Con A in tasca
di Paolo Finzi
Nel coro generale (e un po’ sospetto) di rimpianto per la morte del cantautore più famoso in Italia, la voce dei suoi amici e compagni anarchici.
"È una parte di me che se ne va, un pezzo della
mia vita che ho perso per sempre" ha detto una nostra compagna ai microfoni
di chissà quale televisione, che la intervistava davanti alla chiesa, fuori
dalla chiesa genovese in cui mercoledì 13 gennaio si sono svolte le esequie
di Fabrizio De André. E tanta gente che conosco - di tanti "tipi" diversi -
si è riconosciuta e si riconosce in quelle parole.
Certo, non bisogna sottovalutare la potenza dei media, la loro capacità di
coinvolgimento, fino a provocare vere e proprie ondate di commozione
collettiva. Eppure le reazioni che ho sentito e percepito - all’indomani
della morte di Fabrizio - mi hanno profondamente colpito per il loro
spessore, oltre che per la loro quantità.
Siamo stati in tanti a renderci conto, pienamente, solo a morte avvenuta di
ciò che la sua opera ha rappresentato: non tanto per i momenti significativi
della vita di ciascuno di noi che le sue canzoni hanno accompagnato e
segnato (ognuno ha la sua: per me è la "Canzone dell’amore perduto" la
colonna sonora di quei momenti), quanto per l’impronta indelebile sul piano
culturale e socio-politico che la sua opera ha marchiato - in tante,
tantissime persone e, di conseguenza, nella società italiana di questi
ultimi decenni.
Sono convinto che - forse - solo De André sia riuscito a uscire dal mondo
della "canzonette" e dai suoi piani alti (quelli abitati dai cantautori doc)
per penetrare - grazie alle parole ed alla musica - nel tessuto profondo
dell’umanità, nei cuori e nei cervelli di tantissima gente. Che lo abbia
fatto lui, irriducibile cavaliere libertario, nemico delle convenzioni e
delle ipocrisie, antimilitarista, amico e studioso delle culture "altre",
dissacratore del sacro istituzionale (leggi Chiesa cattolica) - che lo abbia
fatto lui, orgogliosamente anarchico, è un dato di fatto per noi importante.
E fa di lui, ancora oggi, un nostro compagno nel senso più profondo del
termine: non quello di una comune "militanza politica" (che non c’è mai
stata, in senso stretto, anche se ci ha sempre fiancheggiato, ha bazzicato
gli ambienti libertari e si è spesso circondato di collaboratori che
c’entravano con l’anarchismo), ma quello - ben più pregnante - del comune
"sentire libertario", della ribellione contro le ingiustizie sociali, del
riferimento emotivo e culturale all’utopia di un mondo senza dogmi né
guerre, dello stare sempre e comunque "dall’altra parte" rispetto al potere,
a tutti i poteri.
Un mito in meno
Il nostro primo incontro fu all’hotel Cavour, nell’omonima piazza del
centro di Milano. Eravamo nei primissimi anni ‘70 e da mesi noi della
rivista cercavamo di metterci in contatto con Fabrizio De André, che in più
di un’occasione e di un’intervista si era definito "anarchico". Ed in quegli
anni di grande entusiasmo e di grandi necessità economiche questo era più
che sufficiente per scatenarci come segugi alla ricerca di contatti più
diretti, con il fine - nemmeno tanto nascosto - di "strappare" un concerto
di finanziamento.
C’eravamo riusciti alla grande con Francesco De Gregori. La serata con lui
al Teatro Uomo ci aveva visto fare il servizio d’ordine per impedire
l’entrata alla folla straboccante che si accalcava fuori: se li avessimo
fatti entrare, i vigili del fuoco avrebbero sospeso il concerto. E sul palco
era salito, inaspettatamente presente tra il pubblico, anche Giorgio Gaber,
in un’improvvisato trio - con la nostra Paola Nicolazzi - di "Addio Lugano
bella".
Ci saremmo riusciti di lì a poco con Franco Battiato, con una serata il cui
ricavato avrebbe dovuto andare alla solidarietà con la Spagna
anti-franchista (dico "avrebbe dovuto" perché Battiato era allora ai primi
passi ed il pubblico non accorse numeroso).
Dopo mesi di tampinamento della press-agent della sua casa discografica,
riuscimmo a fissare un appuntamento con Fabrizio: proprio con lui, quello
della ballate antimilitariste e dissacratorie, che già allora per molti di
noi era il cantautore più amato ed ascoltato. Mi ricordo che mi batteva il
cuore mentre, con il registratore pronto per l’intervista che contavo di
fargli, percorrevo i lunghi corridoi del lussuoso albergo.
Fabrizio ci accolse con grande simpatia, presentandoci Dori - che avremmo
avuto modo di conoscere meglio ed apprezzare negli anni successivi.
L’impatto, per me, fu forte. Era - forse - la prima volta in vita mia che
conoscevo quello che per me poco più che ventenne era un Mito. Non ricordo
bene che cosa mi aspettassi, ricordo però benissimo che uscii dopo qualche
ora da quella stanza d’albergo con un Mito in meno ed un amico in più.
Fabrizio ci spiegò, senza alcuna supponenza, il suo anarchismo, fatto di un
originale impasto di simpatia (nel senso etimologico del termine) per gli
esclusi, le vittime del potere e delle ingiustizie, i diversi, i vinti e di
puntuale conoscenza del patrimonio di pensiero e storico dell’anarchismo.
Aveva letto - e a volte amava citare - soprattutto Malatesta, ma anche
Stirner, Bakunin, Kropotkin, la storia della makhnovicina scritta da
Arscinov. Aveva ben presente la polemica tra comunisti autoritari e
libertari, lo scontro Marx-Bakunin, le persecuzioni anti-anarchiche dei
bolscevichi in Russia dopo il ‘17 e degli stalinisti in Spagna dopo il ‘36.
Ci parlò di alcuni compagni che conosceva, alcuni conosciuti nella storica
sede anarchica di piazza Embriaci (tuttora aperta), altri - a noi del tutto
ignoti - da lui conosciuti in chissà quali taverne o carruggi.
C’era di sicuro, in lui, una visione "romantica" dell’anarchismo,
identificato a volte tout court con la marginalità, con i reietti di questo
pianeta. Ma non c’era solo quella. Fabrizio conosceva la nostra storia, la
conosceva bene e se ne sentiva parte: a suo modo, come ciascuno di noi.
Anche se la parola mi suona oggi un po’ retorica e aiuta solo in piccola
parte a capire l’uomo ed il personaggio pubblico, sentii che era un
compagno.
La chiacchierata andò avanti a lungo, volle sapere della nostra attività
politica, della rivista. Eravamo certamente molto diversi per formazione,
stile di vita, frequentazioni. Eppure la voglia di comunicare fu tale che il
registratore rimase spento: l’intervista non si fece, non era cosa. Nacque
quella sera qualcosa di più importante: un’intesa che si sarebbe trasformata
in amicizia.
Ribelle e anarchico
Da allora, per un quarto di secolo, ci siamo visti e rivisti - a tratti
frequentemente, a volte mai per anni ed anni. La sua vita frenetica, le sue
abitudini, la sua professione, una predisposizione - così almeno la penso io
- alla precarietà e alla discontinuità, hanno fatto della nostra amicizia
una cosa decisamente strana. Ma il rapporto c’era ed era forte.
Fabrizio riceveva regolarmente la rivista, non poche volte se la ficcava in
tasca, in modo visibile, durante i concerti. Me lo ricordava qualche giorno
fa Vittorio, un compagno di Cremona, che lo notò una prima volta nel ‘74
durante un concerto a Casalmaggiore.
"Io non so se questa città ci sia un gruppo anarchico, se c’è lo saluto e
invito i suoi componenti a venirmi a trovare in camerino dopo il concerto".
Questa e tante altre dichiarazioni di adesione e di simpatia per
l’anarchismo e per gli anarchici in carne ed ossa Fabrizio era solito fare
dal palco. Giorgio di Arezzo mi parlava di un concerto a Firenze durante il
quale De André, ad un certo punto, salutò "l’anarchico Barsella", un
compagno ferroviere che aveva avuto modo di conoscere. Non il comunista tal
dei tali o il democristiano vattelappesca. No, l’anarchico.
E, tra i non pochi uomini di spettacolo che mi è capitato di sapere (o
leggere) collegati all’anarchismo, Fabrizio è certamente tra i pochissimi
che, come Leo Ferré e Julian Beck, ha voluto legare il suo nome al sostegno
di concrete iniziative anarchiche. Fabrizio ha fatto concerti
dichiaratamente, pubblicamente a sostegno della stampa anarchica; ha dato
soldi; ha seguito con interesse e partecipazione alcune nostre iniziative. E
lo ha fatto - me ne resi conto già quella prima volta all’hotel Cavour - con
modestia, con profondo rispetto per il nostro impegno militante, sempre
respingendo al mittente i nostri "grazie!" con la precisazione che al caso
era lui che avrebbe dovuto ringraziare noi per il nostro operato.
Ho voluto ricordare questi aspetti, poco noti anche nel nostro ambiente,
perché pur nel grande spazio che giustamente - inevitabilmente, vorrei dire
- i mass-media hanno dedicato a lui nei giorni della morte e dei funerali,
il suo anarchismo mi pare esser stato presentato sotto una luce decisamente
insufficiente, quando non errata. "Ribelle ed anarchico, ma con sentimento"
- ha titolato a tutta pagina il Corriere della Sera, che pure
nell’articolo di Mario Luzzatto Fegiz ricordava le sue frequentazioni
giovanili (e non solo) dei circoli anarchici di Genova e Carrara. Invece di
quel "ma", andava scritto "quindi": se non lo si capisce, non si può
comprendere niente degli anarchici e dello stesso De André.
A testa alta
"A forza di essere vento" è il sottotitolo scelto da Fabrizio per una sua
poesia sugli zingari, in "Anime salve". Mi colpiscono, ancora oggi, dopo
averla ascoltata infinite volte, la densità delle parole scelte, lo studio
attento e soprattutto la comprensione che dimostrano per le vicende di un
popolo quasi sconosciuto alla nostra cultura e che pure, quando viene
citato, è avvolto in una foschia di retorica e di luoghi comuni. Se ciò
avviene nel mondo della "cultura", figuriamoci in quello delle canzonette.
A me basta questo canto - e la scelta di affiancare alla poesia di Fabrizio
il coro khorakhané (con la struggente voce di Dori) - per considerare
Fabrizio qualcosa di radicalmente altro rispetto al mondo dei "cantautori",
da cui pure proveniva, e considerarlo una delle voci più incisive ed
originali della cultura libertaria in Italia.
Altri, ben più preparati del sottoscritto, mi auguro analizzeranno in
profondità il senso profondamente libertario, anarchico, della sua
produzione (come già fa Marco Pandin nel suo bell’articolo pubblicato dopo
questo). Lontano dalle mode, profondo nella comprensione, con una densità
culturale pari alla finezza del sentimento, De André ha contribuito a dar
vita e dignità a persone, popoli, idee che grazie a lui - ed ai
collaboratori di grande spessore di cui ha saputo circondarsi - hanno potuto
trovare nelle sue poesie in musica un avvocato difensore, un "propagandista"
onesto, un vendicatore contro i torti della storia.
Sardi, indiani d’America, tossici, drogati, puttane, poeti, anarchici,
detenuti, sofferenti, ribelli, zingari: sono loro parte di quell’umanità
soggiogata ma non doma, forte spesso solo della propria dignità e coerenza,
che attraversano a testa alta l’intera sua opera. Che si esprimano in
genovese o in italiano, in sardo o in romanesh, sono loro ad avere l’ultima
parola.
E noi, con il nostro impegno editoriale, siamo sulla stessa lunghezza
d’onda. Come il nostro amico, compagno, sostenitore Fabrizio sentiva e
sapeva.
Paolo Finzi