Materialismo storico, comunismo
anarchia
di Pietro Adamo
I rapporti tra marxisti e anarchici sono sempre stati particolarmente ambigui. Alcuni sottolineano momenti ed eventi particolari - i dissidi nella Prima Internazionale e Saint Imier, la rivoluzione bolscevica, la guerra di Spagna - per illustrare lo stacco incolmabile tra la visione della rivoluzione dei seguaci di Marx e quella dei seguaci di Bakunin. L'argomento forte di tali teorici della "separazione" è il seguente: ogni qualvolta i comunisti marxisti hanno raggiunto il potere, una delle loro prime preoccupazione è stata quella di "far fuori" gli anarchici, sia dal punto di vista culturale sia dal punto di vista propriamente "fisico". È un'argomentazione probabilmente definitiva, ma nasconde un problema ulteriore. Infatti, i marxisti - in Russia come in Cina, a Cuba come nell'ex Jugoslavia - non si sono limitati a "far fuori" solo gli anarchici, ma hanno fatto la stessa cosa con altri radicali: i socialisti, i socialdemocratici, i liberali, i populisti, i "borghesi rivoluzionari", i vari "eretici" a sinistra, eccetera. Tra questi gruppi di "eliminati" registriamo reazioni diverse. Alcuni la prendono, per così dire, con calma; se l'aspettano; è nell'ordine naturale delle cose. Altri strillano, berciano, fanno polemica. Insistono su un tema ricorrente: il "tradimento" dei comunisti, sia della rivoluzione, sia dei loro "compagni di strada". Non mi risulta che esista molta letteratura sul trattamento riservato dai bolscevichi, che so, ai socialisti nel '17 e successivi o nel '37 e successivi. Invece, i libri sul "tradimento" nei confronti degli anarchici (sia nel '17 che nel '37) sono parecchi. Insomma, se proprio dovessi descrivere l'atteggiamento di fondo di buona parte della cultura libertaria di orientamento comunista nei confronti delle varie repressioni bolsceviche, parlerei di "sorpresa esistenziale non del tutto inaspettata": da un lato la presa d'atto di un contrasto tra due visioni del mondo, dall'altro una sorta di stupore di fronte alle iniziative di chi sembrava condividere, fino a ieri, immaginario e progettualità. Ed è proprio questo il punto sul quale a mio parere occorre riflettere. Mettere in luce le differenze di fondo tra il comunismo marxista e quello anarchico è un esercizio di indubbia utilità; si possono prendere in considerazione il diverso giudizio sulla "dittatura del proletariato", sulla natura della pianificazione, sulla transizione rivoluzionaria, sulla relazione tra mezzi/fini, eccetera. Ma nel contempo bisogna tener conto del quadro generale in cui si svolge tale confronto, che è quello di una sostanziale condivisione complessiva di un preciso immaginario: la rivoluzione, la "nuova" storia, la "nuova" società, il comunismo, e così via. È questo l'elemento che spiega la ricorrenza dell'accusa di tradimento.
Necessità storica e rivoluzione
Il socialismo anarchico e quello marxista hanno ovvie radici storiche
in comune. In primo luogo, l'ethos rivoluzionario e
insurrezionalista che scaturisce dalla Rivoluzione francese e che
modella sia il pensiero dei teorici sia l'azione dei movimenti nel corso
dell'Ottocento. In secondo, la comune matrice nell'area socialista
(lasciamo stare quelle tendenze dell'anarchismo che risalgono a
prospettive differenti). In terzo, la fucina dell'In-
ternazionale: per quasi un ventennio (grosso modo, dagli inizi degli
anni Cinquanta agli inizi degli anni Settanta) proudhoniani, lassalliani,
marxisti, tradeunionisti, socialisti cristiani e comunisti utopisti
costituirono un bacino condiviso di esperienze e di elaborazioni. Le
differenziazioni ebbero luogo in un secondo momento. Solo dalla metà
degli anni Settanta comincia ad avere pienamente senso discutere di un
movimento socialista che va articolandosi in tendenze divergenti. È
questo il periodo decisivo per comprendere la natura profonda del
dissidio tra marxisti e anarco-comunisti: condivise le matrici;
condiviso l'obiettivo di fondo (l'abbattimento della società capitalista
e l'instaurazione del comunismo); differente l'orientamento
etico-politico. Di recente Nico Berti si è chiesto se "la divergenza sui
mezzi per raggiungere il socialismo sia così profonda da rendere del
tutto secondario ed apparente il fine teorico che li accomuna".1
Dal punto di vista della teoria Berti ha ragione nell'affermare la
differenza tra le due tendenze, che ci permette peraltro di
comprendere la distanza che oggi le separa; ma dal punto di vista
storico tale conclusione obnubila quel terreno comune che le ha
contraddistinte nel loro sviluppo concreto. E non dobbiamo fare grande
fatica per identificare un preciso elemento ideologico che spiega non
solo affinità teoriche e vicinanza negli obiettivi, ma anche - cosa più
importante - quella condivisione di immaginario che resta, a mio parere,
la componente più significativa della connessione marxismo/anarco-comunismo.
Il passaggio di Marx dalla prospettiva hegeliana a quella del
materialismo storico avvenne tra il 1844 e il 1846, grazie anche a un
confronto serrato con gli anarchici Stirner e Proudhon.2. Nel
manoscritto su Feuerbach che apre l'Ideologia tedesca si trovano
le prime elaborazione sul tema. Ne emergono - ancora a uno stadio non
del tutto sviluppato - i punti fermi della filosofia della storia
marxiana, così riassunti, in un'opera più tarda, dallo stesso autore:
"Nella produzione sociale della loro esistenza, gli uomini entrano in
rapporti determinati, necessari, indipendenti dalla loro volontà, in
rapporti di produzione che corrispondono a un determinato grado di
sviluppo delle loro forze produttive materiali" 3. Da questo
presupposto si evince una serie di altri postulati, che nel Manifesto
del 1848 troveranno l'esposizione più nota e diffusa: le fasi
rivoluzionarie si aprono quando i rapporti di produzione consolidati
entrano in contraddizione con l'evoluzione economica della società; la
storia è quindi frutto di una costante lotta tra le classi; stato,
diritto, persino tecnologia sono sovrastrutture; il potere politico è
solo "il potere organizzato di una classe per l'oppressione di un'altra"
4. Marx (qui in collaborazione con Engels) concludeva il
ragionamento con la scoperta "scientifica" della necessità storica di
una rivoluzione proletaria, destinata a essere diversa, per natura,
dalle precedenti: il proletariato, infatti, al contrario dei movimenti
precedenti, "di minoranza o nell'interesse di minoranze", era "il
movimento indipendente dell'enorme maggioranza nell'interesse
dell'enorme maggioranza"5; ne sarebbe conseguita l'abolizione
delle classi e l'estinzione, di fatto, dello stato. Negli anni
successivi Marx avrebbe dedicato gran parte delle sue energie a
precisare le implicazioni economico-politiche del materialismo storico,
partendo dalla teoria del valore-lavoro e sviluppando le idee del
plusvalore, della caduta tendenziale del tasso di profitto, eccetera. In
sostanza, la sua concezione della storia valorizzava istanze classiste,
che situavano la riflessione sull'oppressione del proletariato in una
cornice di fatalismo rivoluzionario; sul piano filosofico esprimeva,
sotto una copertura "scientifica", una potente tendenza al dogmatismo;
sul piano politico diveniva una giustificazione della "dittatura" del
proletariato.
Le teorie marxiane ricevettero un colpo fatale sin dalla fine del secolo
scorso, quando filosofi ed economisti misero in luce l'insufficienza del
valore-lavoro come spiegazione del meccanismo della società capitalista,
anche perché le principali predizioni di Marx - in primo luogo quello di
una progressiva polarizzazione sociale, con l'aumento di capitalisti e
proletari, i primi sempre più ricchi e i secondi sempre più poveri, e la
scomparsa delle classi intermedie - non si erano affatto avverate
Inoltre, i sociologi e gli studenti di scienze sociali colsero -
soprattutto a partire dal successo bolscevico - il sostrato religioso
della filosofia della storia marxiana, che sembrava costituire la più
perfetta laicizzazione dell'ideale cristiano dell'avvento del paradiso
in terra; la strumentazione concettuale del leninismo, con l'accento
sulla superiore "sapienza" scientifica degli iniziati riuniti in
"partito", ricordava in particolare gli antichi gnostici6. La
cosa più interessante da discutere è se sia possibile rintracciare nel
materialismo storico una delle matrici dell'esperienza totalitaria del
comunismo reale. Sarebbe ovviamente anacronistico addossare direttamente
a Marx tale responsabilità; tuttavia, nella sua teoria sono presenti
elementi che avranno una funzione importante nel plasmare l'ideologia
totalitaria: la funzione di "guida" delle avanguardie; la necessità
"storica" della rivoluzione proletaria; l'azzeramento della storia nella
società comunista; l'esaltazione della violenza "liberatrice"; e così
via
Materialismo storico e immaginario
Giungiamo al punto. Il materialismo storico ha esercitato
un'influenza per certi versi maggiore di quanto abbiano fatto le teorie
economico-politiche di Marx. Non ha fornito semplicemente il linguaggio
della redenzione a tutti i socialisti (per le meno sino ai primi
revisionisti degli anni Ottanta e Nova-nta), ma ha plasmato un
immaginario fondato sulla "classe", la "ri-voluzione", la "nuova
storia". Un immaginario che è stato ed è ampiamente condiviso da buona
parte de-gli stessi anarchici. Poco conta, da tale punto di vista,
insistere sulle differenze teoriche e pratiche tra comunismo
"autoritario" e comunismo "libertario": la comune matrice materialista,
con i suoi corollari classisti e insurrezionalisti - con un lessico
incentrato su categorie marxiste (quali "struttura", "merce",
"capitale", "proletariato" e così via) non tanto (e non solo) obsolete,
quanto prive ormai di contenuto reale - modella quasi per necessità una
forma mentis fondata sullo scontro, la violenza, la coartazione
e, nei casi limite, la mistica della rivoluzione proletaria, con i suoi
sogni da millennio rigeneratore. In altri termini, gli anarco-comunisti,
lungi dal rivelarsi diversi dai loro "compagni di strada"
autoritari, ne condividono in parte le premesse storiche,
epistemologiche ed antropologiche. Il percorso verso la società
comunista immaginata dagli anarchici pare cioè riprodurre, nella sua
impostazione unanimistica, fatalistica e azzeratrice della storia, gli
stessi temi e le stesse fallacie che i libertari sono usi attribuire ai
loro avversari/compagni di parte marxista.
La letteratura e la pratica degli anarco-comunisti dimostrano più che a
sufficienza, a mio parere, la presenza di questo immaginario di matrice
materialista. Sugli internazionalisti non credo sia possibile nutrire
dubbio alcuno. Cafiero chiude il suo Compendio del Capitale - di
per sé prova della mia argomentazione - con un avvertimento ai piccoli
proprietari, "inevitabilmente ridotti tutti, dalla moderna accumulazione
capitalista, alla trista condizione: o vendersi al governo per la
pagnotta, o scomparire per sempre fra le dense file del proletariato"7
Le pagine del primo Malatesta testimoniano un'analoga fedeltà ai
capisaldi dell'interpretazione materialista; facendo qualche esempio
concreto, nell'Anarchia riprodusse quasi perfettamente la
concezione dello stato offerta da Marx ("In tutto il corso della storia,
così come nell'epoca attuale, il governo, o è la dominazione brutale,
violenta, arbitraria, di pochi sulle masse, o è uno strumento ordinato
ad assicurare il dominio e il privilegio a coloro che […] hanno
accaparrato tutti i mezzi di vita"); in Fra contadini sposò con
tanta convinzione la tesi della progressiva concentrazione della
ricchezza da ritrovarsi costretto ad aggiungervi, a partire
dall'edizione del 1913, una dissociazione da tale tesi, spiegando che il
testo era stato scritto "nel 1883, quando ancora era indiscussa fra i
socialisti la teoria di Marx sulla concentrazione della ricchezza"8
Nei giornali e nella libellistica anarchica l'enfasi sulla retorica
materialista dello scontro tra le classi e della rivoluzione
rigeneratrice era ancora più marcata. Persino in un pensatore
sofisticato come Kropotkin fanno capolino le premesse materialiste.
Intendiamoci, non intendo sostenere che gli anarchici - neppure quelli
di tendenza comunista - siano materialisti loro malgrado. Intendo dire
che le tesi di Marx, diffuse in tutto il movimento socialista, hanno
attecchito, per lo meno in parte e ma in modo precipuo, proprio tra
coloro che ne condividevano l'obiettivo ultimo, l'edificazione della
società comunista. E la migliore testimonianza di questa presenza sta
nello sviluppo del revisionismo anarchico negli anni Venti e Trenta di
questo secolo, che in massima parte costituisce un tentativo di
"epurazione" dall'anarchismo di quei tratti maggiormente associati
all'immaginario materialista e che ha visto impegnarsi nell'impresa
Malatesta, Berneri, Fabbri, Borghi, Rocker e altri. Anzi, proprio Rocker
ha tentato esplicitamente, con la prefazione a Nazionalismo e cultura,
di dare all'anarchismo una filosofia della storia - fondata non sulla
"guerra di classe", ma sulla "volontà di potenza" - alternativa a quella
di derivazione marxiana.
revisionismo e libera sperimentazione
Il dopoguerra ha segnato una nuova involuzione. La marginalizzazione
degli anarchici e l'apparente successo dei bolscevichi ha in sostanza
riconsegnato il movimento alle parole d'ordine del materialismo storico.
Nel 1955 Luce Fabbri ha offerto il seguente commento:
Un'innegabile influenza marxista su tutti i movimenti italiani (e,
possiamo dire, europei) di "sinistra", specialmente nei loro settori
giovanili, dovuta a circostanze di carattere materiale come la potenza
politica della Russia, ha prodotto un acuirsi della mentalità classista
vecchio stile, proprio quando le classi stano cambiando rapidamente di
natura. Ha portato ad esaurire la lotta nell'azione anticapitalista in
un momento in cui il capitalismo decade e non certo a vantaggio delle
soluzioni socialiste, e nuove forme di assolutismo statale anneriscono
l'orizzonte a oriente e a occidente. La suggestione che esercitano le
"realizzazioni pratiche" (più immaginarie che reali) […] fece (anche in
mezzo agli anarchici) fermentare variamente i residui dell'educazione
marxista ricevuta nell'atmosfera infuocata della resistenza, nel senso
dell'accentuazione di motivi autoritari e perfino, in alcuni casi
estremi, di un avvicinamento ideologico al trotzkismo. 9
Per certi versi il '68 ha prodotto un effetto analogo, rinforzando
ancora una volta quella tentazione materialista che abbiamo visto esser
presente nell'anarchismo di orientamento comunista sin dagli esordi.
I revisionisti degli anni Venti e Trenta e i loro pochi seguaci nei
decenni successivi hanno tentato di confutare le premesse classiste e
materialiste dei loro compagni, seguendo percorsi diversi e per certi
versi persino divergenti10. Il superamento del problema della
relazione materialismo storico/comunismo anarchico è avvenuto attraverso
il potenziamento del tema della libera sperimentazione, grazie al quale
la concezione comunista libertaria ha perso le connotazioni classiste ed
escatologiche. Concepita da Malatesta e Fabbri come il metodo per
conciliare il rifiuto anarchico della coartazione con la prospettiva di
una società libera, la libera sperimentazione pareva configurare un
sistema di interrelazione sociale ed economico fondato sul pluralismo,
in cui il comunismo diveniva soluzione tra tante. Certo, Malatesta e
Fabbri erano convinti - o, per meglio dire, speravano - che essa,
paragonata alle altre, uscisse vincitrice dal confronto e si affermasse
a seguito della libera scelta di ognuno. In questa prospettiva restavano
saldi due principi: la vittoria del comunismo libertario non avrebbe
precluso la possibilità di scegliere altrimenti in futuro; la situazione
della "transizione", ovvero una "società aperta" caratterizzata dalla
libera sperimentazione, era di per sé favorevole allo sviluppo della
libertà. Luigi Fabbri aveva toccato il punto nevralgico
dell'argomentazione anarchica già nel 1922, quando aveva giudicato della
massima importanza che, "qualunque sia il tipo di produzione adottato,
lo sia per libera volontà dei medesimi, e non sia possibile la sua
imposizione"; nel 1926 spiegava poi che il programma dell'Unione
anarchica italiana del 1920 "affermava implicitamente la tolleranza
verso la piccola proprietà non sfruttante il lavoro salariato,
rivendicando la libertà dei produttori di non far parte delle
associazioni di produzione"11. Tali argomentazioni
illustravano con chiarezza quale tipo di comunismo era qui
concepito: se si fosse negato il principio della libera scelta del
produttore, si sarebbe piombati nel totalitarismo; se fosse stato
accettato pienamente, ciò avrebbe condotto a una società caratterizzata
dalla concorrenza possibile, e quindi dal mercato. In effetti,
non si può fare a meno di rilevare che è proprio questa la soluzione
prospettata da Malatesta, Fabbri e dagli altri "comunisti" disposti alla
"revisione". Postulando la possibilità della differenza (anche
economica), essi abbandonavano la posizione rigidamente classista;
auspicando una società in cui erano ammessi il mutamento, lo sviluppo e
la possibilità d alterare la scelta sullo stile di vita (e sullo stile
di "produzione", ovviamente), evitavano lo scivolamento nell'escatologia
e in quell'azzeramento della storia che costituiva il prodromo
inevitabile del totalitarismo. In questo tragitto i "revisionisti" si
erano allontanati parecchio dal materialismo storico e dalla versione
più diffusa del cosiddetto comunismo libertario; nel contempo, si erano
avvicinati a quelle tendenze dell'anarchismo che si erano sempre
definite anticomuniste e che nel tema dell'inevitabiltà della
rivoluzione proletaria avevano colto, più che un'istanza di liberazione,
la possibilità di una soluzione autoritaria.
Pietro Adamo
1 G. Berti, Il pensiero anarchico dal Settecento al
Novecento, Manduria-Bari-Roma 1997, p. 526.
2 Per una sintetica descrizione dello sviluppo del pensiero di Marx in
questo frangente si veda D. McLellan, "La concezione materialistica della
storia", in Storia del marxismo. Vol. I. Il marxismo ai tempi di Marx,
tr. it. Einaudi, Torino 1978, pp. 35-55.
3 K. Marx, Per la critica dell'economia politica, tr. it. Editori
Riuniti, Roma 1984, p. 5.
4 K. Marx, F. Engels, Manifesto del partito comunista,v tr. it.
Editori Riuniti, Roma 1971, p. 89.
5 Ivi, p. 74.
6 Si veda la rapida ma suggestiva rassegna di interpretazioni storiografiche
dell'antica gnosi in G. Filoramo, L'attesa della fine. Storia della gnosi,
Laterza, Roma-Bari 1993, pp. IX-xxiii.
7 C. Cafiero, Compendio del Capitale, Editori Riuniti, Roma 1996, p.
5.
8 I due testi di Malatesta sono riprodotti in Gli anarchici, a cura
di G.M. Bravo, Torino, Utet 1971 (le citazioni sono rispettivamente a p. 815
e p. 879.
9 L. Fabbri, Sotto la minaccia totalitaria, Edizioni RL, Napoli 1954,
p. 13.
10 Mi si permetta, a questo punto, di rimandare ad altri miei scritti
dedicati all'argomento: L'anarchisme entre ethos et projet, in La culture
libertaire, a cura di A Pessin e M. Pucciarelli, Atelier de creation
libertaire, Lione 1997, pp. 181-201 (vers. rid. L'anarchismo tra ethos e
progetto, in "A rivista anarchica", n. 233, 1997, pp. 32-39); Il
revisionismo di Camillo Berneri, "Il presente e la storia", n. 53, 1998,
pp. 105-129; La crisi dell'anarchismo e l'ethos liberale, "A rivista
anarchica", n. 250, 1998/1999, pp. 43-45; Presentazione a L. Fabbri,
Libera sperimentazione, in "A rivista anarchica", 256, 1999, pp.
42-44.
11 L. Fabbri, Anarchia e comunismo "scientifico" (1922), in N.
Bucharin, L. Fabbri, Anarchia e comunismo scientifico, Altamurgia,
Ivrea 1973, p. 43; L. Fabbri, "I comunisti libertari e la terra ai
contadini", manoscritto custodito all'Istituto storico della resistenza di
Firenze, con copia nell'Archivio Berneri di Reggio Emilia.