Quale pedagogia
di Francesco Codello
Porsi il problema della divisione del lavoro significa
innanzitutto analizzare la sua genesi e la relazione che intercorre tra
questa dicotomia e la nascita, lo sviluppo e la riproduzione delle classi
sociali. A questo proposito ritengo utile partire dall'essenziale contributo
di alcuni classici del pensiero anarchico e libertario e confrontarli con
alcune analisi di Marx. È necessario premettere che nello stendere queste
note volte più a sollevare problemi che ad affermare certezze, intendo
procedere analizzando la divisione del lavoro nella sua dimensione
pedagogica.
Parlare di divisione "capitalistica" del lavoro mi sembra sbagliato sia
storicamente che ideologicamente, mentre mi sembra molto più corretto
parlare di divisione "gerarchica" del lavoro sociale. Questa precisazione,
lungi dall'essere formale, è essenziale per comprendere il significato
complessivo del mio discorso. In questo senso il pensiero libertario ha
decisamente impostato il problema in modo più completo ed esauriente di
quanto non abbia fatto il marxismo. Infatti il grande passo in avanti
compiuto dai pensatori libertari rispetto a quelli marxisti è consistito
proprio nell'aver compreso e analizzato le cause costanti dello
sfruttamento e dell'oppressione e non le sue variabili. Il
capitalismo, infatti, è una variabile storica dello sfruttamento, mentre la
divisione gerarchica del lavoro sociale è ad esso precedente, né scompare
con la fine dell'economia di mercato. In URSS, in Cina e negli altri paesi
del "socialismo reale", la divisione gerarchica del lavoro non solo continua
ad esistere, ma evidenzia il formarsi e il consolidarsi di una nuova classe
dirigente che proprio su questa divisione fonda il proprio potere. Il lavoro
intellettuale, come la cultura urbana, è fonte di privilegi rispetto al
lavoro manuale e alla cultura contadina; privilegi che non sono solo di
natura economica, ma anche politica, dando l'opportunità di poter usufruire
di determinati servizi e vantaggi.
Anche secondo una prospettiva antropologica si dimostra la preminenza del
politico sull'economico. Pierre Clastres, nel suo ormai celebre saggio
La società contro lo Stato, ha dimostrato chiaramente come il passaggio
dalle società "primitive" a quelle "civili" sia dovuto non tanto a fattori
di carattere economico quanto alla comparsa dello stato e quindi della
divisione gerarchica del lavoro. Scrive Clastres: "Non il mutamento
economico, ma l'organizzazione politica è, dunque, il fattore decisivo.... E
se si vogliono conservare i concetti marxisti di infrastruttura e di
sovrastruttura, bisogna forse essere disposti a riconoscere che
l'infrastruttura è il politico, che la sovrastruttura è l'economico. Un solo
sovvertimento, strutturale, abissale, può trasformare, distruggendola in
quanto tale, la società primitiva: quello che fa sorgere dal suo seno, o
dall'esterno, ciò la cui assenza stessa definisce quella società, l'autorità
della gerarchia, la relazione di potere, l'assoggettamento degli uomini, lo
Stato.
Il pensiero libertario ha esaurientemente spiegato la relazione che
intercorre tra divisione gerarchica del lavoro e formazione delle classi da
un lato, e tra integrazione del lavoro manuale ed intellettuale e abolizione
delle classi dall'altro, dimostrando inoltre che questa separazione è una
costante di ogni società autoritaria e classista e che l'origine di questa
dicotomia non è il capitalismo, né la proprietà privata dei mezzi di
produzione, la quale altro non è che una forma giuridico-economica
storicamente determinata. In questo modo risulta evidente il rifiuto della
tradizionale impostazione marxista del problema in cui si afferma che
"divisione del lavoro e scambio sono configurazioni della proprietà privata"
o che "i diversi stadi di sviluppo della divisione del lavoro sono
altrettante forme diverse della proprietà". Scrive ancora Marx: "Del resto
divisione del lavoro e proprietà privata sono espressioni identiche: con la
prima si esprime in riferimento all'attività esattamente ciò che con l'altra
si esprime in riferimento al prodotto dell'attività".
Occupiamoci ora, brevemente, della relazione che intercorre tra la divisione
del lavoro e il problema della dimensione, nonché tra la divisione del
lavoro e la meritocrazia. È chiaro che nella grande dimensione, nella
complessità di un'organizzazione estesa, sia impossibile parlare di
integrazione del lavoro, di rotazione degli incarichi e di rifiuto della
specializzazione. Dando per scontato che la grande dimensione non possa
permettere, pena il suo decadimento, l'integrazione e la "mobilità" del
lavoro, è nella piccola dimensione che può invece essere superata la
divisione del lavoro, grazie al controllo diretto e costante dei membri
sulla comunità.
È evidente che non basta ridurre la dimensione dell'organizzazione sociale
per superare questa dicotomia, ma certamente questa riduzione ne è una
condizione essenziale. Ecco perché, nei giovani d'oggi, accanto alla domanda
generalizzata di lavoro intellettuale, vi è anche la richiesta esplicita di
un controllo totale sul lavoro svolto e la ricerca di una continua verifica
sperimentabile sul prodotto del proprio lavoro. L'assenteismo non è che la
risposta, spontanea e inconscia, ad un lavoro estraneo, parcellizzato e
burocratizzato. Nella piccola dimensione è dunque possibile recuperare le
"finalità del proprio lavoro" grazie alla rotazione ed alla integrazione
verticale del lavoro. A mio avviso, non è possibile parlare di rotazione
orizzontale, in quanto essa non porterebbe ad una professionalizzazione
necessaria e non contraddittoria con l'integrazione del lavoro manuale ed
intellettuale. Integrazione in senso verticale quindi, nell'ambito cioè di
una stessa professione o all'interno di ruoli professionali collegati (ad
esempio fra medico e infermiere).
Obiettivo primario di un'educazione realmente innovatrice e emancipatrice è
quindi di sviluppare nei fanciulli la capacità di scomporre i processi
lavorativi, la capacità di praticare in ogni momento questi processi, la
capacità manuale di costruire i vari strumenti necessari. Ovviamente ciò
relativizzato all'età e al grado di conoscenze dei bambini. Ciò presuppone
però il rifiuto della concezione elitaria della cultura a favore di una
concezione liberatrice e problematica. L'insegnamento scientifico dovrebbe,
tra l'altro, dimostrare l'interdipendenza tra conoscenze e azione e quindi
l'insegnamento delle scienze e quello della tecnologia, strettamente
collegati, dovrebbero indicare i modi con cui si passa dalla ricerca agli
sviluppi e alle applicazioni. Al contrario, i sistemi educativi attuali
introducono tra le due discipline una vera cesura, pregiudizievole per una e
per l'altra. Nel quadro generale dell'insegnamento i programmi lasciano più
spazio alle scienze che alla tecnologia. Così la scienza, separata dalla
pratica, viene sterilizzata con il pretesto di aumentarne il prestigio e
perde molta della sua efficacia come strumento educativo.
Le conoscenze tecniche rivestono un'importanza vitale nel mondo moderno e
devono trovare posto nell'istruzione di base di ciascuno. L'ignoranza della
tecnica lascia sempre più l'individuo alla mercè degli altri nella vita
quotidiana, ne riduce la creatività e porta all'accettazione acritica degli
effetti nocivi derivati da sconsiderate applicazioni tecnologiche.
L'insegnamento della tecnologia a livello teorico dovrebbe consentire a
ciascuno di trovare i mezzi con cui mutare l'ambiente che lo circonda. Sul
piano pratico una rudimentale conoscenza dei processi tecnologici,
consentirà all'individuo di valutare i prodotti della tecnica, di sceglierli
e farne un uso migliore. Nell'insegnamento attuale lo studio della
tecnologia non è affatto affrontato in maniera sistematica dal punto di
vista concettuale, né si tenta di far comprendere in che modo la tecnologia
può essere utile all'individuo e alla società. Occorrerebbe invece
presentare la tecnologia come il processo di trasformazione della materia
attraverso l'impiego di energie e l'uso di particolari accorgimenti. Poi con
approccio unificato ed interdisciplinare, occorrerebbe analizzare i principi
su cui poggia ogni trasformazione semplice o complessa e dimostrare che la
tecnologia interessa tutto ciò che l'uomo fa per modificare il mondo in cui
vive.
I sistemi di insegnamento di quasi tutte le società, sviluppate o in via di
sviluppo, svalutando il lavoro manuale, contribuiscono a mantenere la
discriminazione tra formazione intellettuale e formazione pratica. Troppo
spesso i programmi riservano la formazione manuale agli alunni meno dotati.
Vediamo ora di affrontare le connessioni esistenti tra divisione del lavoro,
eguaglianza e meritocrazia. I sistemi scolastici post-industriali
caratterizzati dalla ricerca del talento e dalla "filosofia dell'uguaglianza
delle opportunità educative" hanno in comune una fede autoritaria che supera
le differenze ideologiche: la meritocrazia.
Obiettivo delle società post-industriali resta quello di "fornire alle
nazioni un numero sufficiente di persone altamente dotate ed istruite per la
ricerca e lo sviluppo tecnologico, e di personale competente per le altre
occupazioni che richiedono abilità intellettuali", viste le esigenze
organizzative ed economiche necessarie per il mantenimento
dell'organizzazione gerarchica. In questo senso va vista ed analizzata
l'utilizzazione del Q.I. (Quoziente d'intelligenza), in un'ottica
meritocratica tipica dei "nuovi padroni", i quali fondano la loro supremazia
e legittimano la loro posizione sociale, proprio nella proprietà di classe
delle conoscenze tecniche e scientifiche "indispensabili" al funzionamento
dell'intera organizzazione sociale. Ecco perché ricerca del talento e
uguaglianza delle opportunità sono usate nelle società post-industriali come
mezzi per il mantenimento dello status quo. La quantificazione
dell'intelligenza, attraverso l'uso dei tests e del Q.I., si risolve in una
quantificazione di un certo tipo di intelligenza, e quindi il Q.I. è
utilizzato per giustificare il sistema di produzione e le relazioni sociali
dominanti. L'ideologia del Q.I. serve a "legittimare la divisione gerarchica
del lavoro; è funzionale a un'ottica generale tecnocratica e meritocratica
del sistema di stratificazione che tende a legittimare i criteri di
assegnazione degli individui ai vari livelli della gerarchia; contribuisce a
conciliare i lavoratori con le loro posizioni economiche definitive,
principalmente tramite l'esperienza scolastica con la sua apparente
obiettività, il suo orientamento meritocratico e la sua efficienza tecnica
nel fornire il necessario bagaglio cognitivo della forza lavoro". Questo non
significa ovviamente misconoscere l'utilità e l'importanza del Q.I. nel
dissipare l'eterna diatriba tra condizionamento sociale ed ambientale e
condizionamento genetico. Sta di fatto, comunque, che la meritocrazia non è
altro che una nuova concezione autoritaria che giustifica con strumenti
"scientifici" una nuova forma di potere e una divisione gerarchica del
lavoro sempre più marcata e sempre più irreversibile.
Nel realizzare il principio di eguaglianza di opportunità (che nessuno mette
in discussione) per favorire lo sviluppo dei talenti in funzione di una
sempre più gerarchizzata divisione del lavoro, si nasconde il pericolo di
una nuova diseguaglianza. Una realizzazione sistematica di questa politica
"potrebbe, nel lungo periodo, condurre a una società con una meritocrazia
ereditaria, perché a prescindere dal grado di purificazione del patrimonio
genetico, i genitori i quali inizialmente gliel'hanno fatta a introdursi
nella meritocrazia potrebbero trasmettere ai propri figli i loro vantaggi
sociali (e genetici)". Ciò è puntualmente avvenuto nei paesi del "socialismo
reale" dove l'appartenenza all'intellighenzia è di per sé veicolo di accesso
ai gradi superiori dell'istruzione e quindi del potere. In pratica si è
verificata una ereditarietà delle funzioni. Ciò avviene anche nei paesi
capitalisti seppur, per certi aspetti, con modalità diverse a seconda del
grado di sviluppo tecnologico dei singoli stati. Il privilegio, oltre che
attraverso la divisione gerarchica del lavoro, si esplica anche nel rapporto
città-campagna. "Il carattere formale e arbitrario della distinzione tra
manuali e non manuali, sulla quale si fonda in gran parte l'attribuzione del
privilegio, trascura le frontiere reali tra i gruppi concreti; per esempio,
il figlio di un impiegato che viva in una azienda agricola di stato isolata
è penalizzato in confronto al figlio di un operaio della capitale, dato che
il contesto culturale della grande città costituisce un vantaggio decisivo
nella preparazione degli esami, se si fa il conto con le possibilità che
offre l'ambiente di campagna".
I sistemi scolastici post-industriali affermano l'uguaglianza di opportunità
e giustificano la selezione ma nella competizione che di conseguenza nasce e
si sviluppa fra gli individui non si tiene conto che "le doti agonistiche"
degli alunni sono probabilmente anch'esse un prodotto dell'ambiente e/o
comunque pesantemente condizionate da questo. Ecco perché oggi si è
preferito spostare il livello di selezione sostituendo, come osserva Aldo
Visalberghi, "al principio dell'uguaglianza di trattamento quello della
discriminazione positiva" che consiste nel dare di più a coloro i quali meno
hanno in partenza. In questo senso oggi si parla di "eguaglianza di
risultati" piuttosto che di "eguaglianza di opportunità". Questo fatto ha
delle ripercussioni evidenti sul problema della divisione gerarchica del
lavoro. Infatti questa eguaglianza di risultati presuppone un punto
d'arrivo, sicuramente più avanzato di una volta, che delimiterà il tetto di
conoscenze comuni e specialistiche al di là del quale si intravvede più una
nuova gerarchizzazione che una effettiva uguaglianza. In pratica non si fa
che spostare, mano a mano che cresce la domanda generalizzata di istruzione,
il livello massimo entro il quale si iscrive l'uguaglianza. Sino a questa
soglia gli individui sono uguali, al di là vi sono i più uguali.
La scuola è profondamente cambiata, sono radicalmente cambiati i suoi
obiettivi ma sono mutate anche le condizioni generali su cui si inserisce
l'opera educativa. Dopo la fine del secondo conflitto mondiale, la scuola è
diventata una voce importante della spesa pubblica complessiva. In termini
di bilancio essa occupa il secondo posto nelle spese pubbliche mondiali,
subito dopo le spese militari. La scuola risulta ormai un fattore essenziale
in ogni sforzo di sviluppo e di progresso umano ed occupa un posto sempre
più importante nell'elaborazione delle scelte politiche nazionali ed
internazionali. Ai nostri giorni si manifestano tre fenomeni più o meno
diffusi:
1) mentre nel passato lo sviluppo della scuola aveva quasi sempre seguito e
mai preceduto lo sviluppo economico (soprattutto nei paesi europei che hanno
messo in moto il processo di rivoluzione industriale) oggi, invece, lo
sviluppo della scuola tende a precedere lo sviluppo economico (Giappone,
URSS, USA);
2) per la prima volta nella storia la scuola lavora consapevolmente a
preparare gli uomini per modelli di società che non esistono ancora. Questa
tendenza si osserva nei paesi che in seguito a profonde trasformazioni e
all'accesso al potere di nuove forze sociali e politiche, hanno avviato
l'organizzazione di una società radicalmente mutata. Essa si osserva anche
nei paesi dotati di ampi mezzi tecnologici che hanno concepito un nuovo
progetto umano senza tuttavia subire improvvisi mutamenti politici;
3) la contraddizione che si manifesta tra i prodotti della scuola e i
bisogni della società. In effetti mentre fino a qualche tempo fa le società
ad evoluzione lenta assorbivano facilmente i prodotti della scuola, oggi,
per la prima volta nella storia, in diverse società si verifica il rigetto
di gran parte dei prodotti offerti dalla scuola istituzionale.
Ormai sono comparse altre fonti di promozione informativa, di "educazione":
la tv, il cinema, ecc., sono agenti importanti nella formazione delle
mentalità infantili (non solo ma soprattutto). Ciò nonostante riteniamo che
la scuola svolga ancora una funzione rilevante in quel processo che
chiameremo "educazione al consenso". La scuola tradizionale, quella
riferibile ad un modello dominante fino all'epoca del boom economico degli
anni 60, svolgeva un ruolo ben preciso: quello di selezionare la classe
dirigente. Con l'avvento della scolarizzazione di massa, la scuola non ha
più come obiettivo primario quello di formare i quadri della futura classe
dirigente, giacché è stata svuotata dei contenuti più qualificanti; inoltre
il crescere della domanda di istruzione ha prodotto un surplus di possibili
dirigenti. I protagonisti delle future direzioni aziendali, politiche,
sindacali vengono formati in appositi corsi post-universitari di grosse
aziende (Fiat, Olivetti, IBM) e non nelle università ormai esautorate di
ogni capacità formativa in senso dirigenziale. La scuola di massa svolge
quindi una funzione diversa, una funzione di formazione ideologica dei
discenti, un'"educazione al consenso generalizzata".
Si può quindi constatare, a questo punto, che la scuola attuale è
completamente svincolata dal mercato del lavoro, che i titoli di studio
hanno valore legale ormai solo formalmente, che gli obiettivi sono
essenzialmente di socializzazione ideologica. In questo contesto crediamo
vadano interpretati i decreti delegati e i tentativi di lavoro didattico
alternativo che spesso hanno inquinato il significato della parola
antiautoritarismo. In questo senso la scuola oggi non serve più a produrre e
legittimare la divisione gerarchica del lavoro, a creare cioè la professione
intellettuale decisamente staccata da quella manuale, ma solo a prolungare
l'inizio della disoccupazione. Ecco perché i progetti pilota della Comunità
Europea di integrazione fra studio e lavoro appaiono più palliativi
inefficaci, intrisi di una logica interna al sistema di condizionamento, che
reali esempi di integrazione del lavoro. Così le teorie pedagogiche fondate
sulla polivalenza dell'educazione permanente non sfuggono alla logica sopra
accennata. L'educazione permanente sembra infatti essere concepita dagli
esperti di problemi educativi e dai tecnici e burocrati della organizzazione
aziendale "come una garanzia in ordine al migliore adattamento del
lavoratore alle richieste di prestazioni già predeterminate dalla meccanica
delle organizzazioni sociali e produttive esistenti".
Occupiamoci ora di definire il rapporto che intercorre tra l'integrazione
del lavoro, lo sviluppo armonico di ogni potenzialità umana e il ruolo del
lavoro e della dimensione estetica nella formazione del bambino. Sono
profondamente convinto che uguaglianza e diversità non siano concetti
contrapposti, ma che nel realizzarsi della prima si esalti la seconda.
Grazie alla diversità naturale "l'umanità - osserva Bakunin - diviene un
tutto collettivo in cui ciascuno completa tutti e ha bisogno di tutti; di
modo che questa infinita diversità degli individui umani è la causa stessa,
la base principale della loro solidarietà, e un argomento onnipotente a
favore dell'uguaglianza.... Nella loro immensa maggioranza gli uomini non
sono identici ma equivalenti e perciò uguali". Perciò ritengo che
l'istruzione di ogni grado deve essere uguale per tutti, integrale, vale a
dire che essa deve "preparare ogni fanciullo dei due sessi sia alla vita del
pensiero che a quella del lavoro affinché tutti possano diventare in egual
maniera degli uomini completi.... Nell'istruzione integrale a lato
dell'insegnamento scientifico o teorico dev'esserci necessariamente
l'insegnamento industriale o pratico. Soltanto così si formerà l'uomo
completo: il lavoratore che capisce e che conosce". Rifiuto della divisione
gerarchica del lavoro, integrazione del lavoro manuale con quello
intellettuale, sono al contempo non solo il risultato verso cui tendere, ma
anche condizione ineluttabile per estendere sempre più l'uguaglianza
nella diversità.
Vi è comunque un rapporto logico tra l'integrazione del lavoro manuale ed
intellettuale e l'occupazione della giornata di ogni uomo che, secondo
Kropotkin, deve essere dedicata all'arte e alla scienza. Per fare questo è
necessario che tutti lavorino in modo che la società risulti abbastanza
ricca da sollevare "uomini e donne, una volta raggiunta una certa età...
dall'obbligo morale di partecipare direttamente all'esecuzione del
necessario lavoro manuale, e per consentir loro di votarsi interamente
all'arte, alla scienza o a qualsiasi altra occupazione. In questo modo
sarebbe pienamente garantita la libera ricerca in nuovi rami del sapere e
dell'arte, la libera creazione e il libero sviluppo individuale". Questo
enunciato non resta e non deve restare solo l'obiettivo perseguibile ma
diventa contemporaneamente un mezzo fondamentale per il conseguimento
dell'obiettivo. Vi è quindi ancora una volta il superamento della concezione
marxista che, seppur considerando la progressiva riduzione del tempo da
dedicare al lavoro (seppur liberato) a favore delle espressioni più
genuinamente artistiche, rimanda l'attuazione di questo progetto alla futura
società comunista. Sintesi di mezzi e fini: ecco una caratteristica costante
del pensiero libertario.
Il lavoro quindi va visto e considerato positivamente in quanto è
espressione artistica e in questo senso è evidente la sua positività nei
processi educativi. Esso deve mirare alla elaborazione di oggetti semplici,
controllabili continuamente e facilmente scomponibili per permettere ai
bambini di sentirsi utili, impedendo lo svilupparsi del processo di
estraneazione tipico di un lavoro avvilente l'individualità degli uomini. In
questo contesto, crediamo vada riscoperta la funzione liberante del "gioco
per il gioco" rifiutando il gioco stesso, e i mezzi che in genere vengono
adoperati per attuarlo, quando limitano la fantasia e la creatività dei
bambini perché utilizzabili unicamente in una sequenza ordinata di
operazioni. In questo modo noi rifiutiamo anche il ruolo che la società
autoritaria assegna al "gioco produttivo" come mezzo per l'inserimento in
strutture gerarchizzate e niente affatto liberanti. L'integrazione del
lavoro quindi non è sufficiente se non si concepisce il lavoro come
strumento e mezzo per l'emancipazione individuale e collettiva, e se non si
considera anche e soprattutto l'arte come mezzo fondamentale per esprimere
le potenzialità umane. L'arte quindi come fondamento di una educazione che,
superando la divisione gerarchica del lavoro a favore di una sua
integrazione, si ponga come obiettivo quello di evidenziare le differenze
individuali attraverso le infinite forme espressive per raggiungere di fatto
la completa uguaglianza degli uomini. Ha scritto H. Read: "L'educazione può
perciò essere definita come un processo rivolto a coltivare i modi
dell'espressione, insegnando a bambini ed adulti come produrre suoni,
immagini, movimenti, strumenti ed utensili". Solo in questa prospettiva è
possibile, a mio avviso, attuare nella pienezza del suo significato
un'educazione "motivata" che sulle motivazioni all'apprendere fondi il suo
sviluppo, caratterizzando quel processo di "educazione incidentale" (la
definizione è di Paul Goodman) che dalla Grecia antica alle più moderne
teorie descolarizzatrici ne ha costituito e ne costituisce l'essenza.