Il marxismo come ideologia borghese
di Murray Bookchin (traduzione dalla
rivista trimestrale "Our Generation", vol. 13, n. 3, edita a Montreal,
in Canada)
Il marxismo, forse il più notevole tentativo di
demistificazione della società borghese, si è rivelato a sua volta la più
astuta e sottile mistificazione del capitalismo della nostra epoca. Non mi
riferisco, con ciò, al "positivismo" latente nel pensiero di Marx, né a un
riconoscimento a posteriori dei suoi "limiti storici". Una seria critica del
marxismo deve prendere le mosse dalla sua intrinseca natura di prodotto più
avanzato - anzi, di momento culminante - dell'Illuminismo borghese. Non è
più sufficiente vedere in Marx un punto di partenza per la nuova critica
sociale, accettare la validità del suo "metodo" nonostante il contenuto
limitato che poteva abbracciare nel suo periodo storico, considerarne
liberatori gli obiettivi scindendoli dai mezzi e attribuirne gli errori e le
manchevolezze ai seguaci e agli epigoni.
In realtà, il "fallimento" di Marx nella creazione e nello sviluppo di una
critica radicale del capitalismo e di una pratica rivoluzionaria non si può
neppure definire tale nel senso di un'impresa inadeguata agli obiettivi che
si era proposti. Al contrario, nei suoi aspetti migliori, il marxismo
tradisce se stesso, poiché assimila inavvertitamente i caratteri più dubbi
del pensiero illuminista ed è sorprendentemente vulnerabile dalle sue
implicazioni borghesi. Nei suoi aspetti peggiori, invece, la teoria marxista
rappresenta l'apologia di un'epoca storica nuova, testimone della fusione
tra "libero mercato" e pianificazione economica, tra proprietà privata e
proprietà nazionalizzata, tra competitività e manipolazione oligopolistica
della produzione e dei consumi, tra economia e stato - in breve, l'epoca
moderna del capitalismo di stato. La sorprendente congruenza del "socialismo
scientifico" di Marx - un socialismo che considerava la razionalizzazione
economica, la pianificazione produttiva e lo "stato proletario" come
obiettivi prioritari del progetto rivoluzionario - con l'intrinseco sviluppo
del capitalismo verso il monopolio, verso il controllo politico e verso un
apparente "stato di benessere" ha già fatto sì che alcune sue correnti
istituzionalizzate, come la social-democrazia e l'eurocomunismo,
contribuissero attivamente alla stabilizzazione di un'epoca di grande
razionalizzazione del capitalismo. In effetti, ci basta una lieve modifica
prospettica per essere in grado di valerci dell'ideologia marxista per
definire "socialista" l'era capitalista in cui viviamo.
Questa mutazione prospettica può essere liquidata come "volgarizzazione",
come "tradimento" del marxismo? Oppure realizza in pieno le tesi principali
di Marx - secondo una logica che Marx stesso non fu in grado di cogliere?
Quando Lenin descrive il socialismo come "nulla più che un monopolio
capitalista di stato volto a favore del popolo", volgarizza anch'egli il
pensiero marxista e ne contamina l'integrità? O rivela invece le premesse
che vi sono insite, e che ne fanno, storicamente, l'ideologia più
sofisticata del capitalismo avanzato? Il senso di queste domande consiste
nell'appurare se esistono elementi condivisi da tutti i marxisti, tali da
costituire una base reale per la socialdemocrazia, l'eurocomunismo e le idee
di Lenin. Una teoria che viene così spesso "volgarizzata", "tradita" e,
peggio, istituzionalizzata in forme di potere burocratico da quasi tutti i
suoi seguaci fa pensare che questi suoi "tradimenti" siano, tutto sommato,
una condizione normale della sua esistenza. Ciò che appare come una
"volgarizzazione", un "tradimento" e una manifestazione burocratica nel
fervore incandescente delle dispute dottrinali può invece rivelarsi, alla
fredda luce della storia, una fedele realizzazione dei suoi obiettivi. In
ogni caso, oggi, tutti i ruoli storici sembrano essere stati male assegnati.
Può darsi che non sia il marxismo a doversi rinnovare per mettersi
nuovamente al passo con le fasi più avanzate del capitalismo, ma invece
queste ultime, nelle società borghesi più tradizionali, a dover guadagnare
ancora terreno per raggiungere il marxismo, la più sofisticata anticipazione
ideologica dello sviluppo capitalista.
Sia ben chiaro che non si tratta di un gioco di parole puramente accademico.
La realtà offre esempi paradossali e incontestabili, più ancora della
storia. La bandiera rossa sventola su un mondo di nazioni socialiste che si
fanno guerra tra loro, mentre al di fuori dei loro confini i partiti
marxisti si preparano a un mondo sempre più orientato verso il capitalismo
di stato e che, per colmo d'ironia, funge da arbitro tra i paesi socialisti
in lizza - o si allinea con loro. Il proletariato, come la plebe del mondo
antico, gode di una partecipazione attiva a un mondo, la cui maggiore
minaccia è rappresentata da una popolazione diffusa e frammentaria di
intellettuali, cittadini, femministe, omosessuali, ecologisti - in breve, da
una popolazione trans-classica, che esprime gli ideali utopici di
rivoluzioni democratiche ormai sepolte nella notte dei tempi. Dire che oggi
il marxismo non tiene in nessun conto questa costellazione non-marxista
significa peccare di eccessiva generosità nei confronti di un'ideologia che
è divenuta l'impersonificazione "rivoluzionaria" dello stato capitalista
reazionario. Le caratteristiche strutturali del marxismo si adattano
perfettamente a relegare questi nuovi fenomeni nell'oscurità, a distorcerne
il significato e, se vi sono altre possibilità, a ridurli a categorie
economiche.
Dal canto loro, i paesi e i movimenti socialisti non sono meno "socialisti"
per le loro "distorsioni" che per i "risultati" che dichiarano di aver
conseguito. Anzi, le "distorsioni" acquistano maggior significato dei
"risultati", perché rivelano inequivocabilmente l'apparato ideologico che
serve a mistificare il capitalismo di stato. Di conseguenza, è più che mai
necessario analizzare questo apparato, scoprirne le radici, svelarne la
logica e bandirne lo spirito dalla causa rivoluzionaria. Illuminato dal
fuoco spietato della critica, apparirà quale realmente è - non
"incompletezza", "volgarizzazione", "travisamento", bensì l'essenza storica
della controrivoluzione, di quella controrivoluzione che, più di ogni altra
ideologia dai tempi del Cristianesimo ad oggi, ha usato efficacemente
l'illusione libertaria per soffocare la libertà.
Marxismo e dominazione
La convergenza tra illuminismo e marxismo è tale che entrambi sembrano
condividere una concezione scientistica della realtà. Ciò che spesso svia i
critici dello scientismo marxista, tuttavia, è la misura in cui il
"socialismo scientifico" oggettivizza l'idea rivoluzionaria, privandola
perciò di ogni contenuto etico e di ogni finalità. I recenti tentativi, ad
opera di alcuni neo-marxisti, di infondere in questa dottrina una
significato psicologico, culturale e linguistico, affrontano candidamente il
problema sul terreno stesso della teoria marxista, senza sfiorarne
l'intrinseca natura. Perciò, per quanto la loro opera possa risultare utile
in termini rigorosamente scientifici, essi contribuiscono, consciamente o
inconsciamente, a perpetuare il carattere mistificante del marxismo. Di
fatto, dal punto di vista della metodologia scientifica, il marxismo può
essere letto in molti modi diversi. Il celebre paragone che Marx traccia,
nella prefazione a Il capitale, tra la sperimentazione del fisico
che riproduce allo "stato puro" i fenomeni naturali e la scelta dell'autore
di collocare in Inghilterra il locus classicus del capitalismo
industriale del suo tempo, rivela chiaramente una predisposizione
scientifica, ulteriormente confermata dall'affermazione, secondo cui Il
capitale avrebbe rivelato le "leggi naturali" del "movimento economico"
del capitalismo; secondo la quale, inoltre, l'opera avrebbe affrontato il
problema della "formazione economica della società (non solo del
capitalismo - n.d.B.)... come processo storico naturale...". D'altra
parte, queste affermazioni sono controbilanciate dal carattere dialettico
dei Grundrisse e dello stesso Il capitale, dialettica che
indaga sulle trasformazioni interne della società capitalista da un punto di
vista organico e immanente, che mal si accorda con la concezione che ha il
fisico della realtà.
Ciò che contribuisce decisamente ad unire in Marx lo scientismo del fisico
alla dialettica, tuttavia, è lo stesso concetto di "legge" - il preconcetto
secondo il quale la realtà sociale e la sua traiettoria si possono spiegare
in termini tali da rimuovere dal processo sociale ogni idea umana, ogni
riflusso culturale e, significativamente, ogni fine etico. Marx chiarisce la
funzione di queste "forze" culturali, psicologiche ed etiche in modo tale
che esse appaiano contingenti alle "leggi" che agiscono oltre la volontà
dell'uomo.
Le volontà degli uomini, interagendo e ostacolandosi a vicenda, si "elidono"
l'una con l'altra e consentono al "fattore economico" di determinare
liberamente il corso degli eventi. O, per dirla nei termini magniloquenti
usati da Engels, queste volontà comprendono "innumerevoli forze
intersecantesi, una serie infinita di parallelogrammi di forze da cui
scaturisce un'unica risultante - l'evento storico.". Perciò, alla lunga,
"sono le forze economiche a prevalere" (lettera a J. Bloch). Non è per nulla
chiaro se Marx, che prendeva a paradigma il laboratorio del fisico, fosse
d'accordo con la geometria sociale di Engels. In ogni caso, ciò che
interessa non è stabilire se le "leggi" sociali siano o meno dialettiche. Il
fatto è che esse costituiscono una base consistente e oggettiva per
lo sviluppo sociale, caratteristica dell'approccio illuministico alla
realtà.
Dobbiamo fermarci a considerare con attenzione tutte le implicazioni del
fenomeno sopra descritto in quella che potremmo chiamare la "teoria della
conoscenza" di Marx. Anche nella filosofia greca era presente un concetto di
legge, ma più nel senso di "destino", di moira, che di "necessità"
come oggi la intendiamo. Nella moira era insito il concetto di
"necessità" sorretta da un significato, da un fine eticamente
condizionato, stabilito dal "destino". La realizzazione pratica del
"destino" era compito della giustizia, o dike, che preservava
l'ordine del mondo mantenendo tutti gli elementi del cosmo entro i confini
assegnati. La natura mitica di questa concezione della "legge" non deve
impedirci di coglierne i profondi contenuti etici. "Necessità" non significa
semplicemente necessità, ma necessità morale, con un
significato e uno scopo. Se la conoscenza umana ha il diritto
di presumere che esista un ordine mondiale - presunzione che la scienza
moderna condivide con la mitologia antica, al fine di rendere possibile la
conoscenza - essa ha anche il diritto di presumere che quest'ordine possieda
una sua intelligibilità o un significato, e che possa essere tradotto dal
pensiero umano in una serie di rapporti finalizzati. Dal concetto di fine,
di obiettivo, contenuto implicitamente nella nozione di ordine universale, i
filosofi greci derivavano il diritto a parlare di "giustizia" e di
"conflitto" nell'ordine cosmico, di "attrazione" e di "repulsione", di
"ingiustizia" e di "compenso". Vista la necessità di giungere ad una
filosofia della natura che renda possibile una visione ecologica più acuta e
profonda nei rapporti contorti dell'uomo con il mondo naturale, esiste anche
per noi il bisogno, meno mitico, di sviluppare una nuova sensibilità di tipo
ellenico.
L'illuminismo, svuotando il concetto di legge di ogni contenuto, ha prodotto
il cosmo oggettivo, ordinato ma privo di significato. Laplace, il più grande
astronomo di quel periodo, nella sua famosa risposta a Napoleone non solo
eliminò del tutto Dio dalla descrizione del cosmo, ma soppresse anche
l'ethos classico che reggeva l'universo. Tuttavia, l'Illuminismo lasciò
all'ethos un campo d'azione - il campo sociale, nel quale l'ordine aveva
ancora un significato e il cambiamento aveva uno scopo. Il pensiero
illuminista mantenne la visione etica di una umanità morale che si poteva
educare a vivere in una società morale. Questa visione, fortemente
impregnata dei concetti di libertà, di uguaglianza e di razionalità,
costituì il fertile terreno sul quale si svilupparono, nel secolo seguente,
il pensiero socialista e anarchico.
Per colmo d'ironia, Marx completò il pensiero illuminista riportando nella
società il cosmo di Laplace - non in modo rozzamente meccanicistico, ma
certamente da scienziato, in aperta e violenta opposizione con ogni forma di
utopia sociale. Assai più significativo dell'idea di Marx, secondo il quale
egli avrebbe dato al socialismo una base scientifica, è il fatto, secondo il
quale egli diede basi scientifiche al "destino" sociale. Di conseguenza, gli
"uomini" erano da considerarsi (secondo le parole dello stesso Marx nella
prefazione a Il capitale) la "personificazione delle categorie
economiche, i portatori di interessi di classe particolari", e non individui
dotati di volontà e capaci di perseguire finalità etiche. L'umanità era
divenuta l'oggetto di una legge sociale, una legge privata di ogni
significato morale, come la legge cosmica di Laplace. La scienza non era più
semplicemente un mezzo per descrivere la società, ma era divenuta il destino
stesso della società.
Ciò che appare particolarmente significativo in questa sovversione del
contenuto etico della legge - in questa sovversione della dialettica - è il
modo in cui la dominazione è elevata a fatto naturale. Essa è connessa alla
libertà, come condizione preliminare e necessaria all'emancipazione sociale.
Marx, che in un certo senso si avvicinò alla concezione hegeliana, secondo
la quale la realizzazione delle potenzialità umane passava attraverso la
consapevolezza e la libertà, non possiede un criterio morale o spirituale
intrinseco per affermare questo destino. Tutta la sua teoria è
prigioniera della riduzione dell'etica a legge, della soggettività ad
oggettività, della libertà a necessità. La dominazione diviene ammissibile
come condizione preliminare e necessaria alla libertà, il capitalismo
come condizione preliminare e necessaria al socialismo, la
centralizzazione come condizione preliminare e necessaria alla
decentralizzazione, lo stato come condizione preliminare e necessaria al
comunismo. Sarebbe stato sufficiente affermare che il progresso materiale e
tecnologico è condizione preliminare e necessaria alla libertà, ma Marx,
come vedremo, dice molto di più e in modo tale che se ne possono trarre
implicazioni sinistre per la realizzazione della libertà. I limiti che il
pensiero libertario più puro poneva ad ogni trasgressione oltre i confini
morali dell'agire sono bollati come "ideologia" e liquidati. Naturalmente,
anche Marx avrebbe considerato una società totalitaria come una malefica
deviazione dalla sua visione sociale; tuttavia, il suo apparato teoretico
non contiene formulazioni etiche tali da escludere il concetto di
dominazione dalla sua analisi sociale. Secondo l'ottica marxiana, una
esclusione di questo genere avrebbe dovuto essere la conseguenza di una
legge sociale oggettiva - del processo della "storia naturale" -, cioè di
una legge moralmente neutrale. Perciò il concetto di dominazione non può
essere criticato nei termini di un'etica che si richiami intrinsecamente
alla giustizia e alla libertà; lo si può criticare - o convalidare - solo
sulla base di leggi oggettive con una loro propria validità, che esistono,
cioè, al di sopra degli "uomini" e al di sopra delle "ideologie". Questo
errore, che trascende il problema dello "scientismo" marxista, si rivela
fatale, poiché apre la via alla dominazione, che diviene l'incubo latente in
ogni forma e in ogni successiva rielaborazione dell'ideale marxista.
La conquista della natura
La sua drammatica importanza diviene evidente se esaminiamo le basi su
cui si sviluppa l'ideale di Marx, poiché scopriamo che, a questo livello, il
concetto di dominazione assume una funzione "guida" e chiarificatrice. Assai
più rilevante della concezione marxista di sviluppo sociale come "storia dei
conflitti di classe" è l'idea del passaggio dell'umanità dallo stadio
animale a quello sociale, dello "sradicamento" dell'umanità dall'"eternità
ciclica della natura e del suo inserimento nella temporalità lineare della
storia. Per Marx, l'umanità assurge a una dimensione sociale solo quando
l'"uomo" acquisisce gli strumenti tecnici e le strutture istituzionali che
gli consentono di "conquistare" la natura; una "conquista" che presuppone la
sostituzione della parrocchialità tribale con l'umanità "universale", dei
rapporti di parentela con dei rapporti economici, del lavoro concreto con il
lavoro astratto, della storia naturale con la storia sociale. In questo
risiede il carattere "rivoluzionario" del ruolo che il capitalismo gioca
sulla scena sociale. "L'era borghese della storia deve creare le basi
materiali per un mondo nuovo - da una parte, il rapporto universale fondato
sulla mutua dipendenza degli uomini, e i mezzi per questo rapporto;
dall'altra, lo sviluppo delle forze produttive dell'uomo e la trasformazione
della produzione materiale in dominazione scientifica degli agenti
naturali", scriveva Marx il Le future conseguenze della dominazione
inglese in India (Luglio 1853). "L'industria e il commercio borghesi
creano queste condizioni materiali per un mondo nuovo nello stesso modo in
cui le rivoluzioni geologiche hanno creato la superficie della terra. Quando
una grande rivoluzione sociale avrà preso possesso dei risultati dell'era
borghese, dei mercati mondiali e delle forze moderne di produzione, e avrà
sottoposto ogni cosa al controllo esercitato in comune da tutti i popoli più
progrediti, solo allora il progresso dell'umanità cesserà di assomigliare a
quell'orrenda divinità pagana, che beveva il nettare solo nei teschi dei
nemici uccisi".
L'autorevolezza delle formulazioni di Marx - lo schema evoluzionistico,
l'uso di analogie geologiche per illustrare lo sviluppo storico, il rozzo
scientismo con cui affronta i fenomeni sociali, l'oggettivizzazione delle
azioni umane in una sfera al di là di ogni valutazione etica e
dell'esercizio della volontà dell'uomo - è ancora più sorprendente, se si
pensa al periodo in cui esse appartengono (il "periodo" dei Grundrisse).
Inoltre, le sue affermazioni sono sorprendenti anche se pensiamo alla
"missione" storica che Marx attribuiva agli inglesi in India: la
"distruzione" dei modi di vita tradizionali della civiltà indiana ("la
distruzione della vecchia civiltà asiatica") e la "rigenerazione" dell'India
come nazione borghese ("porre le fondamenta materiali per una società di
tipo occidentale in Asia"). La coerenza di Marx merita rispetto, non certo
una dissennata rimanipolazione di idee classiche con esegetico eclettismo,
né un abbellimento teoretico o un "ammodernamento" che porti a conclusioni
rafforzate e prese a prestito da ideologie del tutto estranee al suo
pensiero. Riguardo al concetto di sviluppo storico come conquista della
natura, Marx è assai più rigoroso dei suoi futuri seguaci e dei neo-marxisti
dei giorni nostri. All'incirca cinque anni più tardi, nei Grundrisse,
avrebbe parlato della "grande influenza civilizzatrice del capitale" in
termini pienamente coerenti con il concetto della "missione" inglese in
India: "la creazione (da parte del capitale) di un livello scoiale, al cui
confronto tutti i livelli precedenti appaiono come progressi
estremamente localizzati, come idolatria della natura. Per la prima
volta, la natura diviene semplicemente un oggetto per l'umanità, un mero
strumento; cessa di essere considerata una potenza e una forza in se stessa,
e la conoscenza teoretica delle sue leggi indipendenti diviene solo uno
stratagemma per soggiogarla ai bisogni dell'uomo, sia come oggetto di
consumo, sia come mezzo di produzione. Seguendo questa strada, il capitale
si è spinto oltre i confini delle nazioni e oltre i pregiudizi; oltre la
deificazione della natura e il soddisfacimento ereditario e auto-sufficiente
dei bisogni esistenti, delimitati entro confini ben definiti; infine, oltre
la riproduzione dei modi di vita tradizionali. Ha esercitato, in questo
senso, un ruolo incessantemente distruttivo, rivoluzionario, abbattendo
tutti gli ostacoli che si frapponevano allo sviluppo delle forze produttive,
all'espansione dei bisogni, alla diversificazione della produzione, allo
sfruttamento e allo scambio delle forze naturali intellettuali".
Queste parole potrebbero essere tratte direttamente dalla concezione di
D'Holbach della natura come "immenso laboratorio", dal peana di D'Alambert
nei confronti della nuova scienza, che "travolge tutto dinanzi a sé... come
un fiume che ha rotto gli argini", dall'ipostatizzazione di Diderot del
ruolo della tecnica nel progresso umano, dall'atteggiamento favorevole di
Montesquieu verso la violenza alla natura - atteggiamento che, combinato ad
arte con la metafora di William Petty sulla natura come "madre" e sul lavoro
come "padre" di tutti i beni materiali, rivela chiaramente la matrice
illuminista del pensiero marxiano. Come osservò Ernst Cassirer a proposito
dell'Illuminismo: "Tutto il diciottesimo secolo fu permeato da questa
convinzione, e cioè che fosse giunto ormai il momento di privare la natura
dei suoi segreti, tanto accuratamente celati, non lasciarla più
nell'oscurità, come un mistero incomprensibile, dinanzi al quale provare
meraviglia, di sottoporla finalmente alla chiara luce della ragione e di
analizzarne tutte le forze fondamentali". (La filosofia dell'Illuminismo).
Anche prescindendo dalle radici illuministiche della dottrina marxista, la
concezione della natura come "oggetto" che l'"uomo" deve usare porta non
solo alla totale materializzazione della natura, ma anche dell'"uomo"
stesso. In realtà, i processi storici si muovono, anche più di quanto Marx
fosse disposto ad ammettere, ciecamente, come quelli naturali, nel senso che
entrambi mancano di ogni consapevolezza. L'ordine sociale si sviluppa
secondo leggi che sono sovrumane tanto quanto l'ordine naturale. La teoria
marxista considera l'"uomo" come l'impersonificazione di due aspetti della
realtà materiale: in primo luogo, come produttore, che definisce se stesso
attraverso il lavoro; in secondo luogo, come essere sociale, con funzioni
prevalentemente economiche. Quando Marx dichiara che "gli uomini si
distinguono dagli animali perché sono dotati di una coscienza, perché
seguono una religione, o per qualsiasi altra ragione, (tuttavia essi stessi)
cominciarono a distinguersi dagli altri animali quando iniziarono a produrre
i mezzi per il proprio sostentamento" (L'ideologia tedesca), egli
si riferisce all'umanità come a una "forza" del processo produttivo,
distinta dalle altre "forze" materiali solo in conseguenza della capacità
dell'"uomo" di concettualizzare le operazioni produttive che gli animali
compiono istintivamente. È difficile stabilire con esattezza quanto questa
concezione dell'umanità si distacchi da quella classica. Per Aristotele,
l'"uomo" esprimeva la propria umanità per il fatto di vivere in polis
e perché era in grado di "rendere bella la propria esistenza". Tutto il
periodo greco distingueva gli "uomini" dagli animali per le loro facoltà
razionali. Se il "modo di produzione" non deve essere considerato
semplicemente un mezzo per la sopravvivenza, bensì un "modo di vita",
tale per cui l'"uomo" si identifica con "ciò che produce e con il
modo di produrre" (L'ideologia tedesca), allora l'umanità
può essere considerata uno strumento di produzione. La dominazione
dell'"uomo sull'uomo" è soprattutto un fenomeno tecnico, piuttosto
che un fenomeno etico. Secondo questa concezione incredibilmente
riduttiva, la validità della dominazione dell'"uomo sull'uomo" si deve
valutare solo in termini di bisogni e possibilità tecniche, per quanto
sgradito avrebbe potuto essere un simile criterio anche a Marx, se ne avesse
compreso appieno la brutale evidenza. Anche la dominazione, come vedremo a
proposito del saggio di Engels, Sull'autorità, diviene così un
fenomeno tecnico necessario alla realizzazione della libertà.
La società, a sua volta, diviene un modo di lavorare, da valutarsi in
rapporto alla sua capacità di soddisfare i bisogni materiali. La società di
classe non potrà essere eliminata finché il "modo di produrre" non
consentirà di disporre di tempo libero e di benessere materiali sufficienti
a realizzare l'emancipazione dell'uomo. Finché non raggiungerà un livello
tecnico soddisfacente, il processo evolutivo dell'"uomo" non sarà completo.
In questo senso, gli ideali comunitari delle epoche passate erano pura
ideologia, poiché un tentativo prematuro di realizzare una società
egualitaria "generalizzerebbe solo i bisogni, e con i bisogni si
riprodurrebbero inevitabilmente i conflitti e tutti i vecchi problemi" (L'ideologia
tedesca).
Infine, anche qualora si raggiungesse un livello tecnico adeguato, "la
libertà non potrà realizzarsi finché il bisogno e le necessità esterne
renderanno indispensabile il lavoro dell'uomo. È nella natura stessa delle
cose che la libertà risieda al di fuori della sfera della produzione
materiale, nel significato più comune del termine. Anche l'uomo civilizzato,
come il selvaggio, deve lottare con la natura per soddisfare i propri
bisogni, per salvaguardare la propria vita e per riprodurla, e ciò è vero in
tutte le società e con qualsiasi modo di produzione. Con il progresso, si
ampliano anche le necessità naturali, perché aumentano i bisogni, ma nel
contempo si accrescono anche le forze produttive, per mezzo delle quali i
bisogni vengono soddisfatti. In una situazione cosiffatta, la libertà può
consistere solo nel fatto che l'uomo socializzato e i prodotti associati
regolino i loro scambi con la natura in modo razionale e la assoggettino al
comune controllo, invece di farsi governare da essa come da una forza cieca
e incontrollata; infine, nel fatto che essi assolvano questo compito col
minore spreco di energie e nelle condizioni più adeguate e più consone alla
natura umana. Tuttavia, ciò attiene ancora alla dimensione del bisogno,
della necessità. Oltre questa dimensione ha inizio lo sviluppo della
potenzialità umana, fine a se stesso, ovvero la dimensione della libertà,
che tuttavia può realizzarsi solo sulle fondamenta della necessità e del
bisogno. Premessa e condizione essenziale a questo sviluppo è la riduzione
dell'orario di lavoro" (Il capitale, vol. III). Lo schema
concettuale borghese raggiunge qui il suo punto culminante nelle immagini
del "selvaggio che deve lottare con la natura", dell'espansione illimitata
dei bisogni contrapposta alla limitazione "ideologica" degli stessi (ovvero,
alla concezione ellenica di misura, di equilibrio e di autosufficienza),
della razionalizzazione della produzione e del lavoro come obiettivi fini a
se stessi di una natura puramente tecnica, della netta dicotomia tra libertà
e necessità e del conflitto con la natura come condizione della vita sociale
in tutte le sue forme: di classe e non di classe, privatistica o
comunitaria.
In conseguenza di ciò, oggi il socialismo si muove entro un'orbita nella
quale, per usare le parole di Max Horkheimer, "la dominazione della natura
comporta la dominazione dell'uomo" non solo "la sottomissione della natura
esterna, umana e non umana", ma anche della natura interiore dell'uomo (L'eclisse
della ragione). In seguito alla separazione dal mondo naturale,
l'"uomo" non può sperare di redimersi dalla società di classe e dallo
sfruttamento finché lui stesso, come forza tecnica tra le forze tecniche
create dal suo stesso ingegno, non riuscirà a trascendere la propria
oggettivazione. La condizione preliminare e necessaria a questo superamento
è quantitativamente commensurabile: "premessa e condizione essenziale a
questo sviluppo è la riduzione dell'orario di lavoro". Finché ciò non si
sarà realizzato, l'"uomo" sarà sottoposto alla tirannia della legge sociale,
alla schiavitù del bisogno e della necessità di sopravvivenza.
Il proletariato, come tutte le altre classi, è prigioniero dei processi
impersonali della storia. Come classe maggiormente soggetta alla
disumanizzazione operata dalla società borghese, esso può trascendere la
propria oggettivazione solo attraverso il carattere "urgente, non più
mistificabile e assolutamente imperativo dei propri bisogni...". Per Marx,
"il problema non è ciò che questo o quel proletariato, o anche tutto il
proletariato, considera come suo obiettivo. Il problema è che cosa è il
proletariato e che cosa, in conseguenza del suo essere, deve fare". (La
sacra famiglia) Il suo "essere", qui, è un oggetto, e la legge sociale
non è "destino", ma necessità. La soggettività del proletariato è un
prodotto della sua oggettività - concezione, questa, che per colmo d'ironia
trova una sorta di conferma nel fatto che ogni appello rivoluzionario
rivolto esclusivamente a fattori oggettivi che intervengono nella formazione
della "coscienza proletaria" o coscienza di classe si ritorcono come un
boomerang contro il socialismo, in forma di una classe lavoratrice che ha
"aderito al capitalismo" e che reclama la sua parte di benessere nel
sistema. Così, come l'azione si fonda sulla reazione e la motivazione si
fonda sul bisogno, lo spirito borghese diviene lo "spirito terreno" del
marxismo.
La disillusione della natura porta alla disillusione dell'umanità. L'"uomo"
diviene un agglomerato di interessi e la coscienza di classe diviene la
generalizzazione di questi interessi a livello di coscienza. Nella misura in
cui il concetto classico di realizzazione di individuo attraverso la
polis perde terreno di fronte al concetto di auto-conservazione
attraverso il socialismo, il pensiero borghese acquista un grado tale di
sofisticazione, che i suoi primi portavoce (Hobbes, Locke) sembrano quasi
degli ingenui. Ora l'incubo della dominazione si rivela in tutta la sua
logica autoritaria. Come la necessità diviene il fondamento della libertà,
così l'autorità diviene il fondamento di ogni coordinazione razionale.
Questo concetto, già implicito nella netta separazione operata da Marx tra
la dimensione della necessità e quella della libertà - una separazione che
sarà aspramente criticata da Fourier -, viene definito in termini espliciti
nel saggio di Engels, Sull'autorità. Per Engels, la fabbrica è un
fatto naturale della tecnica, non un modo specificatamente borghese per
razionalizzare il lavoro: di conseguenza, essa dovrà esistere nella società
comunista, così come in quella capitalista, "indipendentemente
dall'organizzazione sociale". Perché sia possibile coordinare l'attività
della fabbrica, è necessario che le maestranze rinuncino ad ogni "autonomia"
e "obbediscano ciecamente". Nella società classista e nella società senza
classi, la dimensione della necessità sarà sempre una dimensione di autorità
e di obbedienza, di governanti e governati. In modo assolutamente coerente
all'ideologia di classe, Engels considera l'abbinamento tra socialismo,
autoritarismo e comando come un fatto perfettamente naturale. Da attributo
sociale, la dominazione diviene condizione essenziale alla sopravvivenza in
una società tecnicamente avanzata.
Gerarchia e dominazione
Strutturare un ideale rivoluzionario su una "legge sociale" priva di
qualsiasi contenuto etico, su un ordine privo di significato, su un aspro
contrasto tra "uomo" e natura, sulla necessità piuttosto che sulla
consapevolezza - tutto ciò, oltre al fatto di considerare la dominazione una
condizione essenziale alla libertà e l'associa invece al concetto
esattamente opposto, cioè quello della coercizione. La consapevolezza
diviene il riconoscimento della mancanza di autonomia, così come la libertà
diviene il riconoscimento della necessità. Ne deriva una politica
"libertaria" che riflette lo sviluppo della società capitalistica più
avanzata verso la nazionalizzazione della produzione, verso la
pianificazione, la centralizzazione, il controllo razionalizzato della
natura - e il controllo razionalizzato dell'"uomo". Se il proletariato non
sa comprendere da solo il proprio "destino", un partito che parla in suo
nome può definirsi come espressione della sua coscienza, anche se opera in
senso contrario agli interessi di quella classe. Se il capitalismo è il
mezzo attraverso il quale l'umanità opera storicamente la conquista della
natura, le tecniche dell'industria borghese dovranno solo essere
riorganizzate per servire la causa del socialismo. Se l'etica non è altro
che ideologia, gli obiettivi del socialismo sono il prodotto della storia,
piuttosto che dell'intelligenza umana, e i problemi dei fini e dei mezzi per
raggiungerli dovranno essere esaminati non alla luce della ragione e della
dialettica, ma secondo i criteri dettati dalla storia.
Alcuni brani degli scritti di Marx sembrano potersi contrapporre a questo
quadro ripugnante del socialismo marxista. Nel suo "Discorso per
l'anniversario del "Giornale del Popolo" (aprile 1856), ad esempio,
Marx definisce "infame" la schiavitù dell'"uomo" nel tentativo di
conquistare la natura. La "luce pura della scienza sembra poter brillare
solo sullo sfondo di un'oscura ignoranza" e il nostro progresso tecnologico
"sembra ottenere il risultato di conferire vita intellettuale alle forze
materiali e di tramutare, avvilendola, la vita umana in una forza
materiale". Queste valutazioni di tipo morale ricorrono negli scritti di
Marx più come spiegazioni di uno sviluppo storico che come giustificazioni
tali da dargli significato. Ma Alfred Schmidt, che le cita estesamente nel
suo Il concetto di natura in Marx, dimentica di dirci che Marx le
considera spesso un segno di immaturità e di sentimentalismo. Il "discorso"
di fa beffe di coloro che "piangono" sulle miserie che il progresso
tecnologico e scientifico porta con sé. "Da parte nostra", dichiara Marx,
"non sottovalutiamo l'acume di chi non cessa di sottolineare queste
contraddizioni. Sappiamo che per fare funzionare al meglio le forze nuove e
agguerrite delle società occorrono uomini agguerriti - e da tali uomini è
formata la classe operaia". Il discorso, infatti, si conclude con un tributo
all'industria moderna e in particolare al proletariato inglese, il
"primogenito dell'industria moderna".
Anche se consideriamo autentiche le affermazioni di Marx, esse restano
tuttavia marginali rispetto al contenuto dei suoi scritti. Il tentativo di
redimere Marx e alcune parti della sua opera dalla logica che ispira il suo
pensiero è puramente ideologico, perché impedisce di valutare con chiarezza
il significato del marxismo nelle sue applicazioni pratiche e di comprendere
in quale misura un'"analisi di classe" possa svelare le cause
dell'oppressione. Eccoci dunque giunti al punto cruciale, al punto debole
della teoria socialista in generale: i limiti dell'analisi di classe, la
possibilità di interpretare la storia e le crisi dei giorni nostri per mezzo
di una teoria basata sui rapporti di classe e di proprietà.
Il socialismo anti-autoritario - e, specificatamente, il comunismo anarchico
- si fonda sul concetto secondo il quale la gerarchia e la dominazione non
possono essere classificate nell'ambito del dominio di classe e dello
sfruttamento economico, e secondo il quale questi due fenomeni rivestono
un'importanza assai maggiore ai fini di una reale comprensione dell'ideale
rivoluzionario. Prima che l'"uomo" iniziasse a sfruttare l'"uomo", cominciò
a dominare la donna; e ancora prima, se accettiamo il parere di Paul Radin,
i vecchi iniziarono ad esercitare il loro potere sui giovani attraverso la
gerarchia dei gruppi di età, delle gerontocrazie, del culto degli antenati.
La dominazione degli esseri umani su altri esseri umani è di molto
antecedente la stessa formazione delle classi sociali e dei modi di
oppressione economica. Se "la storia di tutte le società finora
esistite è la storia dei conflitti di lasse", essa è preceduta da una fase
storica più remota, e più importante: quella della dominazione sociale ad
opera delle gerontocrazie, del patriarcato, e anche delle burocrazie.
Indagare sulle origini della gerarchia e della dominazione non è,
evidentemente, lo scopo di questo scritto. Ho esaminato a fondo il problema
nel mio libro The Ecology of Freedom (L'ecologia della libertà), di
prossima pubblicazione. L'indagine ci porterebbe oltre i confini
dell'economia politica, nella sfera dell'economia domestica e passeremmo
dalla dimensione sociale a quella familiare, dal conflitto di classe a
quello sessuale. Disporremmo così di una nuova serie di dati e di
riferimenti psico-sociali, attraverso i quali interpretare il carattere e la
natura dell'oppressione, e saremmo in grado di aprire un nuovo orizzonte e
di attribuire un significato nuovo e diverso alla libertà. Dovremmo
sicuramente accantonare la funzione che Marx assegna all'interesse e alla
tecnica come fattori sociali determinanti - il che non significa negarne la
funzione storica, ma semplicemente indagare anche nell'ambito di fattori non
economici, quali lo status sociale, l'ordine, il riconoscimento,
nell'ambito, cioè, di diritti e doveri che rappresentano forse persino un
peso, dal punto di vista materiale, per gli strati dominanti della società.
Una cosa, perlomeno, è chiara: non si potrà più sostenere che una società
senza classi, senza sfruttamento materiale, sarà necessariamente una società
liberata. Nulla fa pensare che la burocrazia sia incompatibile con una
società senza classi, la dominazione della donna, i giovani, i gruppi etnici
e persino le categorie dei professionisti.
Tutto ciò dimostra i limiti dell'opera di Marx, la sua incapacità di
comprendere una dimensione storica tanto importante per la dimensione della
libertà stessa. Nei confronti dell'autorità Marx è così cieco da farla
diventare un fatto puramente tecnico della produzione, un "fatto naturale"
nel rapporto metabolico dell'"uomo" con la natura. Anche la donna non è
sfruttata perché l'uomo l'ha resa docile (o "debole"), per usare un termine
con il quale Marx definiva il lato del carattere femminile che considerava
più amabile), ma perché il suo lavoro è legato alla schiavitù dell'uomo. I
bambini sono "fanciulleschi", espressione di una natura umana selvatica e
indisciplinata. La natura, è inutile dirlo, non è altro che un oggetto, e
con un'azione di questa conquista bisogna impadronirsi delle sue leggi e
controllarle.
Non può esistere una teoria marxista sulla famiglia, sul femminismo,
sull'ecologia, perché Marx nega l'esistenza di questi problemi o, peggio, li
tramuta in problemi economici. Di conseguenza, il tentativo di formulare il
femminismo in termini marxiani si risolve nella sterile richiesta di
"salario per le casalinghe", la psicologia marxista non è altro che una
rilettura di Freud attraverso Marcuse e l'ecologia vista con gli occhi di
Marx rivela soltanto che "l'inquinamento giova al profitto". Lungi dal
consentire una chiarificazione di questi problemi, che gioverebbe a una più
esatta definizione dell'ipotesi rivoluzionaria, questi tentativi di
ibridazione li rendono ancora più oscuri, e non ci aiutano a capire che le
donne della "classe dominante" sono dominate, a loro volta, dagli uomini
della loro stessa classe, che Freud è semplicemente l'alter ego di Marx, che
il raggiungimento dell'equilibrio ecologico presuppone una nuova sensibilità
e una nuova concezione etica, le quali non solo differiscono dal pensiero
marxista, ma sono in netto contrasto con esso. Il marxismo non è solo la più
sofisticata ideologia del capitalismo di stato, ma impedisce una concezione
veramente rivoluzionaria della libertà. Esso altera a tal punto la nostra
percezione dei problemi sociali, da non consentirci di formulare un'ipotesi
rivoluzionaria valida per ciò che concerne i rapporti tra i sessi, la
famiglia, la comunità, l'educazione e lo sviluppo di una sensibilità e di
un'etica realmente rivoluzionarie. Ad ogni passo ci imbattiamo in categorie
economiche che reclamano la priorità assoluta e che compromettono fin
dall'inizio l'esito dell'impresa. Anche a limitarsi ad emendare o a
modificare queste categorie economiche significa riconoscere il loro peso e
la loro influenza nel programma rivoluzionario in forma alterata, senza
porre in dubbio il rapporto che le lega ad alcuni aspetti fondamentali.
Significa, in sostanza, avviare la nostra analisi in un vicolo cieco.
L'elaborazione e lo sviluppo di un'ipotesi rivoluzionaria deve prescindere
fin dall'inizio dalle categorie marxiane e deve prendere le mosse, invece,
dalle categorie create dalla società gerarchica ai suoi primi albori, per
collocare poi le categorie economiche nel loro giusto contesto. Ciò che
vogliamo demolire non è più soltanto il capitalismo, bensì un mondo più
antico e arcaico, che sopravvive nel presente - la dominazione degli esseri
umani da parte di altri esseri umani, il fondamento razionale della
gerarchia in quanto tale.