di Stefano d’Errico
Senza storia non c’è futuro. Come ora la linea politica di Matteo Salvini tocca anche la scuola, durante gli anni di piombo c’era il fermo di polizia e (ancora) il Codice (fascista) Rocco. All’epoca Sandro Galli, insegnante anarchico di Bologna, si oppose al giuramento di fedeltà alle leggi dello Stato, preteso ancora dalla Repubblica a ratifica dell’assunzione nella scuola, come prima dai Savoia e da Benito Mussolini.
Galli rigettò per la prima volta l’obbligo nel 1975 e così perse la cattedra di applicazioni tecniche. “Decaduto”, si ritrovò disoccupato. Potè riprendere a insegnare solo nel 1977, come precario, quindi venne assunto ma rifiutò di nuovo il giuramento. Il 12 maggio 1980 Galli cominciò un memorabile sciopero della fame. Trascorso circa un mese e mezzo, a causa di ripetuti collassi che lo esponevano a pericolo di morte, venne ricoverato d’urgenza, ma non sospese la lotta. Un po’ di tè, onde riattivare le difese immunitarie, e dal 10 luglio riprese la protesta in modo estremo, assumendo solo acqua e zuccheri. A metà agosto aveva perso quasi venti chili con conseguenze croniche sul suo corpo.
Fra le altre, Sandro Galli dichiarò: “Innanzitutto il giuramento ti esclude come lavoratore libero e ti rende a tutti gli effetti un coatto; considera poi che così viene sancito il tuo obbligo di eseguire qualsiasi ordine di un superiore (a meno che non sia palesemente in contrasto con altre leggi) come nell’ambito militare; e tutto ciò fa parte di quel retaggio legislativo fascista (Codice Rocco in testa) integrato nella normativa della Repubblica nata dalla Resistenza“.
In tutta Italia si moltiplicarono gli attestati di solidarietà. La lotta assurse alle cronache nazionali e moltissimi insegnanti spedirono ai rispettivi provveditorati lettere di revoca del giuramento. L’allora sindaco di Bologna, il comunista Renato Zangheri, andò a trovare Galli in ospedale e mise a disposizione un pullman del Comune perché la lotta potesse essere portata a Roma. Una delegazione venne ricevuta dal presidente della Repubblica, Sandro Pertini, che prese pubblicamente posizione, dichiarando il 29 giugno 1980 (testualmente) a il Resto del Carlino: “nessun insegnante in questo paese potrà più essere perseguitato perché si rifiuta di prestare giuramento di fedeltà alle leggi dello Stato. Io garantisco personalmente l’immediata validità di questa decisione”, auspicando “l’emanazione di un provvedimento che cancelli questa norma per via amministrativa” in modo da pervenire a una decisione “subito operativa”.
Zangheri si espose con un articolo di sostegno su la Repubblica. Il radicale Massimo Teodori presentò un disegno di legge, poi sostenuto anche da Achille Occhetto del Pci. Sandro non tentennò neppure all’indomani del 2 agosto, dopo la strage alla stazione di Bologna. Convocò la stampa e, richiamando il rifiuto di aderire a un giuramento nato da una legge del Ventennio nero, dichiarò: “proprio questa strage, di chiara matrice, richiede l’intensificazione del nostro impegno antifascista“.
Infine la lotta fu vittoriosa: la legge 116 del 30 marzo 1981 (Gazzetta Ufficiale n. 95 del 6 aprile 1981) abrogò il giuramento che faceva degli insegnanti dei parasubordinati, alla faccia della terzietà della scuola e della libertà d’insegnamento. Come ricorda il testo, il provvedimento venne approvato per “garantire che i comportamenti professionali dei docenti siano conformi a una corretta interpretazione delle norme che regolano l’esercizio della libertà di insegnamento, nel rispetto della Costituzione e degli ordinamenti della scuola stabiliti dalle leggi dello Stato nonché nel rispetto della coscienza morale e civile degli alunni”.
Sandro Galli è morto lo scorso anno, giusto in tempo per non vedere l’obbrobrio del ministro leghista Giulia Bongiorno (già difensore di Giulio Andreotti nel famoso processo per mafia caduto in prescrizione), che, in sintonia col governo “pentalegato”, si prefigge il ritorno del giuramento. Credo che il suo impegno non vada dimenticato in un Paese ove è solito trovare qualche “solone” capace di ribaltare la realtà.
Molto netta già nel titolo (il manifesto del 21 marzo 2011): “A 18 anni giurare fedeltà allo Stato? Non dovrebbero anche gli sposi”, ecco cosa scrisse Giancarla Codrignani, docente di letteratura classica, giornalista, politologa, femminista, nonché parlamentare per tre legislature. A proposito di un’altra delle ricorrenti boutade sul “piacere” dei giuramenti imposti, quelli che lei era stata obbligata a prestare la prima volta da bambina e la seconda da insegnante: “Ognuno vive ascoltando la propria coscienza. A proposito del 17 marzo [anniversario dell’Unità d’Italia, ndr], il manifesto ha pubblicato un interessante articolo del prof. Alberto Mario Banti che propone di celebrare il 2 giugno con un ‘rito di passaggio’ in cui ‘le ragazze e i ragazzi che nel corso dell’anno precedente hanno raggiunto la maggiore età giurassero lealtà alla Costituzione, atto necessario per il pieno esercizio dei diritti politici’. Personalmente ho giurato alle elementari di ‘difendere con tutte le mie forze fino allo spargimento del mio sangue la causa della rivoluzione fascista‘, giuramento evidentemente invalido e indecente perché prestato da una bambina; drammatico perché era preteso (ed era condizione di non licenziamento dal lavoro) da un popolo di presunti cittadini. Ma ho giurato anche entrando in ruolo nell’insegnamento. Alessandro Galli, un anarchico bolognese, si ridusse allo stremo con un digiuno a oltranza per cancellare il giuramento dei pubblici dipendenti e fu l’unico che, a mia conoscenza, come privato cittadino riuscì ‘da solo’ a indurre il Parlamento a revocare una norma ingiusta. Infatti l’atto di giurare non va sottovalutato. La Costituzione non è il Vangelo. Certo, ma anche quello nei suoi confronti è un impegno della coscienza, che deve essere laicamente educata a sentirsi libera. Se non si ha ‘conoscenza’ interiorizzata, a poco valgono i riti: si entrerebbe in un regime. Anche perché i fondamenti delle Costituzioni assumono valore giuridicamente concreto se tradotti in leggi. Quando il servizio militare era obbligatorio, si invocò l’obiezione di coscienza nei confronti di un principio costituzionale (nulla, dunque, a che vedere con l’obiezione di medici e farmacisti), quello della difesa della patria. Oggi l’articolo 10 fa a pugni con il rispetto dei rifugiati perché manca una legge sull’asilo”.
Giulia Bongiorno è latrice di un disegno di legge che, oltre a prevedere la reintroduzione del giuramento di fedeltà alle leggi per i docenti, imporrebbe anche la rilevazione delle impronte digitali per gli operatori scolastici. È proprio vero che in politica i peggiori sono parvenu e dilettanti: i primi perché per un minimo di notorietà farebbero qualsiasi cosa, mentre i secondi, per lo stesso motivo, creano l’ambiente utile agli altri per produrre guasti terrificanti (ed è questa l’immagine più adatta alla compagine giallo-verde). Il 17 maggio è previsto lo sciopero nazionale unitario di scuola, ricerca e università proclamato da Unicobas, Cobas, Anief e Cub contro la regionalizzazione (“secessione dei ricchi”). Ma si sciopera anche contro il ddl Bongiorno.