UMANESIMO E ANARCHISMO di Camillo Berneri
Pubblicato su L'adunata dei refrattari (New York) del 22 e del 29 agosto 1936.
Il movimento giellista ha messo in circolazione una parola che non è nuova né inconsueta tra i colti ma che ha suscitato sprezzanti sorrisi e suggerito facili ironie tra i caporalucci dell'emigrazione antifascista. Quella parola, Umanesimo, va intesa in modo più largo del significato, che le è generalmente attribuito, di ritorno, filosofico e letterario, all'antico. Umanesimo è parola che riassume lo spirito del Rinascimento e significa, ancora e soprattutto, il culto dell'Uomo preso come base di ogni concezione estetica, etica e sociologica. L'umanesimo è, sostanzialmente, definito nella celebre formula di Terenzio, Homo sum: humani nihil a me alienum puto; ossia «Sono uomo, e penso che niente di quel che è umano mi sia estraneo». Soltanto chi veda in ogni uomo l'uomo, soltanto costui è umanista. L'industriale cupido che nell'operaio non vede che l'operaio, l'economista che nel produttore non vede che il produttore, il politico che nel cittadino non vede che l'elettore: ecco dei tipi umani che sono lontani da una concezione umanista della vita sociale. Egualmente lontani da quella concezione sono quei rivoluzionari che sul piano classista riproducono le generalizzazioni arbitrarie che nel campo nazionalista hanno nome xenofobia.
Il rivoluzionario umanista è consapevole della funzione evolutiva del proletariato, è con il proletariato perché questa classe è oppressa, sfruttata ed avvilita ma non cade nell'ingenuità populista di attribuire al proletariato tutte le virtù e alla borghesia tutti i vizi e la stessa borghesia egli comprende nel suo sogno di umana emancipazione. Pietro Kropotkin diceva: «Lavorando ad abolire la divisione fra padroni e schiavi, noi lavoriamo alla felicità degli uni e degli altri, alla felicità dell'umanità». L'emancipazione sociale strappa il bambino povero alla strada e strappa il bambino benestante alla sua vita di fiore di serra, strappa il giovane proletario all'abbrutimento del lavoro eccessivo e strappa il giovane signore alle oziose mollezze e alle noie corruttrici, strappa la donna del popolo alla precoce vecchiaia e alla conigliesca fecondità e strappa la dama alle fantasticherie ossessionanti che nell'ozio hanno il loro vivaio e sboccano nell'adulterio o nel suicidio. Ogni classe ha una propria patologia perché ogni ambiente sociale ha propri germi corruttori. Vittima delle mancate cure materne è il paria precocemente caduto nella delinquenza, e vittima dell'untuoso servilismo e dei comodi eccessivi è il figlio di papà che si crede tutto lecito: dalla seduzione della sartina allo chèque falso. II ladruncolo e il bancarottiere, la prostituta e la signora strangolata dal danseur mondain non sono che aspetti di un unico male, non sono che diverse dissonanze di un'unica disarmonia sociale. Gridi «a morte!» la folla proletaria, e l'approvi e la inciti l'Humanité, contro il borghese omicida, ma noi no. Noi no, mai. Deterministi ed umani, difenderemo la folla degli scioperanti linciante il padrone, il crumiro, il gendarme, la difenderemo in nome dei dolori da essa sofferti, delle umiliazioni da essa patite, della legittimità dei suoi conculcati diritti, del significato morale che quella collera racchiude, del monito sociale che quell'episodio sprigiona, ma se quello stesso borghese uccide, dominato dall'ossessione gelosa, travolto da un impeto di sdegno, non saremo noi ad infierire soltanto perché egli è nato e cresciuto in un palazzo invece che in una stamberga. Noi spiegheremo come la vita borghese sia corruttrice, denunceremo il peso deformante dei pregiudizî proprî della borghesia, faremo. insomma, il processo alla borghesia e non al singolo borghese. La filosofia della cronaca, nella quale eccellono giornalisti di quotidiani democratici, è insufficientemente sviluppata dalla stampa di avanguardia appunto perché non si vuole uscire dall'angusta visuale classista che consiste nell'accanirsi sul borghese, sul militare, sul prete, ecc., dimenticando l'uomo. Come sarebbe educativa una filosofia sociale dei fatti di cronaca!
Ecco un prete arrestato per reato sessuale. L'anticlericalismo grossolano si getta sul prete. La casistica giudiziaria ed i libri sulla mitomania imporrebbero la giustizia della riserva. È egli colpevole? Ma certo che lo è, dato che utilissimo è questo scandalo per la laicità della scuola. per la cacciata delle congregazioni, per il... libero pensiero.. Massoni, socialisti, comunisti si scagliano contro l'infame, contro il satiro chiericuto, contro il prete porco, come gli antisemiti si scagliarono per secoli sull'ebreo accusato di rituale infanticidio: senza una prova, senza un serio indizio, con la frenesia di voler per forza colpevole il nemico. E gli anarchici fanno coro, generalmente. Invece spetterebbe a noi, ammessa la colpevolezza del prete, spiegarne le causa: dal celibato all'omosessualità, latente quando non manifesta, seminarile. E bisognerebbe andare oltre, giungendo a spiegare il determinismo ormonico della condotta sessuale, determinismo oggi evidente per chiunque non sia del tutto ignorante di biologia.
Il fatto di cronaca dovrebbe diventare, illuminato dalla critica sociale, elaborato dal determinismo scientifico, uno dei principali argomenti della stampa di avanguardia.
Ecco un fatto di cronaca: in una strada di Varsavia, una ragazza sviene, in seguito ad una emottisi. Un agente di polizia accorre, chiama un taxi ed ordina all'autista di condurre la malata ad un ospedale. L'autista rifiuta, per via del sangue che macchierebbe la sua vettura. La folla che si è ammassata solidarizza con l'autista. Il poliziotto ne è desolato ed esclamando «Il mondo è troppo brutto», sì spara nella testa una revolverata. Sopraggiunge un altro poliziotto. Messo al corrente di quanto è avvenuto, anch'egli si spara nella testa una revolverata.
Un poliziotto è socialmente un cane da guardia, ma può essere un uomo più buono di un autista magari sindacato. Malatesta, perseguitato dalle polizie di mezzo mondo quasi tutta la sua vita, non solo lo sapeva ma lo diceva e scriveva. Essendosi egli, in un comizio pubblico, rivolto si carabinieri di servizio per dir loro delle parole umane, Paolo Valera gliene aveva mosso rimprovero. Malatesta, rispondendo all'attacco, su Volontà di Ancona, scriveva, tra l'altro: «In ogni uomo resta sempre qualche cosa di umano che in circostanze favorevoli può essere evocato utilmente a sopraffare gl'istinti e l'educazione brutali. Ogni uomo, per quanto degradato, sia pure un feroce assassino o un vile arnese di polizia, ha sempre qualcuno che ama, qualche cosa che lo commuove. Ogni uomo ha la sua corda sensibile: il problema è di scoprirla e farla vibrare».
In un articolo su Umanità Nova (14 Marzo 1922), non mancando di affermare essere l'opera generale dei carabinieri non meno dannosa di quella dei delinquenti, Malatesta scriveva: a «I carabinieri e le guardie regie sono il più delle volte dei poveri disgraziati vittime delle circostanze, pica degni di pietà che di odio e di disprezzo, ed è probabile che personalmente siano migliori dei peggiori tra i fascisti».
Alcuni compagni che non hanno conosciuto personalmente Malatesta, o che pur avendolo avvicinato non hanno afferrata la di lui personalità morale, credono che egli facesse certe distinzioni per opportunità politica. È questo misconoscere l'umanesimo malatestiano. Uomo che odiava l'ordine statale-borghese, rivoluzionario non solo di pensiero ma anche di azione, Malatesta non avrebbe esitato a far saltare, se lo avesse ritenuto necessario e lo avesse potuto, tutte le caserme dei carabinieri e tutte le questure d'Italia. Ma egli sapeva che tra i carabinieri e tra le guardie regie vi erano dei poveri diavoli spinti dal bisogno, mancanti di educazione politica, ma non peggiori d'animo della media degli uomini. Alle Assise di Milano, quando, letta la sentenza che lo assolveva, Malatesta si ritirava fra i carabinieri, uno di essi, gli si fece innanzi commosso e dicendogli: «Mi permette di abbracciarlo?» gli buttò le braccia al collo. Quale uomo respingerebbe un tale gesto vedendo soltanto la divisa e la funzione e non il cuore turbato e aperto, sia pure per un momento, ad un ideale di libertà e di giustizia?
Malatesta è stato sempre profondamente umano, anche verso i poliziotti che lo sorvegliavano. Una notte fredda e piovosa, in Ancona, egli sapeva che un questurino era là alla porta, ad inzupparsi e a battere i denti per adempiere il proprio compito. Andare a letto compiacendosi di sapere il segugio nelle peste sarebbe stato naturale, ma non per Malatesta, che scese alla porta ad invitare il questurino a scaldarsi un po' e a bere un caffè.
Passarono gli anni, tanti anni. Una mattina, in piazza della Signoria, a Firenze, Malatesta riceve un «buon giorno, signor Errico» da un vecchio spazzino municipale. Dotato di una memoria ferrea sia delle fisionomie come dei nomi, Malatesta è stupito dì non riconoscere quel tizio. Gli domanda chi sia e quegli gli dice: «Sono passati tanti anni. Si ricorda quella notte che io ero alla sua porta...». Era quel questurino, che serbava in cuore il ricordo di quella gentilezza come si conserva tra le pagine di un libro il fiore colto in un giorno soleggiato dalla gioia dì vivere. Malatesta, nel raccontare quell'incontro, aveva un sorriso di dolce compiacenza, quello stesso sorriso con cui Gori respingeva l'insistente offerta di portargli la valigia, pesante di lastre da proiezione, dei poliziotti che, nel corso delle sue tournées di conferenze, lo attendevano alla stazione.
Il poliziotto sinceramente amabile è il lupo di Gubbio che offre la zampa. È il bel miracolo dell'Idea che nega l'utilità e la dignità della funzione sociale del poliziotto e del carabiniere, ma che parla all'uomo che è nel poliziotto e nel carabiniere. Una dolce sera, ancora dolente delle violenze usatemi da gendarmi lussemburghesi, spiegavo ad un giovane gendarme che cosa vogliono gli anarchici. Mi ascoltò con interesse e, dopo aver riflettuto, sospirò: «È una bella idea. Ma ci vorranno almeno cinquant'anni per arrivarci!». Bisogna aver degli occhi azzurri da bambino ed un sorriso dolcissimo come egli aveva per vedere elevarsi la bianca città sotto un sole che splenderà così presto. Cinquant'anni! E gli parevano molti, mentre a certi anarchici i millenni sembrano ottimistici. Ed io gli fui grato dì aver compensato la bruttura di quei suoi colleghi che avevano infierito contro me ammanettato, sì che, in quella fragrante pace dei campi e sotto quella violacea tenerezza del cielo, potessi più che mai credere nell'uomo e, nell'uomo credendo, nell'Anarchia, la cui possibilità storica derivo dall'incontrarmi in uomini che pur non avendo in capo teorie nostre sono con il cuore a noi vicini e sono fin da oggi cittadini possibili della città di domani.
Esule a Londra, Luisa Michel si compiaceva di vedere la benevolente opera di persuasione di un policeman per far rientrare in casa un ubriaco, come si compiaceva di sentirsi in famiglia negli ambienti aristocratici inglesi, in cui sentiva «l'impressione dell'onestà umana persistente nonostante i maledetti impicci», come si compiaceva, al museo Tassaud, davanti all'effigie in cera della regina Vittoria, per la serena bontà che ne emanava. Quando Kropotkin, nelle sue meravigliose memorie, parla della famiglia imperiale, ne parla come uomo che ha conosciuto l'influenza dell'educazione principesca e della vita di corte e sa come quell'influenza determini quanto determina quella della stamberga e dell'osteria. Affabile e prodigo verso i mendicanti londinesi, Kropotkin è indulgente coi principi perché la sua intelligente bontà comprende gli uni e gli altri, pietosa coi paria e giusta verso i potenti, vittime nello spirito. Chi avrebbe sospettato il repubblicano e l'ateo nell'arciduca Rodolfo d'Asburgo? Poteva il Luccheni immaginare che l'imperatrice Elisabetta profetizzava la caduta di tutti i troni e non era che una Madame Bovary che amava Heine, soccorreva di nascosto Wagner e soffocava alla corte per il peso dell'etichetta che le vietava perfino di aprire da sola la finestra, di passeggiare nel parco di Lainz, dì accarezzare i bimbi di popolani e contadini, di girare per le vie di Vienna, facendo acquisti nei negozi, come soleva a Monaco, fanciulla e libera? Paria il Luccheni, schiava limperatrice, come doveva essere schiavo suo figlio Rodolfo fino a quando si sottrasse con il suicidio al peso di una vita protocollare troppo angusta per il suo largo spirito. Perfino gli imperatori ed i re, dalla culla al trono e da questo alla tomba circondati da lusinghe e da genuflessioni, quindi condotti a considerarsi come dei numi, presentano, pazzi, criminali e fannulloni esclusi, qualche lato pregevole e simpatico. Francesco Giuseppe, epilettoide, presuntuoso, violento, caparbio, arido e duro aveva molto sviluppato il senso dei dovere, che era per lui quello dl fare sul serio l'imperatore. Malato di polmonite andò alla stazione in attesa dell'arrivo di un arciduca russo perché, essendo il tempo in cui tra Vienna e Pietroburgo esisteva una certa tensione di rapporti, temeva che la sua assenza fosse malamente interpretata. Vecchio e malato, continuò fino alla morte, nonostante le insonnie e le febbri altissime, ad alzarsi alle cinque del mattino per mettersi a tavolino, rimanendovi tutto il giorno, nonostante i consigli e le preghiere dei suoi familiari. La sera del suo ultimo giorno, il suo aiutante di campo, vedendo che egli non riusciva più a sollevare la destra e a portarla verso il calamaio, l'obbligò a coricarsi. Il vegliardo protestava: «Ho ancora da fare, ho ancora da lavorare». E spirò nella notte.
In una società bene organizzata Francesco Giuseppe invece di fare il Kaiser impiccatore sarebbe stato un impiegato modello. In una società quale noi la vorremmo, Massimiliano d'Austria invece che andare a conquistare il Messico avrebbe fatto l'esploratore, lui che aveva la stoffa del viaggiatore poeta e non affatto quella dei soggiogatore di popoli.
Non riuscirò mai a vedere l'umanità nel casellario romantico-demagogico della propaganda volgarmente sovversiva che in Italia ebbe una delle sue tipiche espressioni nelle caricature di Scalarini. Tutti gli ufficiali scalarineschi erano dei bellimbusti con il monocolo, con i baffoni e con un muso da iena. Tutti i borghesi scalarineschi erano dei suini con unghie tigresche e stracarichi di ori e di gemme. Il demagogo della caricatura ha cambiato padrone, come quasi tutti i demagoghi dell'oratoria comiziesca. I Podrecca ed i Notari della pornografia anticlericale dovevano finire a fare i baciapile; quelli che piantavano la bandiera nel letamaio e la sputacchiavano dovevano finire imperialisti; quelli che mangiavano vivi i carabinieri (a parole, s'intende) sono finiti prefetti. E, purtroppo, sono ancora sul pulpito sovversivo dei bagoloni che intellettualmente e moralmente non valgono più dei transfughi.
A diciassett'anni il generale Morra di Lavriano, quello della stato d'assedio in Sicilia, mi appariva come una bestia feroce. Parlando o scrivendo di lui non avrei esitato a paragonarlo a Gallifet, che fu in realtà un criminale. Ora non lo potrei, perché mi affiorerebbe alla mente un ricordo: quello di una lapide da lui apposta su di un pozzo che fu tomba a una coppia suicida Si trattava di contadini ancora fanciulli, suicidi per amore contrastato. Il generale fece murare il pozzo, volle che fossero attorno ad esso piantati dei salici e un roseto e dettò l'epigrafe, che era un piccolo capolavoro di sintesi e di poesia. Il generale dei tribunali-giberna mi sorprendeva, come mi avevano sorpreso certi famosi inquisitori capaci del bacio al lebbroso, teneri cogli orfani, i prigionieri, il popolo. Quanto può sull'uomo la superstizione religiosa o politica! E come è facile confondere la ferocia e la fede assoluta e decisa, l'abito alla violenza e le circostanze del momento con il cuore!
Se sono ottimista gli è che non credo alle belve umane. Credo che in ogni anima la più tenebrosa vi sia una stella palpebrante, che in ogni cuore il più diaccio vi sia un po' di calore nascosto. E credo altresì che in ogni ceto sociale vi siano alcune qualità specifiche. sì che il progresso umano risulterà dalla fusione delle classi così come l'universalismo risulterà dalla fusione dei popoli e delle razze.
Geoffroy Saint-Hilaire diceva: «Che cosa curiosa!, quando, il signor Cuvier ed io, passeggiamo nella galleria delle scimmie, lui vede mille scimmie, io, io non ne vedo che una».
Quando si vede il militare, il prete, il borghese, ecc. non si vede l'uomo, che è infinitamente vario in ogni categoria sociale, tanto vario da costituire delle categorie che sono umane e non di classe o di ceto.
L'anarchismo è stato teoricamente elaborato da pensatori di origine sociale varia. Bakunin, Kropotkin, Cafiero, Cerkesov, Tarrida Del Marmol erano dei fuorusciti dell'aristocrazia, Malatesta, Fabbri, Galleani, Landauer, Müsham erano dei fuorusciti della borghesia, altri teorici sono, da Proudhon a Rocker, usciti dal proletariato.
Nonostante questa varietà di origine sociale, l'anarchismo si è affermato nettamente e costantemente in ogni paese come corrente socialista e come movimento proletario. Ma l'umanesimo si è affermato nell'anarchismo come preoccupazione individualista di garantire lo sviluppo delle personalità e come comprensione, nel sogno di emancipazione sociale, di tutte le classi, di tutti i ceti, ossia di tutta l'umanità, Tutti gli uomini hanno bisogno di essere redenti da altri e da sé stessi. Il proletariato è stato, è e sarà più che mai il fattore storico di questa universale emancipazione. Ma lo sarà tanto più quanto meno sarà fuorviato dalla demagogia che lo indora e ne diffida, che lo dice Dio per trattarlo da pecora, che gli pone sul capo una corona di cartapesta e io lusinga perfidiosamente per conservare, o per conquistare, su di lui il dominio.
Dittatura dei proletariato; formula equivoca quanto il popolo sovrano. La voce del proletariato non è vox Dei né latrato di cane, bensì voce di uomini, multicorde e discordante come ogni voce di collettività umana.
Il genio popolare non è un demiurgo né il caos, bensì grande fiume che straripa e qui distrugge e là feconda e tende a ritornare troppo presto nel letto antico.
La rivoluzione non è un'oligarchia di statue solenni in piazza motosa, bensì epica bellezza di collettivi eroismi, bassa-marea di collettive viltà, rigurgito belluino di delitto di folla, costruzione di un ordine novo in cui le élites tengono la squadra e il compasso e le moltitudini apportano i materiali, le braccia e l'esperienza artigiana.
Niente dittature, né del cervello sui calli, né dei calli sul cervello, ché ogni uomo ha un cervello e il pensiero non sta nei calli. Chi dà colpi di piccone contro il Privilegio è l'uomo dalla rivoluzione. Chi partecipa alla soluzione dei problemi della produzione e dello scambio con sicura competenza, con maturata esperienza e con onesto animo è l'uomo della rivoluzione. Chi dice chiaramente il proprio pensiero senza cercate applausi e senza temere le collere è l'uomo della rivoluzione.
Il nemico del popolo è il politicante, il parolaio che esalta il proletariato per esserne la mosca cocchiera, che esalta i calli per dispensarsi dal farseli o dal rifarseli, che denuncia come contro-rivoluzionario chiunque non sia disposto a seguire la corrente popolare nei suoi errori e gli sviluppi tattici del giacobinismo.
Dittatura del proletariato è concetto e formula d'imperialismo classista, equivoca ed assurda. Il proletariato deve sparire, non governare, il proletariato è proletariato perché dalla culla alla tomba è sotto il peso dell'appartenenza alla classe più povera, meno istruita, meno passibile d'individuale emancipazione, meno influente nella vita politica, più esposta alla vecchiaia e alla morte precoce, ecc. Redento da queste ingiustizie sociali, il proletariato cessa di essere una classe a sé. poiché tutte le altre classi sono spogliate dei loro privilegi. Che cosa permane allo sparire delle classi? Rimangono le categorie umane: intelligenti e stupidi, colti e semi-incolti, sani e malati, onesti e disonesti, belli e brutti, ecc..
Il problema sociale, da classista, si farà problema umano. Allora la libertà sarà in marcia e la giustizia sarà già concretata nelle sue principali categorie. La rivoluzione sociale, classista nella sua genesi, è umanista nei suoi processi evolutivi. Chi non capisce questa verità è un idiota. Chi la nega è un aspirante dittatore.