sopravvivenza a molti lavoratori e la rende ancora più ardua a tutti i disoccupati, sottoccupati, emarginati,  che vivono di assistenza familiare, privata o pubblica, nonché di espedienti o grazie a vere e proprie attività delinquenziali.  Naturalmente i gruppi devono continuare ad esistere per lo svolgimento  delle altre funzioni non riguardanti l’acquisto dei beni.

I beni passano attraverso le mani di molti intermediari prima di essere acquistati dai lavoratori, nella loro funzione di consumatori, assumendo un prezzo elevato, perché gravato dalla parte di guadagno degli intermediari stessi, ciascuno dei quali percepisce una quantità di denaro superiore a quella che generalmente riceve il lavoratore produttore del bene. E’ chiaro che in una società dove vi è sfruttamento nella produzione, per accumulare profitti, vi sia anche sfruttamento nella distribuzione dei beni, sia nei confronti del lavoratore autonomo che li ha  prodotti, al quale il distributore li paga a prezzo inferiore al dovuto, sia nei confronti del consumatore, che li compra ad un prezzo eccessivo. I prezzi dei beni salgono anche perché ad essi si aggiungono le imposte indirette dello stato, che costituiscono un’altra forma di ingiustizia, in quanto, essendo uguali per tutti i contribuenti, pesano maggiormente sul reddito dei più poveri e di sfruttamento, in quanto, a mio avviso, ha senso solo una tassazione diretta sul reddito, non un’imposizione fiscale sugli acquisti.  Ecco allora che per comprendere la drammatica situazione che vivono gli operai, gli impiegati comuni, i piccoli artigiani e lavoratori autonomi  bisogna ancora ampliare e ridefinire il concetto di sfruttamento. Essere sfruttati vuol dire subire una condizione lavorativa caratterizzata dal fatto che non si è pagati in modo adeguato perché altri, anche indirettamente, si appropriano di parte del risultato del nostro lavoro oppure essere derubati legalmente di propri beni o denari. Significa anche lavorare per un tempo eccessivo e in condizioni frustranti, ad esempio svolgendo un lavoro solo manuale.

Sfruttamento è una parola che tante persone oggi, compresi molti politici anche di sinistra, vorrebbero eliminare dal nostro lessico, definendolo uno sgradevole arcaismo. Come ben sappiamo la lingua è una realtà viva, quindi ogni anno alcuni vecchi termini, definiti arcaismi cadono in disuso e alcune nuove parole, chiamate neologismi entrano nell’uso corrente. Forse costoro non amano questa parola perché sanno di essere una casta di sfruttatori, preoccupata solo di difendere se stessa e i propri privilegi. Giova ricordare, a questo proposito, la giusta polemica che ha fatto Oliviero Diliberto, segretario dei Comunisti Italiani, quando ha sostenuto che egli con 5.000.000 delle vecchie lire vive benissimo, mantenendo in modo dignitoso anche la propria famiglia e che pertanto può devolvere per finalità sociali il rimanente del suo stipendio di parlamentare. Gli operai, gli impiegati comuni, i piccoli agricoltori, artigiani, lavoratori autonomi sono sfruttati direttamente o indirettamente dai benestanti, che non pagano adeguatamente il valore del loro lavoro, dagli intermediari dei prodotti che comprano, i quali sono di fatto mantenuti da loro, dallo stato che istituisce imposte indirette su tali prodotti, dalle banche e dalle finanziarie che lucrano sui loro depositi ed investimenti, dai giochi d’azzardo e lotterie gestiti ancora dallo stato, dalle imprese e, di nuovo, dallo stato, i quali scaricano su di loro i costi della pubblicità, anche attraverso l’imposizione del versamento del canone televisivo, da altri governi stranieri non imposto, quando l’utente è costretto a subire il martellamento pubblicitario. Una conferma dell’entità dello sfruttamento dei lavoratori italiani ci viene dalla pubblicazione della graduatoria dei dati relativi alla retribuzione lorda media  dei lavoratori dipendenti dei 30 Paesi aderenti all’Ocse, di fatto quelli più industrializzati, strumento che consente  un confronto neutrale, perché tiene conto del costo della vita e quindi classifica i salari a parità di potere d’acquisto. In questa classifica il nostro Paese è addirittura al 18° posto, con un reddito medio lordo di 19.918 euro, dietro a nazioni non certo ricchissime come la Corea del Sud e l’Irlanda. E’ quindi doveroso che si difendano mediante la socializzazione dei loro salari negli acquisti collettivi, per risparmiare e tramite l’autogestione dei loro consumi. Parlo di autogestione dei consumi perché è chiaro che i lavoratori hanno l’interesse, oltre che  di unire i loro stipendi per effettuare acquisti in blocco, di eliminare tutti gli intermediari, finanziando la costituzione di una federazione di cooperative di consumo. La storia della COOP dimostra inequivocabilmente che una cooperativa di consumo sopravvive se ha un certo numero di soci, un sufficiente capitale sociale, dirigenti e lavoratori tecnicamente preparati e se aderisce ad un consorzio per effettuare gli acquisti. Da ciò consegue che se manca anche solo una di queste condizioni la cooperativa non va istituita. Un fallimento, oltre a creare dei debiti, fa terra bruciata. Ed è per questo, a mio avviso, che i  gruppi d’acquisto dovrebbero avere un loro coordinamento, per decidere assieme quando sia il caso di costituire una cooperativa e comunque ciascuna di esse dovrebbe già alla nascita essere supportata da un’organizzazione nazionale, anche se magari solo informale. Sarebbe bene innanzi tutto che i gruppi d’acquisto ampliassero le loro funzioni, diventando dei “gruppi  d’autogestione”, che oltre a gestire il consumo cercassero di affrontare comunitariamente anche gli altri aspetti e problemi della vita, come la difesa di tutte le categorie di cittadini deboli, dell’ambiente, degli animali, l’impiego alternativo del tempo libero, la difesa della scuola pubblica, la lotta alla disoccupazione, all’emarginazione, alla solitudine, l’educazione al consumo responsabile e a uno stile di vita sobrio. Questo perché i cittadini che vogliono vivere in modo solidale devono avere un gruppo in cui scambiarsi le loro esperienze, stare assieme e collaborare alla trasformazione sociale. Noi, ad esempio, a Sanremo, Taggia e Perinaldo abbiamo creato un unico gruppo d’autogestione, che si sta coordinando con gli altri gruppi della provincia. Possiamo inoltre contare sull’appoggio dell’ARCI provinciale, che sta collaborando fattivamente al progetto. A livello internazionale beneficiamo della notevole collaborazione di Piero Ferrua, insigne letterato anarchico, già professore emerito di letteratura francese all’università di Portland, nell’Oregon, uno dei primi obiettori di coscienza in Italia, fondamentale punto di riferimento per tutto il movimento libertario mondiale.

Le cooperative di consumo, che nasceranno dalla fusione di numerosi gruppi d’autogestione, dovrebbero prevedere nel loro statuto, come già avviene in quelle della COOP, la possibilità di effettuare vari tipi di produzione. Non dovrebbero prevedere invece il lavoro dipendente, bensì avere solo soci lavoratori con una mansione a progetto, quel tipo di occupazione, il quale ha sostituito la collaborazione coordinata e continuativa e ciò sia per motivazioni morali e politiche, che per risparmiare sui costi di gestione, evitando il pagamento di una parte degli  oneri riflessi (i contributi). I bilanci e le principali operazioni economiche dovrebbero essere presenti su internet, in modo che qualsiasi cittadino li possa costantemente controllare.

I sindacati libertari e di base europei dovrebbero promuovere e sostenere, sia politicamente che finanziariamente, la costituzione dei  gruppi d’autogestione prima e delle cooperative di consumo poi. Le cooperative di consumo dovrebbero a loro volta, in collaborazione con i sindacati, finanziare la costituzione di cooperative di servizi e di produzione, per svolgere quelle attività, che non possono essere effettuate dai loro addetti. Si dovrebbe poi istituire un  rapporto  di collaborazione con le cooperative agricole disponibili ad attuarlo e nuove aziende agricole su base cooperativistica potrebbero essere fondate con i proventi delle cooperative di consumo.

Si creerebbe così il primo segmento circolare di un circuito di economia etica, quantunque nell’ambito di una economia capitalistica. Infatti le cooperative di servizi, sia quelle agricole, sia in prospettiva quelle di produzione, a loro volta potrebbero programmare la loro attività sulla base delle richieste di beni da parte di quelle di consumo.

La struttura amministrativa del circuito dovrebbe essere più agile e meno burocratica di quella delle COOP, le quali, a loro volta, hanno delle spese di gestione e di amministrazione inferiori a quelle della grande distribuzione. Ad esempio la francese Carrefour  ha delle spese generali (spese amministrative, contabilità, gestione sistema informativo, affitto degli uffici) che sono pari al 7% del suo fatturato, mentre quelle delle COOP  solo pari al 4%.                   

Questo progetto, per la sua realizzazione, richiede necessariamente l’intervento della finanza etica.

Ma qual è lo sviluppo attuale della finanza etica in Italia e nel mondo?

Proviamo a dare una risposta, citando alcuni passi tratti dal libro La finanza etica nei Sud del mondo, a cura di Marco Gallicani (ed. Missionaria Italiana, Bologna 2003), che riporta gli atti della 2° Giornata Nazionale della Finanza Etica e Solidale, tenutasi a Bologna, il 23 Novembre 2002.

Alessandro Messina, Presidente Associazione Finanza Etica.

 

“Perché siamo qui. Ci sono due ordini di ragioni: le ragioni storiche e le ragioni contingenti. Le prime nascono in un passato ormai lontano e portano alla luce le contraddizioni ed i limiti dell’economia capitalistica. Un secolo fa, nel 1902, Kropotkin pubblicò un libro intitolato “Il mutuo appoggio” per contrastare le teorie del darwinismo sociale, che in quell’epoca caratterizzavano ogni teoria economica, e contrapporre il principio di cooperazione a quello di competizione. Ormai da un secolo, quindi, si tenta di evidenziare i limiti concettuali di questo sistema economico e di proporre un’altra economia…….Tra le ragioni contingenti, che portano probabilmente anche a una crescente attenzione verso le esperienze alternative, c’è un’economia che in qualche modo ha perso senso. Un dato per capire: secondo la Banca d’Italia, nel nostro Paese il 10% della popolazione più ricca detiene il 47% della ricchezza nazionale. Ebbene, almeno da dieci anni ci scandalizziamo dinanzi al fatto che il 20% della popolazione mondiale detiene l’80% della ricchezza; ma 10% e 47% fa più o meno la stessa proporzione, se non di più. La cosa più eclatante….è che due anni fa questo dato era al 46%: in due anni il 10% della popolazione italiana più ricca si è impossessato dell’1% di ricchezza nazionale, passato dalle classi meno abbienti a quelle più abbienti. Questo dimostra che i Sud del mondo sono dappertutto, anche nel nostro Paese…..

A che punto siamo. Io credo che il mondo della finanza etica e del commercio equo e solidale stia costruendo un’alternativa. L’idea di alternativa è la variabile cruciale. Mette in discussione gli stili di vita, utilizza i normali gesti quotidiani per provare a sovvertire il modello, costruisce un circuito alternativo di mezzi di produzione e di servizi, di merci e di gestione del risparmio, per cui il piccolissimo potere del consumatore diventa un potere politico……La finanza etica è un piccolo – grande movimento che ormai ha quasi trent’anni di storia. Qui in Italia nasce con le MAG, si sviluppa a livello nazionale con la Banca Etica e continua a crescere con molte associazioni e botteghe del commercio equo che si avvicinano a questo mondo. Ha molte pratiche diverse , non esiste una sola finanza etica: esistono la finanza mutualistica, l’autogestione del risparmio, l’obiezione monetaria, la finanza solidale…….Oggi le MAG, cioè le mutue autogestione non sono sintetizzabili in un unico modello; rappresentano tanti modelli diversi e questa è certamente una ricchezza per tutto il movimento della finanza etica……..In conclusione, il nostro obiettivo dovrebbe essere quello  di lavorare per trasformare il livello locale in un livello comunitario come nei Sud del mondo, quindi anche nelle periferie delle grandi città, perché i Sud del mondo sono questi, oltre ai sud geografici.”

 

Francuccio Gesualdi…….

 

”Noi siamo fra quelli in Italia, che hanno puntato l’attenzione sulla responsabilità individuale e hanno detto: attenzione, il sistema non sta in piedi da solo, il sistema sta in piedi perché noi lo sosteniamo attraverso le nostre scelte quotidiane del consumo, del risparmio, del pagamento delle tasse- ma vorrei andare ancora più in là: del lavoro – e quindi dobbiamo interrogarci rispetto a queste scelte che facciamo quotidianamente.”

“Credo che ci sia un altro aspetto su cui dobbiamo insistere di più ed è la cooperazione. Io non so se debba essere il microcredito o qualche altra formula; non sono abbastanza competente da potere dare questo tipo di consigli, però so che, se noi vogliamo consentire a quanti oggi sono stati messi in una posizione di vita disumana di poter salire rapidamente la china, dobbiamo fornirgli un sostegno che sia gestito direttamente da loro.”

 

Don Luigi Ciotti.

 

“A Torino dalla sinergia realizzatasi  tra un’associazione di giovani molto simpatici (ACMOS) e il Gruppo Abele è nata l’idea di creare il primo centro d’accoglienza ( non mi piace chiamarlo comunità ) che aiuti i ragazzi a disintossicarsi dal consumismo.”

 

Don Alex Zanotelli.

 

 “ Pensate ai giochi che si fanno sulla pelle dei poveri che hanno già un debito di  2.500 miliardi di dollari…..gli impoveriti ci regalano ogni anno, soltanto come interessi su quel debito, 50 miliardi di dollari. Sapete cosa vuol dire 50 miliardi di dollari ogni anno? Sono i poveri che stanno finanziando noi!”

 

Il senso comunque della maggior parte degli interventi è quello che occorre costruire un’altra economia, collegando le esperienze esistenti, perché la frammentazione impedisce di ottenere risultati consistenti, vanificando una prospettiva storica di trasformazione della società.

Infatti io credo che  un altro soggetto dovrebbe prendere vita, perché un circuito virtuoso possa realizzarsi, dando vita dal basso ad un embrione di economia etica: una banca etica europea, che sia anch’essa una cooperativa e che abbia come principale finalità il finanziamento del progetto. Istituire una banca etica europea è difficile, perché occorrono notevoli finanziamenti, ma una volta costituita esistono accorgimenti tecnici, che possono, più facilmente di quanto non si creda, farla sopravvivere e funzionare, senza che sia sbranata come un agnellino in mezzo ai lupi! Si tratta di un discorso molto complesso, che non possiamo sviluppare in questa sede.

Tentare di raggiungere la collettivizzazione dei mezzi di produzione a partire dalla socializzazione dei salari  e dall’autogestione dei consumi, invece che far derivare dalla collettivizzazione dei mezzi di produzione la socializzazione dei salari e l’autogestione dei consumi, rappresenta una rivoluzione copernicana, che però ha un suo senso ben preciso.  Innanzi tutto è bene che i lavoratori socializzino ciò che direttamente é loro, perché quale significato ha parlare di comunismo quando non si socializzano prima di tutto i propri beni? Poi compirebbero un’azione diretta, dal basso, che coinvolgerebbe  tutta  la loro vita, perché la cooperazione integrale tenderebbe ad impostare tutti i loro atti e comportamenti al fine di realizzare la convivenza solidale con gli altri. E’un modo per essere protagonisti, costruendo gradualmente quella coscienza che è il principale e indispensabile  requisito del comunismo, la cui carenza ha fatto crollare il collettivismo burocratico dei Paesi dell’est.

Ora riassumo la mia concezione dell’evoluzione storica, ovviamente si tratta di una rielaborazione personale dei contributi dei principali studiosi dell’argomento morti e viventi, selezionando prevalentemente i teorici della sinistra, a me più affini, con l’aggiunta dei risultati della mia ricerca personale sulla tematica, che è continuata, seppure in modo non del tutto regolare, per tutta la mia vita. Naturalmente il fine che mi propongo è quello di spiegare come, a mio avviso, la pratica della cooperazione integrale potrebbe addirittura influire sull’indirizzo dello sviluppo storico.

La filosofia dalla quale partire per fondare la mia posizione, non può essere che la tradizionale “filosofia della storia” della sinistra, il materialismo storico.La definiamo filosofia e non metodo di indagine, anche se forse Marx non sarebbe d’accordo. Innanzi tutto facciamo nostre le critiche che Bakunin rivolgeva a tale concezione della storia, che nel complesso accettava, e precisamente la sottovalutazione della importanza degli elementi sovrastrutturali, soprattutto lo stato, la famiglia, la coscienza dominante e il temperamento di un popolo che noi ribattezziamo struttura caratteriale media, nella determinazione dello sviluppo storico del popolo stesso e anche del suo sviluppo economico. Bakunin accettava la primogenitura della struttura economica, ma non la sua priorità. Egli attaccava giustamente l’economicismo di Marx, ma non metteva in discussione l’inevitabilità della rivoluzione che, anche secondo lui, doveva avvenire a breve scadenza. Sia Marx che Bakunin erano influenzati dalla teoria meccanicista del positivismo di Comte e Darwin. Il timore di Bakunin era invece che la realizzazione della dittatura del proletariato , mediante la costituzione dello stato proletario durante la rivoluzione, che secondo lui implicava la dittatura su borghesi e proletari in nome del proletariato da parte degli “ingegneri del partito comunista”, creasse una casta di burocrati che non solo non avrebbero accettato di abbandonare il potere, quando fossero state abolite completamente le classi economiche “perché gli uomini sono deboli” e non rinunciano a comandare quando sono abituati a farlo, ma addirittura avrebbero potuto decidere di ritornare in possesso di privilegi economici. Lo stato, sempre secondo Bakunin, che è una sovrastruttura la quale deriva da una struttura disegualitaria , avrebbe teso a ricreare la disuguaglianza, ossia una struttura economica simile a quella che l’aveva precedentemente generato.

Quindi proponeva la costituzione di una federazione autogestionaria in alternativa allo stato proletario.

La nostra critica del materialismo storico è più radicale, tanto da farci ritenere che la nostra piuttosto che adesione ad una concezione riveduta di tale filosofia della storia, sia invece la sua riduzione ad alcune affermazioni generali di natura filosofica, che pur derivando da essa non costituiscono più una vera filosofia della storia.

Riassumiamo ora, in parte citando testualmente, in parte parafrasando  le parole di Marx, per semplificare, il nucleo essenziale del materialismo storico.

 

“Nel corso del loro sviluppo storico gli uomini entrano in rapporti di produzione determinati, necessari, indipendenti dalla loro volontà, rapporti di produzione che corrispondono ad un determinato grado  di sviluppo delle loro forze produttive materiali. Questi rapporti costituiscono una struttura economica, sulla quale si eleva una sovrastruttura giuridica e politica, cui corrispondono forme determinate della coscienza sociale. Ad un certo punto tali rapporti di produzione entrano in conflitto con lo sviluppo delle forze produttive, per le quali costituiscono, prima o poi, delle catene e inizia un’epoca di rivoluzione sociale. Di conseguenza crollano i rapporti di produzione, crolla la gigantesca sovrastruttura, nascono nuovi rapporti di produzione e una nuova sovrastruttura.” (Karl Marx – Prefazione del 1859 a Per la critica dell’economia politica).

 

Secondo me allo schema marxiano - “sviluppo delle forze produttive, loro conflitto con i rapporti di produzione o struttura della società, crollo della struttura e poi della gigantesca sovrastruttura, nascita di nuovi rapporti di produzione corrispondenti al grado di sviluppo raggiunto dalle forze produttive e quindi nascita anche di una nuova sovrastruttura” - bisogna sostituire una concezione secondo la quale tutti gli eventi e elementi, di qualunque natura siano, innovazioni tecniche, scoperte scientifiche, fatti economici, politici, militari, fenomeni culturali, psicologici, strutture familiari, sistemi ideologici ecc… concorrano insieme allo sviluppo storico complessivo, determinando rapporti causali e correlazioni di numero incommensurabili.

Ad esempio il M.I.T. per costruire un modello del mondo che potesse riprodurre lo sviluppo di cento fattori quantificabili (fatti ed elementi come il numero della popolazione mondiale, il prodotto interno lordo, il numero delle infrastrutture, la quantità delle materie prime esistenti, dell’inquinamento ecc.), escludendo tutti gli elementi culturali, psicologici ecc… che hanno una incidenza qualitativa nella realtà, ha elaborato un sistema di “retroazione ad anelli” che prevede milioni di interazioni circolari tra i diversi fattori, il cui risultato complessivo può essere valutato solo da computers molto sofisticati. Questo solo per gli elementi quantificabili, che vanno poi  posti in relazione con tutti gli elementi qualitativi, determinando nell’insieme miliardi di miliardi  di interazioni effettive. Lo storico, attraverso la sua attività di concettualizzazione deve, selezionando tutti gli elementi che conosce, un numero irrisorio rispetto a quelli reali, costruire delle correlazioni causali, ricorrendo anche alla valutazione informatica dei cosiddetti “fatti seriali”, ossia quegli eventi quantificabili che possono essere posti in una sere che si ripete  e che quindi sono misurabili e calcolabili con l’elaboratore.

Un esempio concreto di “storia concettualizzante” ci è fornito dagli attuali storici francesi che collaboravano alle “Annales”, tra cui ricordiamo Jacques Le Goff, Paul Veyne, Georges Duby. Citiamo alcuni passi tratti da una raccolta dei loro scritti più significativi (Fare storia,  edizioni Einaudi). Le Goff:

 

“La nuova storia, che rifiuta più decisamente che mai la filosofia della storia, e non si riconosce né in Vico, né in Hegel, né in Croce, né tantomeno in Tombee, non si accontenta più, d’altra parte, delle illusioni della storia positivistica e, di là della critica decisiva del fatto o dell’avvenimento storico, si volge verso una tendenza concettualizzante che rischia di trascinarla verso qualcosa d’altro da ciò che è, si tratti delle finalità marxiste, delle astrazioni weberiane o delle atemporalità strutturalistiche […]. La più globale e la più coerente delle visioni sintetiche della storia –nel duplice significato del termine- il marxismo, subisce l’assalto delle nuove scienze umane La storia sociale si prolunga nella storia delle rappresentazioni sociali, delle ideologie, della mentalità. Essa vi scopre un gioco complesso di interazioni e di sfasature che rende impossibile il ricorso semplicistico alle nozioni di infrastruttura e di sovrastruttura.”.

 

Veyne:

 

“La storia non si riduce alle varie scienze se non in piccola parte. D’altro lato non esiste neppure una scienza della storia, una chiave del divenire, un motore della storia. Attribuire il ruolo di motore ai dati materiali o all’economia, significa giocare su un equivoco: ciò che causa la servitù è il mulino ad acqua o è invece il fatto di utilizzare questo mulino? L’economia è l’aspetto economico di certi comportamenti o coincide con questi stessi comportamenti, che comportano altri aspetti, giuridici, mentali, ecc.? Come oggetto “materiale”(nel senso di corporeo) il mulino non fa altro che pesare sul terreno su cui poggia. Se motore della storia è il fatto di utilizzarlo, anziché trascurare questa invenzione tecnica per spirito abitudinario, allora il preteso primo motore è solo un avvenimento fra gli altri. La diffusione del mulino, che, come ogni avvenimento, deve essere a sua volta spiegata, diventa a sua volta causa materiale delle cause efficienti che l’hanno portata a esistere […]. Se c’è una filosofia dialettica (nel senso che si dà oggi a questa parola) è proprio l’aristotelismo. Per quanto sottile possa essere l’interpretazione che si sceglie di accreditare al marxismo, essa urta sempre contro la stessa difficoltà: “un primo motore non può comportare potenza “; se rientra nell’ordine del possibile prima di esistere, se è un avvenimento, è esso stesso materia di altre cause, e dunque non è primo.”…”Il motore della storia ciascuno lo può trovare dove vuole!”

 

La distinzione struttura-sovrastruttura, anche secondo lo scrivente è da superare. Ho svolto trent’anni fa , proprio su questo argomento la tesi di laurea in filosofia e già allora avevo questa posizione, perché nel termine “sovrastruttura” sono comprese tutte le istituzioni, ciascuna delle quali è interconnessa alle altre con cui interagisce, ma poi essa svolge pure una funzione autonoma e la sua evoluzione può essere fondamentale per lo sviluppo storico complessivo, inoltre sono incluse nella stessa le coscienze di tutti gli individui di una società, le quali legandosi tra loro in un numero enorme di insiemi danno vita ad una immensa moltitudine di visioni particolari della realtà e di interessi contrastanti, che a loro volta determinano le innumerevoli ideologie tra cui quella dominante. Tutte queste ideologie si scontrano e si incontrano, condizionandosi a vicenda ed essendo ciascuna interagente con le singole strutture caratteriali dei vari individui che le condividono, le quali a loro volta hanno degli elementi in comune e dei tratti peculiari unici ed irripetibili.

Le istituzioni, lo stato e le strutture che ne fanno parte, la famiglia, la scuola, i servizi sociali, gli enti culturali e ricreativi, insieme con le singole strutture caratteriali, coscienze e relative ideologie delle persone, interagiscono con i rapporti di produzione, non solo influenzandosi reciprocamente, ma anche determinandosi a vicenda. Però a questo punto sorge spontanea una domanda. Ma cos’è la struttura oppure cosa sono i rapporti di produzione? – visto che Marx usa le due espressioni scambievolmente come sinonimi.

Se per rapporti di produzione si intende la relazione astratta tra gli uomini senza comprenderli, i rapporti di produzione sono una entità autonoma appunto astratta, se si intende invece tutto l’apparato produttivo concreto, uomini compresi, allora il modo di sentire e il modo di pensare degli individui costituiscono parte integrante di tali rapporti. Bisogna poi aggiungere che le varie istituzioni hanno sempre svolto un ruolo anche economico e che ciò è tanto più evidente nella società attuale ove la produzione materiale vera e propria è ridotta ad essere la componente più piccola dell’intero processo produttivo.

Pertanto la divisione tra struttura e sovrastruttura genera degli equivoci ed ostacola una visione dei fatti e degli elementi storici che cerchi di tenere conto di tutte le relazioni che umanamente si possono individuare.

Ricordiamo che contro questa divisione si sono schierati vari ricercatori, quali ad esempio l’etnologo Levi-strauss , esponente dello strutturalismo, il quale sostiene, criticando le tesi di Marx, che in ogni società vi sia una correlazione funzionale tra la tecnica e gli aspetti culturali oppure il filosofo Adorno, il principale esponente della Scuola di Francoforte, secondo il quale tale divisione debba essere superata. Lo afferma nella sua grande opera “Dialettica negativa” (Edizioni Einaudi).

Il superamento di questa distinzione, sottolineando la stretta interdipendenza che esiste tra l’organizzazione economica della società, le varie istituzioni, le strutture caratteriali e le ideologie presenti in essa, permette di capire meglio anche il rapporto che esiste tra sviluppo delle forze produttive o, per usare un linguaggio più moderno, tra evoluzione della tecnologia e rapporti di produzione.

Marx sosteneva che la contraddizione fondamentale dello sviluppo storico è quella tra lo sviluppo delle forze produttive ed i rapporti di produzione, contraddizione che è inevitabile, quando tali rapporti diventano come catene allo sviluppo delle forze produttive stesse e che determina l’abbattimento della struttura e poi della sovrastruttura.

Secondo me invece sono proprio coscienze ed ideologie, strutture caratteriali ed istituzioni che fanno si che ad un nuovo grado di sviluppo della tecnica corrisponda un tipo di organizzazione economica piuttosto che un altro. Facciamo un esempio. Durante la rivoluzione industriale inglese, che ha costituito con l’invenzione delle macchine un notevole sviluppo delle forze produttive e della tecnica, le istituzione ed il modo di pensare e di sentire delle persone hanno fatto si che al mercantilismo si sostituisse il capitalismo, invece che, ad esempio, una società comunista, che usasse le nuove tecniche per il bene di tutti.

La promulgazione di centinaia di leggi che obbligassero i contadini a lavorare nelle fabbriche ed a vivere in città (Karl Polanyi, La grande trasformazione,  edizioni Einaudi) dimostra inequivocabilmente che ci fosse la precisa volontà, da parte delle classi al potere, di realizzare una società basata sullo sfruttamento.

Se vi è stata una contraddizione fondamentale nell’ultimo millennio, è stata quella tra la relativa rapidità del progresso scientifico e tecnico e la maggior lentezza del progresso morale.

Un altro aspetto da condannare del materialismo storico è il suo economicismo. Marx nell’opera L’ideologia tedesca aveva già affermato che solo quando le forze produttive avrebbero sviluppato tutte le loro potenzialità, creando la ricchezza, si sarebbe diffusa una coscienza rivoluzionaria, in quanto con la scarsità

 

“si sarebbe scatenata la lotta per il necessario, ricreando tutta la vecchia merda”, quindi vanificando la possibilità di creare il comunismo, “perché a guardare bene le cose l’umanità si pone solo quei problemi, di cui siano presenti le condizioni materiali per la loro soluzione.”

 

La coscienza diventa quindi una variabile dipendente dello sviluppo economico.

Secondo noi esiste una relazione tra la coscienza e lo sviluppo complessivo della società, quindi anche con i mutamenti economici, ma non esiste una consequenzialità diretta tra lo sviluppo delle forze produttive (e poi chi stabilisce quando tale sviluppo ha raggiunto il massimo livello?) e la diffusione di una ideologia rivoluzionaria, che porti al comunismo, né d’altronde è necessario il massimo sviluppo della produzione, perché si attui il socialismo tant’è vero che le rivoluzioni comuniste finora sono avvenute solo in Paesi con un’economia arretrata. Lo stesso Marx si è mostrato, raggiunta la vecchiaia, più prudente o forse più esplicativo – nel senso che, potendo essere meno schematico, non avendo l’urgenza della propaganda politica, ha espresso più compiutamente il suo pensiero – scrivendo nelle lettere a Zapiski ed a Vera Zasulic che la sua analisi era da applicare solo allo sviluppo del capitalismo occidentale e che altre società potrebbero avere una evoluzione completamente differente. Nella missiva a Zapiski giunse addirittura a scrivere:

 

“eventi di una analogia sorprendente, ma verificatisi in ambienti storici affatto diversi, produssero risultati del tutto differenti. La chiave di questi fenomeni sarà facilmente trovata studiandoli separatamente uno per uno e poi mettendoli a confronto; non ci si arriverà mai con il passe-partout di una filosofia della storia, la cui virtù suprema è di essere soprastorica.”.

 

La nostra concezione non prende posizione a favore di una visione deterministica o indeterministica della storia, né si pronuncia riguardo alle questioni, strettamente connesse, di credere nel libero arbitrio o nel determinismo psichico oppure riguardo a quella di propendere verso una visione deterministica o indeterministica del mondo fisico. Stabilire se la storia o anche solo la società capitalistica avrà inevitabilmente un’unica linea di sviluppo o siano possibili più percorsi è un problema metafisico e noi siamo d’accordo con Kant, perlomeno all’attuale livello della conoscenza umana, quando affermava che con la ragione non si costruisce la metafisica.

Non siamo invece d’accordo con Popper, quando sentenzia, nel suo libro Miseria dello storicismo, scritto, come abbiamo già detto in risposta all’opera di Marx del 1847 Miseria della filosofia che a sua volta criticava ed irrideva irrispettosamente il testo di Proudhon del 1846 Sistema delle contraddizioni economiche o filosofia della miseria, che gli storicisti come Marx – per  storicisti intende tutti coloro che credono che la storia segua una evoluzione già prestabilita ed individuabile, perché determinata da leggi precise che l’uomo può conoscere – sbaglino, dato che il futuro è imprevedibile, in quanto dipende principalmente dalle scoperte scientifiche future, che non possono essere previste oggi, dato che se potessero essere prevedibili, apparterrebbero al presente e non al futuro.

Innanzi tutto dobbiamo obiettare che Marx era  storicista riguardo all’evoluzione del capitalismo occidentale, mentre è discutibile che lo fosse in generale. Fatta questa precisazione dichiariamo subito che ovviamente non possiamo sapere quale sarà lo sviluppo storico futuro, ma che la concezione di Popper ci sembra riduttiva, perché considera l’evoluzione della storia come conseguenza soprattutto del progresso della ricerca scientifica e non dello sviluppo complessivo della società. La grandezza di Hegel è consistita – come ci ricorda Lukàcs in Storia e coscienza di classe- nell’avere rielaborato la logica dialettica e nell’avere inventato la categoria della totalità, che pone in relazione tutte le componenti della società, le quali sono collegate da un nesso logico.

L’intelligenza di Proudhon, Marx e Bakunin è stata quella di valorizzare questa sua idea, che resta valida dopo il capovolgimento della dialettica hegeliana effettuato da Feuerbach, filosofo per il quale è dalla realtà materiale che deriva la coscienza e non viceversa dalla coscienza che deriva il mondo concreto, come pensava Hegel.

In che cosa consiste questo nesso che lega i diversi ambiti dell’agire umano? L’abbiamo visto! Le sensibilità e i caratteri, gli inconsci personali, le culture e le ideologie degli uomini reali, nel loro intersecarsi, frutto di tutto il passato, legano produzione ed istituzioni, attività produttive e stato, leggi, famiglia, servizi sociali, scuola, modo di impiego del tempo libero, come ugualmente le istituzioni legano caratteri e coscienze al modo di produzione o le attività economiche legano caratteri e coscienze alle istituzioni. La vita umana, con tutti i suoi aspetti e le sue attività materiali e spirituali, concrete ed astratte, tutti i suoi prodotti materiali e le sue relazioni interpersonali, crea il nesso che unisce i diversi settori della realtà sociale. E la vita umana ha le sue esigenze, che non possono essere compresse stabilmente entro strutture produttive, istituzionali ed ideologiche che non le soddisfino adeguatamente. Il dolore che provoca l’estraneazione, l’essere altro da sé, è uno dei reali motori della storia. Ma non conta solo la sofferenza che si prova perché non si sentono soddisfatte le nostre esigenze più profonde, più vere, ma anche quella che si prova immedesimandosi nel dolore altrui. I nostri sensi portano dentro di noi la realtà esterna  e quindi anche l’universo degli altri esseri viventi. Se siamo attenti non possiamo fare a meno di capire e di riprovare dentro di noi quello che sentono, anche se non lo vogliamo. Non a caso Budda disse che la realtà più importante per l’uomo è l’attenzione!  Senza l’attenzione non si può vivere umanamente! Con l’attenzione infatti il mondo degli altri esseri senzienti è dialetticamente, in modo simultaneo, fuori e dentro di noi. E l’attenzione dissolve qualunquismo e superficialità!

Le uniche società che non si sono evolute sono quelle ancora oggi allo stadio preistorico, le quali, essendo di limitate dimensioni ed isolate, sono potute arrivare immutate fino ai nostri giorni, perché soddisfacevano le esigenze fondamentali dei loro membri, però ormai sono in procinto di essere distrutte, dato che il contatto con il capitalismo è mortale.

Il cambiamento pertanto nasce in primo luogo dalla sofferenza. La sofferenza provoca delle vibrazioni che partono dall’uomo propagandosi, mediante una costante retroazione circolare alle sue strutture economiche, istituzionali, caratteriali, ideologiche. Modifica la tecnica, i rapporti di produzioni, le istituzioni, smantella strutture caratteriali nevrotiche, nate come difesa nei confronti di un sistema violento, che però alimentano ed il capitalismo è come l’odio, avvelena chi lo nutre! Incrina fino ad abbattere sistemi ideologici, sprigionando spazi di consapevolezza. I popoli sono riusciti in certi momenti, grazie ai loro profeti, a capire che tutti hanno diritto di esistere, che tutti potrebbero lavorare senza essere sfruttati. Un primo tentativo di realizzare il socialismo è andato male! Ma si può sempre riprovare! Il capitalismo è eroso tutti i giorni dal dolore.

Tutti i giorni il capitalismo, con i mass-media crea le sue immagini, i suoi valori luccicanti, deforma personalità per imprigionarle nelle sue reti, ma una parte dell’umanità resiste coscientemente, tutti, spronati dal dolore, resistono in qualche misura inconsciamente. La ricerca culturale procede incessante ed anche la riflessione personale di ciascun individuo. Miliardi di esperienze e culture singole si influenzano reciprocamente e molte di esse sfuggono alle maglie dell’ideologia. La luce della coscienza critica illumina tali maglie e anche le modalità della loro fabbricazione.

Una società di liberi ed eguali, aperta al divenire, può derivare, come giustamente diceva Debord, solo dallo sviluppo e dalla diffusione della coscienza critica. Il materialismo storico, rielaborando criticamente dialettica e categoria della totalità hegeliane, ha colto caratteristiche oggettive della società umana e del suo evolversi, del suo divenire, nell’ambito del quale si evolve anche il modo di pensare e di sentire dei singoli uomini, insieme con i prodotti materiali e concettuali creati dalla loro esistenza. Si spiega pertanto l’esistenza di miti e di strutture caratteriali malate, anzi si dimostra l’inevitabilità della loro presenza in quanto colonne del sistema. Ma si spiega anche la conseguente lotta per liberarsi da essi, come quella per liberarsi dall’oppressione familiare o da un impiego del tempo libero privo di profonda comunicazione e autentici rapporti umani oppure la battaglia contro lo sfruttamento. L’esito del nostro impegno politico dipenderà, secondo me, dal fatto di riuscire o no ad elaborare ed applicare una strategia che sappia dare una risposta complessiva alla vasta gamma delle esigenze umane, soprattutto a quelle psicologiche e comportamentali, che sono state gravemente trascurate dalla sinistra a causa dell’economicismo marxista, basato sulla presunta priorità della struttura.

Bisogna assolutamente capire che se oggi chiediamo alla gente di lottare solo per obiettivi economici, ecologici e normativi, non provvedendo nel contempo a creare situazioni e  momenti nell’ambito politico che favoriscano il più ampio interscambio umano ed una reale liberazione emotiva, ottenuta con tecniche appropriate, coerentemente con la formula che “il personale è politico”, riproporremmo la militanza politica come sacrificio e quindi finiremmo per ritrovarci in pochi eletti, forse vanitosamente orgogliosi del nostro valore morale, ma sicuramente sconfitti, perché incapaci di comprendere le reali esigenze della stragrande maggioranza delle persone, che forse ci delegheranno ad affrontare i loro problemi, ma non parteciperanno con noi alla loro soluzione.

Tutta questa complessa argomentazione dimostra che non solo è lecito, ma anche senz’altro doveroso, per rispondere a Popper, individuare delle tendenze nell’evoluzione storica, che poi non sappiamo se siano destinate a realizzarsi o a non realizzarsi, oppure possano sia realizzarsi che non realizzarsi, a seconda di una eventuale libertà di comportamento degli esseri umani, che comunque propendano alla trasformazione positiva della società e che noi dobbiamo impegnarci a rafforzare.

Ugualmente errata ci sembra la critica che Popper rivolge all’impostazione politica di coloro che definisce “olisti”, ossia tutti quelli i quali ritengono giusto cercare di effettuare un cambiamento globale della società, prevalentemente in modo rivoluzionario, cui contrappone, il metodo riformistico del “meccanico a spizzico”, cioè il metodo che consiste nell’attuare delle riforme di limitate dimensioni, valutando poi gli effetti indesiderati non previsti, onde poterli eliminare.

Innanzi tutto vogliamo ricordare che storicamente le concezioni socialiste, ma pure molte idee dei partiti centristi, derivano da utopie filosofiche e religiose. Il comunismo dalle idee di Platone, esposte nell’opera  La Repubblica, ma poi riprese dai Catari, dai Francescani seguaci di Fra Dolcino, dai tre grandi Tommasi, Thomas Moore con il suo romanzo “Utopia “che ha dato il  nome all’insieme dei progetti di coloro che prospettano una società ideale, Thomas Munzer, fondatore degli Anabattisti, Tommaso Campanella che ha scritto La città del sole. L’anarchismo dalle idee del filosofo materialista Democrito, ideatore della concezione atomistica. (Max Nettlau, Breve storia dell’anarchismo.)

Diciamo questo per mettere in evidenza come l’umanità abbia sempre cercato di elaborare progetti sociali complessivi che fossero alternativi, anche perché i grandi pensatori hanno generalmente compreso, perlomeno intuitivamente, che dietro ogni forma di organizzazione sociale vi è una cultura unificante e che pertanto un cambiamento reale presupponesse una rifondazione globale della società stessa. Ciò è tanto più vero oggi che urge un cambiamento radicale. Sappiamo benissimo che tale cambiamento implichi effetti negativi non previsti, ma questo è un prezzo da pagare! Non siamo invece convinti che la globalità del progetto debba necessariamente provocare effetti imprevisti di tale entità da vanificare o stravolgere il progetto originario. Anzi probabilmente riforme parziali possono facilmente realizzare una società ibrida che perda la sua coerenza interna, andando incontro ad un disastro. Pensiamo, ad esempio, a quelle leggi, promulgate in buona fede per affrontare un problema sociale, ma che vengono approvate ricorrendo a troppi compromessi che le snaturano, le quali finiscono per produrre effetti opposti a quelli sperati, aggravando ulteriormente il male che avrebbero dovuto combattere.  Citiamo come esempio in Italia la legge sull’equo canone delle abitazioni.

Del resto la storia ci dimostra che sovente esplodono grandi rivoluzioni improvvisamente, di solito maturate dopo un lungo processo di trasformazione, il cui esito avviene però in un momento puntuale. Come il frutto  che dopo una lunga maturazione cade all’improvviso dall’albero.

Nella storia si alternano periodi di lenta evoluzione e periodi di vorticoso e radicale cambiamento.

Ricordiamo, per esempio, il repentino crollo dei Paesi dell’est tra il 1989 e il 1991 o, due secoli prima, la rapida propagazione della rivoluzione francese, che giunse totalmente inaspettata, contrariamente a quanto affermano le facili analisi a posteriori.

Il pericolo del fallimento, secondo me, non è insito nella globalità del progetto di cambiamento, che poi è sempre un elemento schematico che serve come punto di riferimento, invece può derivare da una mancata diffusione della sua consapevolezza nella popolazione o almeno nella minoranza consistente di essa, in cui si confida per attuare il processo di trasformazione. Perciò il processo di preparazione deve essere molto complesso ed articolato! Proprio per questo non respingo, anzi ritengo indispensabile, il lavoro di massa per realizzare delle riforme, le quali però debbano rientrare in un piano complessivo di cambiamento. Siamo contro il riformismo, non contro le riforme!

Lottare a fianco della gente per raggiungere obiettivi che soddisfino meglio che si possa le sue esigenze non solo è giusto, ma è anche l’unico modo per guadagnare credibilità! Ci si distingue dalla massa dei politicanti proprio dimostrando serietà nel perseguimento disinteressato di tali obiettivi, inducendo le persone insieme con le quali si lotta a pensare che, se abbiamo ottenuto validi risultati in un determinato settore sociale, probabilmente anche la nostra strategia politica complessiva sia attendibile e degna di essere presa in considerazione. Per milioni di persone impreparate fare una scelta politica è anche, perlomeno in una fase iniziale, firmare una cambiale in bianco, confidando, come fanno gli animali, nel proprio fiuto. Riscossa la fiducia, deve poi essere giocoforza spiegare la matrice sociale della maggior parte dei problemi e la loro insolubilità all’interno del contesto capitalistico, fermo restando che tutte le mete che si possono umanamente raggiungere in tale contesto saranno perseguite con strenuo impegno. Naturalmente, come abbiamo gia detto, occorre privilegiare quegli obiettivi che possano preconizzare e prefigurare aspetti della società che intendiamo costruire. Ribadiamo, ad esempio, l’importanza di creare e rendere istituzionali mansioni lavorative che integrino lavoro manuale ed intellettuale. Oppure sottolineamo la necessità di fare promulgare una legge che garantisca il minimo indispensabile per vivere a tutti i cittadini!   Il gradualismo non solo non è incompatibile con una strategia rivoluzionaria, bensì è un indispensabile complemento di essa!

Chiudiamola nostra dissertazione  rispondendo al defunto Karl Popper, pur confermando il pieno rispetto per la sua memoria e l’ammirazione per la sua genialità, che la drammatica situazione degli abitanti del Terzo Mondo ci impone di cercare di attuare  vasti cambiamenti e non limitate riforme.

Ovviamente qualcuno ci potrebbe replicare giustamente che non si stanno facendo neanche le seconde!

Ho fatto tutto questo lungo discorso per spiegare che un processo di cambiamento deve essere graduale e che deve coinvolgere tutti i settori e gli aspetti della società  e della vita, se vuole andare  a buon fine. Preferisco dire così piuttosto che usare l’espressione “essere vincente”, la quale nasce da un insopportabile spirito competitivo, che, per ricordare una famosa espressione dell’Iliade,  “tanti lutti adduce non agli Achei, in questo caso,  bensì agli Italiani!”

Ma veniamo al ruolo che può giocare in questo processo di cambiamento la cooperazione integrale.

Dobbiamo innanzi tutto introdurre una citazione dal libro Le imprese alternative – Principi e organizzazione delle economie solidali, Editrice Missionaria Italiana, scritto dal sociologo, filosofo ed economista cileno Luis Razeto Migliaro, che da trent’anni studia le imprese economiche solidali.

 

“Esiste una concezione erronea, molto diffusa e profondamente radicata in particolare tra coloro che aspirano ai cambiamenti sociali e lottano per raggiungerli, che rallenta la scoperta dell’alternativo nonché il suo potenziamento e sviluppo a partire da ciò che è esistente. E’ la concezione di “sistema”, inteso come l’integrazione funzionale della realtà in un tutto che determina essenzialmente i suoi elementi costitutivi. Si parla così del sistema capitalistico, e lo si concepisce come una realtà omogenea e coerente che contraddistingue con il suo stampo tutti gli elementi che partecipano ai suoi processi di produzione e di distribuzione. Il risultato è che le diverse forme di impresa, per quanto siano diverse dalle imprese capitalistiche (come, per esempio, le imprese statali e cooperative), vengono tuttavia considerate forme capitalistiche per il fatto di funzionare “all’interno del sistema”.

Il risultato  di questo modo di intendere la realtà sociale è che le forme economiche alternative, nonostante siano presenti e operanti nella realtà, diventano invisibili; si vede , infatti, e si scopre capitalismo dappertutto, mentre scompare dalla percezione il carattere alternativo di alcuni tipi di comportamento e di organizzazione economica. Il bosco non lascia distinguere i singoli alberi: nella convinzione che si tratti di un bosco di pini, non si nota che coesistono con essi altre specie diverse di alberi e di esseri viventi.”

 

Luis Razeto , nel corso dell’opera, prende poi in esame le organizzazioni ed imprese economiche alternative e fra esse contempla l’azienda familiare, l’economia contadine e di comunità, le organizzazioni economiche popolari e i laboratori solidali di autosussistenza, le cooperative ed il cooperativismo, le imprese autogestite.

L’autore dimostra che tutte queste organizzazioni economiche si stanno diffondendo in tutto il mondo, sostenute in vario modo da differenti organizzazioni di finanza etica e che l’obiettivo principale da perseguire è quello di collegare tutte queste esperienze, aiutandole a costruire rapporti federativi stabili ed autogestiti, favorendo nel contempo anche il collegamento e la gestione democratica degli enti finanziatori. Pure Egli prende infine posizione a favore della cooperazione integrale, facendo capire che comincia già oggi ad essere il più valido strumento di trasformazione sociale. Anche per lui la costruzione del circuito economico etico è la strada giusta da seguire.

Io credo che quanto Razeto sostiene per l’economia valga pure per gli altri settori della società. Come esistono imprese ed organizzazioni alternative al capitalismo, nell’ambito della società capitalistica, così esistono istituzioni, culture, personalità e strutture caratteriali antagoniste a quelle borghesi e il nostro compito è quello di moltiplicarle, contemporaneamente ed in correlazione alla costruzione  del circuito economico etico. Vi è infatti una stretta interazione tra la crescita di un uomo nuovo, istituzioni nuove e una nuova organizzazione economica!

La cooperazione integrale, inoltre, riconferisce alla produzione la sua dimensione territoriale locale, pur nell’ambito di un’economia planetaria. Occorre infatti contrapporsi alla “deterritorializzazione” effettuata dal capitalismo, per la quale una multinazionale può avere la sede legale in un “paradiso fiscale” del Centroamerica, fabbricare i componenti delle sue merci in varie filiali disperse per il mondo, al fine di pagare in modo irrisorio i dipendenti ed infine assemblare i pezzi in un’altra sede ancora, sottraendosi così a qualsiasi lotta sindacale.

I lavoratori devono gestire direttamente l’economia del circuito etico, anche se diventerà internazionale, mediante dei referendum informatici e alla centralità della produzione e gestione economica locale dovrà corrispondere il ripristino della municipalità politica partecipata, ossia la democrazia diretta che, nel corso della storia ad Atene, nell’antichità o durante la civiltà dei comuni, nel medioevo, era la base della cittadinanza attiva, su cui si fondava la vita politica.

Murray Bookchin, direttore per molti anni dell’università del Vermont, forse il più grande teorico anarchico del XX secolo, nella sua opera Democrazia diretta – Idee per un municipalismo libertario, ci ricorda come nella storia gli stati accentratori  e burocratici abbiano dovuto sostenere una lotta secolare, per eliminare l’autogestione politica delle città e che , in fondo, non ci siano riusciti del tutto neanche oggi. Le “poleis” ed i “comuni” non erano chiusi in un loro campanilismo egoistico e quindi creavano delle confederazioni, per affrontare i problemi regionali o nazionali, ma utilizzavano a tal fine rapporti federativi, cui partecipavano delegati a rotazione, immediatamente revocabili se ambasciatori  non corretti della volontà locale. Un esempio ideale di come potrebbe essere impostato questo rapporto politico è sintetizzato dall’espressione “ La Comune delle Comuni”, per citare  l’esperienza  della  “Comune” di Parigi del 1871, che riuscì appunto ad “accomunare” in un giudizio positivo su di essa sia Marx che Bakunin.  Bisognerà portare avanti un programma complessivo che preveda la graduale costruzione dal basso di un’economia etica, governata a livello europeo ed internazionale da una federazione di municipalità autogestite.

 

“Non è più possibile intendere la realizzazione di questo programma complessivo in termini di un’esplosione rivoluzionaria che in breve lasso di tempo sostituisca la società attuale con una radicalmente nuova. Invero, rivoluzioni di tal genere non sono mai comparse nella storia, come dimostra la sequela di tragici insuccessi.  Persino la Rivoluzione francese, presa a paradigma dai rivoluzionari per la repentina  trasformazione sociale, maturò nell’arco di alcune generazioni, non  compiendosi che dopo un secolo, allorquando gli ultimi sans-culottes furono virtualmente sterminati sulle barricate della Comune  parigina..

E non può più sussistere alcuna illusione sul fatto che le  barricate sono poco più che simboli o che la guardia civica è solo un piccolo passo verso il disarmo dello stato, quantunque cruciale per mostrare dove realmente deve risiedere il “monopolio della violenza”. Ciò che lega il programma minimo al programma complessivo è un processo, una progressiva articolazione che consenta alle istituzioni e tradizioni di libertà esistenti di diffondersi gradualmente. Nell’immediato, dobbiamo cercare di rendere quanto più democratica la repubblica, impegno spesso puramente difensivo mirato a conservare e consolidare le libertà conquistate nel corso dei secoli, insieme con le istituzioni che conferiscono .loro realtà. In futuro, dobbiamo proporci di radicalizzare la democrazia, imprimendo un contenuto utopico e creativo alle istituzioni democratiche che ci ritroviamo. Beninteso, a quel punto, sarà possibile passare da una situazione antagonista, che tenta di far giocare le istituzioni democratiche contro lo stato, al tentativo ben più aggressivo di sostituire lo stato con municipalità  basate su strutture confederate, nella fondata speranza che il potere dello stato sia stato nel frattempo eroso a livello istituzionale da strutture civiche o locali e che la sua legittimità effettiva, per non parlare della sua autorità coattiva, sia semplicemente collassata. Se è lecito guardare alle grandi rivoluzioni del passato come a modelli esemplari della maniera in cui è possibile un cambiamento tanto immenso, sarà bene allora ricordare come le apparentemente onnipotenti monarchie, sostituite da regimi repubblicani due secoli or sono, fossero talmente corrose che  più che “crollare” si sono letteralmente sbriciolate, proprio come uno scheletro mummificato che viene repentinamente esposto all’aria.” (Murray Bookchin, Democrazia diretta, Eleuthera).

 

Secondo me, comunque, non si può escludere che in futuro accadano di nuovo delle vere e proprie rivoluzioni. Ed è auspicabile che se accadranno siano delle rivoluzioni pacifiche, perlomeno noi ci batteremo affinchè siano tali,  perché è sempre terribilmente increscioso lo spargimento di sangue, tanto è vero che di solito il proletariato ha usato la violenza come legittima difesa! E poi, come dice il compagno anarchico di Sanremo Mario Rossi, ciò che si conquista con la violenza generalmente si è costretti a difenderlo con il potere. La violenza crea il potere! Il fulcro di una rivoluzione, come dice la parola stessa , è il ribaltamento dell’organizzazione sociale, il che non implica necessariamente l’azione violenta. Ad esempio una rivoluzione potrebbe consistere in una occupazione pacifica dei centri direzionali e produttivi della società.

Qualcuno potrebbe  obiettare che i miei obiettivi siano assolutamente irraggiungibili, soprattutto in una società a capitalismo avanzato.

Io rispondo serenamente di non essere in grado di prevedere se una politica da parte dei lavoratori mondiali di autogestione dei consumi  e di sviluppo di una vera cooperazione costituirà un elemento fondamentale per trasformare , certamente molti anni dopo la morte di quelli della mia generazione, in senso comunista o socialista libertario  la società mondiale, come io sinceramente spero oppure se tale politica sarà brutalmente smantellata con la violenza reazionaria di regime, coadiuvata dall’apporto criminale violento delle varie mafie, come stanno cercando di fare molti stati sudamericani, ove i cooperatori sono spesso massacrati, o schiacciata dallo strapotere della concorrenza capitalistica, opportunamente abbinata a provvedimenti legislativi finalizzati a distruggere le cooperative, come si sta tentando di effettuare  in Italia oppure ancora se verrà portato a compimento quel processo di snaturamento della funzione solidaristica e dirompente,  nei confronti dell’economia basata sullo sfruttamento, delle cooperative autentiche, con la loro integrazione nell’attuale globalizzazione e colonizzazione capitalistica, che purtroppo molte di esse accettano. A me interessa solo contribuire a rafforzare uno strumento di difesa degli interessi immediati dei lavoratori, che potrebbe anche connettersi, per usare un vecchio linguaggio forse un po’ roboante, ai loro interessi storici, nel senso che traduce una anche parziale incidenza economica dei produttori in forza politica e organizzativa sindacale, la quale magari potrebbe essere utile per trasformare o almeno migliorare la società.

La nostra coscienza di libertari ci impone di dedicare la nostra vita alla realizzazione di questa speranza, continuando, e lo dico con profonda sincerità, perché è argomento a cui penso tutti i giorni, l’opera dei nostri morti. Il grande cantore argentino, Athualpa Yupanqui diceva:

 

“Dobbiamo andare sempre avanti, portandoci i nostri morti nel cuore, perché nessuno rimanga indietro!”

 

Il nostro compito è quello di diffondere ovunque il barlume di coscienza critica, che pensiamo ci abbia donato la storia, nella sua evoluzione complessiva, con tutte le sue immani tragedie e sofferenze  degli esseri viventi. Ripeto che non sappiamo se siamo liberi o determinati, ma siamo convinti che questa sia la via ed andiamo avanti, continuando a percorrerla. Vogliamo svolgere un’ulteriore riflessione. I socialisti storici, i marxisti, gli anarchici sono sempre stati convinti della caducità della società capitalista, pur proponendo talora differenti strategie per il suo superamento. Tutta la cultura socialista portava a confidare in questa caducità.

Alcune delle tesi su cui si fondava tale convinzione erano false, e sono state smentite dalla storia, però oggi abbiamo acquisito nuovi  elementi conoscitivi che rinvigoriscono questa convinzione.

Non recepirli , a mio avviso, è restare prigionieri dell’ideologia dominante ed essere complici, oggettivamente, dell’esistente. L’ideologia dominante attualmente resta in piedi grazie soprattutto alla vittoria dei riformisti in seno alla sinistra. I riformisti ed i socialdemocratici attuali, a differenza della maggioranza di quelli del passato, hanno rinunciato alle riforme di struttura, finalizzate a realizzare il socialismo, per appiattirsi sul miglioramento degli aspetti secondari dell’esistente, lasciandolo inalterato nella sua miseria sostanziale. I più l’hanno fatto per conservare meschine posizioni di potere   e squallidi privilegi. Una minoranza di essi probabilmente l’ha fatto in buona fede. E’ comunque, per noi, sempre più chiaro come costituisca una trappola mortale la strategia che prevede ci si debba adattare al pensiero dominante, per catturare il consenso popolare, giurando fedeltà alla proprietà privata ed al pallone, proclamando ai quattro venti la propria fede nella durata plurisecolare del capitalismo, la propria cieca fiducia nell’economia e nella scienza, che non necessitano di alcuna analisi critica, perché ci garantirebbero,  così come sono, eterno progresso e tutto questo dovrebbe essere fatto, per entrare nella sala comandi di una nave piena di falle, la quale invece, per fare una cosa intelligente, bisognerebbe abbandonare, precipitandosi nelle scialuppe di salvataggio! Noi pensiamo che il riformismo abbia rivelato la sua sostanziale sterilità. Il riformismo è per noi soprattutto sfiducia nei confronti dell’uomo. Ciònondimeno dovremo fare insieme con i riformisti  un bel pezzo di strada! Esprimiamo un giudizio nettamente diverso sul marxismo e sull’anarchismo. Sono due ideologie che risentono dei danni arrecati dal tempo. Che si sono combattute duramente tra loro, e scontrandosi si sono condizionate a vicenda, imparando l’una dall’altra. In certi momenti sono state costrette ad avvicinarsi, quando hanno affrontato assieme, durante la Prima Internazionale, il riformismo di Giuseppe Mazzini e soprattutto, dopo la Comune di Parigi, allorché Marx scrisse La guerra civile in Francia, esprimendo posizioni molto simili al federalismo bakuniniano, influenzato positivamente dal fatto che i Comunardi avevano rifiutato l’accentramento burocratico, per poi ritornare alle sue posizioni precedenti alcuni anni dopo, nel 1875, redigendo la sua ultima opera, Critica al programma di Gotha. Di quest’ ultimo episodio ci ha parlato con grande precisione Arthur Lenhing, uno dei più grandi ricercatori anarchici, responsabile per decenni degli importanti archivi libertari dell’Aia, nel suo libro Marxismo ed anarchismo nella rivoluzione russa.

Oggi il crollo del collettivismo burocratico - il quale era nato anche per gli errori teorici di Marx, le cui tesi, a causa dell’effetto Edipo di cui ci parla Popper, hanno determinato la nascita di una società autoritaria - potrebbe di nuovo  avvicinare le due concezioni, nell’ambito di una critica evoluzione teorica, che le depuri dalla ruggine e dalle incrostazioni provocate dal tempo, consentendo di dare vita ad un grande movimento comunista libertario, che superi sia il marxismo che l’anarchismo.

Può darsi che una società comunista libertaria non si realizzerà mai. Tra l’altro dobbiamo dire che per noi sarebbe solo una fase di passaggio, non una meta definitiva! Noi non lo sapremo mai! Avremo comunque, durante la nostra vita, la soddisfazione di esserci comportati coerentemente con la nostra sensibilità!

.La grande distribuzione capitalistica, se il progetto prenderà forza e consistenza, assumerà le sue contromisure e quelle legali consisteranno nel fare quello che già stanno attuando alcune finanziarie statunitensi , le quali offrono ai clienti una specie di pacchetto vita, ossia una selezione dei beni più importanti da pagare con la maggior parte dello stipendio e saranno probabilmente disposte a concedere crediti lunghi e vantaggiosi, per tentare di schiacciare un eventuale circuito economico alternativo, anche di dimensioni contenute. Quelle illegali sono facili da immaginare, perché sono quotidianamente sotto gli occhi di chi si documenta perché vuole vedere e sapere, purtroppo ancora una minoranza della popolazione mondiale. Infatti la globalizzazione capitalistica è sempre più delinquenziale, come dimostra il connubio tra multinazionali e mafie per intervenire illecitamente nelle varie politiche nazionali , in collusione con le aggressioni belliche guidate dalla superpotenza statunitense. Non a caso don Luigi Ciotti, uno degli apostoli europei della lotta alla droga e all’emarginazione, fondatore del Gruppo Abele di Torino per il recupero dei tossicodipendenti, ha in questi anni dato vita in Italia a “ Libera, associazioni, nomi e numeri contro le mafie “, una confederazione di oltre settecento organizzazioni nazionali, finalizzata al riutilizzo sociale dei beni confiscati alla delinquenza organizzata, perché non si può lottare per sconfiggere la devianza giovanile senza con temporaneamente lottare contro l’”Internazionale del crimine”.

 

“ Le organizzazioni mafiose infatti si sono radicate in tutti i paesi – spiega don Ciotti – compreso quelli che avevano una grande tradizione di legalità, come ad esempio l’Austria e la Germania, perciò oggi è impossibile fare un’analisi attendibile dello stato dell’economia mondiale, perché non è valutabile la componente ‘ nera’.”

 

Ecco come Noam Chomsky, insigne linguista e militante anarchico, - “Insieme a Shakespeare, Marx e la Bibbia tra le dieci fonti più citate nella storia della cultura” The Guardian - definisce nel suo libro Il golpe silenzioso,  la società  e le corporazioni di capitali statunitensi.

 

“Una società potrebbe comunque avere tutte le apparenze formali della democrazia ma non esserlo affatto. Nell’Unione Sovietica, per fare un esempio, si svolgevano le elezioni […].  Effettivamente io parlo di fascismo nel senso tradizionale del termine. Così, quando una figura piuttosto conformista come Robert Skidelsky, biografo dell’economista britannico John Maynard Keynes, descrive le prime società post-belliche come modellate sul fascismo, egli intende un sistema nel quale lo stato unifica lavoro e capitale sotto il controllo di una struttura corporativa..

Questo è un classico sistema fascista. Può variare il suo modo di operare, ma lo stato ideale a cui mira è uno stato assolutista con un controllo imposto dall’alto ai cittadini, destinati principalmente ad eseguire gli ordini.”

 

Sintetizzando, Chomsky sostiene che l’oligarchia delle multinazionali e delle corporation (le grandi società di capitali) costituiscono una degenerazione che ha creato, prima negli USA e poi in Europa, una sorta di “governo occulto”. Se trent’anni fa il 90% del capitale mondiale era destinato al commercio e a investimenti a lungo termine e il 10% alla speculazione, oggi quelle percentuali si sono ribaltate. Così, anno dopo anno, la democrazia si sta trasformando in una dichiarazione formale, una scatola vuota. E’ un sistema costruito sui segreti inconfessabili, come testimonia il lungo elenco di malefatte e di crimini perpetrati nel mondo “in nome della democrazia”.

Il risultato di questo golpe silenzioso, paventato dagli stessi padri nobili della democrazia americana (Thomas Jefferson e John Dewey), è un baratro che aumenta l’insicurezza e minaccia la società civile, strangolata nella morsa tra i privilegi di pochi e la drastica riduzione dei diritti di molti. In Occidente come nel resto del mondo. Moltiplicando ogni violenza.

Ma ritorniamo alla nostra analisi delle cooperative.

Le cooperative di consumo avranno il vantaggio generalmente di non avere merce invenduta, di non dover accumulare profitti privati, ma dovranno distribuire a prezzi equi, non potendo taglieggiare i produttori , come invece fanno normalmente le grandi catene di distribuzione e inoltre dovranno sostenere spese per la loro espansione, le riparazioni , le ristrutturazioni , nonché finanziare la nascita delle cooperative di produzione, di servizio e quelle agricole. Perciò oltre all’autofinanziamento attraverso le vendite, le anticipazioni sugli acquisti dei soci, le sottoscrizioni, i lasciti, le donazioni, gli investimenti finalizzati, ad esempio alcuni genitori che prestino soldi per costituire una cooperativa dove possano lavorare i figli disoccupati, sarà fondamentale l’apporto della banca etica europea, se riusciremo a costituirla..  Bisognerebbe cercare ,come abbiamo detto, di creare un coordinamento e una cassa comune delle  cooperative di consumo,  non solo per unire le finanze e collaborare politicamente, ma anche per favorire la formazione di una commissione tecnica centralizzata che indichi con procedimenti scientifici i prezzi da adottare nella vendita presso i centri di distribuzione e gli stipendi da versare nelle cooperative, che secondo me dovrebbero essere uguali per tutti a parità di orario, indipendentemente dal titolo di studio posseduto. Tale commissione dovrebbe inoltre fornire indicazioni generali da seguire nella conduzione economica  delle strutture, svolgendo una funzione di supervisione. Un obiettivo da conseguire è comunque, scusatemi se mi ripeto, la realizzazione di mansioni che integrino il lavoro manuale con quello intellettuale, già nella società attuale.

Il circuito economico etico dovrebbe acquistare esercizi commerciali di tutti i tipi, fornendo ai loro ex proprietari la possibilità di essere sistemati in cooperative di produzione, in modo da assicurare l’inserimento lavorativo a chi lo chieda, mentre coloro che vorranno inseguire la conservazione dell’ impresa piccolo o medio borghese, lo faranno a loro rischio e pericolo.  E’ infatti probabile che le classi medie , se si svilupperà il circuito etico, saranno prese  tra due fuochi, da un lato la concorrenza della grande distribuzione capitalistica e dall’altro quella delle cooperative.

Il circuito dovrà incrementare la produzione di alimenti biologici ,  privilegiare il loro consumo a cui educare la gente, progettare e realizzare case biologiche, favorendo lo sviluppo della bioarchitettura, promuovere la costituzione delle comuni e degli ecovillaggi, la costruzione di insediamenti abitativi e produttivi a basso impatto ambientale, inseriti in modo nuovo nell’ambiente naturale, alimentati  con fonti di energie pulite e rinnovabili, evitando inutili forme di inquinamento e sprechi di materie prime.   Si potranno inoltre creare delle cooperative di servizi, i cui lavoratori siano in parte persone con problematiche particolari, ad esempio ex tossicodipendenti, ex detenuti, sofferenti psichici eccetera… che gestiscano strutture di nuova concezione quali , ad esempio, un parco per i cani randagi, ove possano vivere in ampi spazi,  che sostituisca gli attuali canili, pubblici e privati, che sono,  anche se gestiti al meglio,  pur sempre dei campi di concentramento per animali. Tra l’altro una struttura del genere, mai realizzata prima al mondo, richiamerebbe numerosi etologi e un gran numero di animalisti,  assumendo una notevole valenza turistica. Si tratta di un progetto che cerco di realizzare da venticinque anni,  avendo usufruito per un lunghissimo periodo della collaborazione del mio compianto amico Rodolfo Fucile, già Presidente nazionale della Lega per la Difesa del Cane. Altre strutture del genere  potrebbero  essere colonie per ragazzi, gestite da anziani  che trasmettano loro  le proprie competenze lavorative e in generale la loro cultura.

Gli artigiani saranno invitati a riunirsi in cooperative, dove potranno alternare la produzione alle riparazioni, saranno stilati elenchi dei loro nomi da diffondere nel circuito, in modo che ciascun cittadino, che ne faccia parte , possa rivolgersi all’artigiano più vicino. Il circuito provvederà all’assicurazione dei suoi membri, all’assistenza economica, all’istituzione di mense gratuite per gli indigenti e a prezzi politici per tutti gli altri, favorirà lo scambio dei lavori a parità di tempo impiegato, infine se si espanderà notevolmente, si impegnerà a creare nel Terzo Mondo un progetto simile al proprio, finanziando la costituzione di cooperative di produzione e di consumo e aiutando quelle che già esistono e i progetti economici a loro connessi, garantendo l’acquisto dei prodotti provenienti da laggiù, in collaborazione con il Commercio Equo e Solidale.

In conclusione voglio affermare che non sappiamo se il capitalismo riuscirà a sopravvivere ancora per lungo tempo, senza distruggere il genere umano o se lo trascinerà nel baratro con se stesso, distruggendo l’ecosistema , gli uomini e la loro economia; io spero che sia una società transeunte, come tutte quelle che lo hanno preceduto. Si tratta di un sistema economico per certi versi ancora non del tutto conosciuto, si discute se i primi nuovi borghesi siano stati i contadini arricchiti, come sostiene Maurice Dobb nella sua opera Problemi di storia del capitalismo  o se siano stati i mercanti, come afferma Paul Sweezy oppure ancora gli artigiani, come pensano altri ricercatori, però un fatto sembra certo, che la sua nascita, nella seconda metà del Settecento in Inghilterra non fu un avvenimento spontaneo, ma almeno in parte programmato, come abbiamo già detto citando l’opera di Karl Polanyi, La grande trasformazione , a differenza di quanto scrivono ancora oggi la maggioranza dei libri di storia.. Forse un nuovo modo di produzione  e una nuova civiltà nascevano, nel passato, quando si diffondeva una profonda consapevolezza della loro validità per soddisfare le esigenze degli esseri umani o almeno di parte di essi, oggi se soddisfano quelle di tutti gli esseri viventi, perché cominciamo a non essere più antropocentrici e quando si è davvero capaci a farli esistere e funzionare. Un circuito economico etico, anche di modeste dimensioni, educa all’una e all’altra cosa!

Enrico Adler